M5s, prove di governo. Renzi: niente inciuci
Stefano Folli (Repubblica): «Dimissioni? Se lo sono, Matteo Renzi ieri sera ha scritto una pagina inedita nella storia dei partiti politici. Dimissioni posticipate: se fossimo in banca sarebbero un titolo future, in quanto rinviate a un domani non del tutto definibile, collegate come sono all’elezione dei presidenti delle Camere e forse alla formazione del nuovo governo. Del resto, il baricentro del breve e aguzzo discorso, il primo dopo la disfatta e del tutto privo di autocritica, era tutt’altro: lanciare una sfida ai notabili superstiti del suo partito, metterli sulla graticola e ricordare loro che il potere di eleggere il segretario — o di condizionarne l’elezione — non è nelle loro mani, bensì spetta all’assemblea plenaria attraverso il ricorso alle mitiche “primarie”.
Così il leader di un Pd uscito stritolato dalle elezioni cerca di non abbandonare la scena e lo fa aprendo una guerra contro i nemici interni, vale a dire i Franceschini, i Minniti, gli Orlando. Il tema delle dimissioni in tutto questo affiora e scompare, come in un gioco di ombre cinesi. Forse Renzi lascerà la segreteria, certo non oggi, ma nel frattempo è lui a indicare la linea politica di cui si propone come il “garante”. Non è una linea appena abbozzata, da definire con il gruppo dirigente. Al contrario, è una posizione cruciale da cui dipende la legislatura appena nata e forse la sopravvivenza stessa del Pd, in quanto esclude qualsiasi sostegno a governi in cui siano presenti “gli estremisti”, i Cinque Stelle da un lato e Salvini dall’altro. E poiché il capo della Lega oggi esercita un’egemonia sull’intero centrodestra, avendo scavalcato nettamente Forza Italia, è come se Renzi avesse escluso qualsiasi accordo con chiunque, a sinistra come a destra».
Di Maio cerca alleati nel Pd
Maurizio Molinari (La Stampa): «Ciò che accomuna i vincitori del 4 marzo non sono le radici nell’Europa del Dopoguerra bisognosa di pace ma nell’Europa della protesta contro gli effetti della globalizzazione iniziata dopo la Guerra Fredda. I partiti tradizionali di matrice socialista e popolare hanno chiuso gli occhi davanti all’entità della protesta. Che aveva, ed ha, molteplici genesi: disoccupazione giovanile, delocalizzazione delle aziende, concorrenza sleale, perdita di speranze, corruzione, criminalità locale, presenza di migranti, assenza di speranze. Se l’Europa guarda, con timori e sospetti, verso Roma è perché ciò che accomuna Di Maio e Salvini è un approccio conflittuale all’Unione europea, alla Bce e all’euro. E la nuova legislatura include nel 2019 le elezioni europee, con la nomina della Commissione e delle più alte cariche dell’Ue, ovvero l’Italia avrà voce in capitolo e diritto di veto – al pari di ogni partner – su decisioni di valore strategico. Questo è il motivo per cui Steve Bannon, teorico del nazional-populismo americano, vede nell’“Italia dei populisti” un possibile cavallo di Troia dentro l’Unione europea» (su Steve Bannon, vedi anche Anteprima di ieri).