Antonio Troise
Dieci finanziarie, quasi il 13% del Pil, una cifra che solo a pronunciarla fa impressione: 208 miliardi di euro. E, dentro questo numero, non c’è solo il lavoratore al nero o l’azienda che non paga le tasse o evade i contributi. C’è tutta la grande area dell’illegalità, appannaggio delle organizzazioni criminali: dalla prostituzione al contrabbando. Fino alla droga che, da sola, vale più o meno 11,8 miliardi di euro: un giro di affari da grande multinazionale. E’ vero che, dopo anni di crescita ininterrotta, quella che l’Istat chiama “economia non osservata” ha registrato una brusca inversione di tendenza. Non si sa se a causa della crisi o se perché, nel frattempo, una quota di lavoro nero sia rientrata nell’area della legalità. Resta il fatto che il “sommerso” continua a rappresentare una componente “strutturale” del nostro sistema economico, con le sue tantissime ombre. A cominciare, ovviamente, dai pesanti effetti che ha sui conti pubblici e sulle entrate fiscali. Senza considerare le conseguenze sul piano della concorrenza, con le imprese “illegali” che mettono puntualmente “fuori mercato” le aziende sane e con la coscienza a posto. Un vero e proprio buco nero del nostro sistema economica. Che non solo complica notevolmente la vita agli statistici, che devono valutare lo stato di salute di un Paese. Ma che, di fatto, condiziona pesantemente la crescita dell’economia. Con la buona pace di chi, in passato, ha utilizzato proprio il peso del sommerso per sostenere la tesi di una crescita del Pil più consistente rispetto ai dati ufficiali. Magari per scalare qualche posizione nella classifica dei Paesi più ricchi.
La verità è che, nonostante i tanti proclami, nessun governo è riuscito veramente ad adottare contromisure adeguato per combattere il sommerso. O, almeno, quella parte di economia al mero che si trova fuori dal controllo della criminalità, nella zona grigia dove galleggiano imprese che potrebbero fare tranquillamente il gran saldo nella legalità. Il problema, in questo caso, non è solo dei controlli o delle sanzioni, che pure ci sono e risultano in molti casi efficaci. Il nodo da sciogliere è soprattutto normativo. Fino a quando il nostro sistema legislativo continuerà ad essere fortemente stratificato e inutilmente complicato, sarà estremamente difficile convincere imprese, che hanno sempre dribblato norme e imposte, a pagare quanto dovuto allo Stato. Molto probabilmente, un sistema fiscale più “amichevole” e una burocrazia meno asfissiante, potrebbe essere più utile di un ulteriore inasprimento delle sanzioni o di una maggiore estensione dei controlli. Occorrerebbe, forse, partire da qui prima di lanciarsi nell’immancabile e ripetitivo grido di allarme sulle dimensioni dell’economia sommersa. Per invertire la rotta, insomma, più che le parole servirebbero finalmente fatti concreti.