di Concetta Colucci
Il linguaggio mafioso. Scritto, parlato, non detto di Giuseppe Paternostro, primo testo della collana I Saggi edito da AutAut edizioni, di Francesca Calà e Salvo Spitalieri.
Un libro che affronta l’argomento Mafia da un punto di vista non consueto, quello della comunicazione che lo ha contraddistinto, rafforzandolo.
Difficilmente quando parliamo di mafia, parliamo del linguaggio della mafia. Eppure il linguaggio trasferisce la nostra rappresentazione del mondo, descrive chi siamo. Solo attraverso il linguaggio si possono trasferire i concetti, le idee e anche le cose “indicibili”.
Giuseppe Paternostro, ricercatore di linguistica italiana nel dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Palermo, analizza il linguaggio della mafia partendo dagli elementi che ne rappresentano la complessa struttura comunicativa, dalle testimonianze ai processi, dalle intercettazioni, ai “pizzini“ e le “lettere di scrocco“, ragionando anche su silenzi e messaggi sottintesi che sono parte della stessa struttura. Lo abbiamo intervistato.
Cosa significa lavorare sul linguaggio della mafia a Palermo:
“Potrei rispondere banalmente che lavorare a Palermo sul linguaggio della mafia non è molto diverso che lavorare sulla lingua della mafia da qualunque altra parte. Non fosse altro per il fatto che quella che lei stessa chiama ‘lingua della mafia’ è una varietà linguistica a metà fra il gergo e il registro, che ha un dominio di impiego e utenti circoscritti e circoscrivibili e che va ben delimitata nella sua definizione se non si vuol cadere, come spesso accade, in facili stereotipi. Tuttavia, oltre che scontata, sarebbe anche una risposta di comodo, anche se in parte è una risposta vera sul piano metodologico. Sicuramente, chi è nato e vive tuttora in questa città non può non essere anche solo sfiorato (qualcuno anche pesantemente permeato) dal linguaggio mafioso, che non è esattamente sinonimo di lingua della mafia, anche se il titolo del libro potrebbe indurre a crederlo. Studiando il linguaggio della mafia a Palermo, non ho potuto, infatti, non finire per fare i conti con tutte quelle espressioni linguistiche e discorsive le quali, anche quando non provengono da ambienti mafiosi, tuttavia ne richiamo stili e contenuti, a dimostrazione di quanto la mafia sappia infiltrarsi in tutta quanta la società.”
Un lavoro di ricerca sui codici verbali scritti e orali, sulle parole di Cosa Nostra, sul sistema comunicativo e sulla sua evoluzione negli anni. Paternostro analizza il gergo mafioso, un sistema comunicativo che, identificando solo in coloro che lo utilizzano e lo comprendono, i membri del gruppo, automaticamente esclude tutti gli altri, isolandoli e isolandosi.
E’ questo un sistema che lavora nel silenzio e nella segretezza, ma che paradossalmente si riconosce proprio attraverso la lingua che usa.
“In effetti sarebbe molto interessante provare a individuare gli elementi lessicali di quello che potremmo definire il ‘nuovo gergo della mafia’. Tuttavia, uno dei paradossi del gergo è che può essere studiato quando perde il suo carattere di segretezza. Sicuramente l’immensa mole documentale rappresentata dalle intercettazioni ambientali contribuirà a gettare luce e a scoprire qualcuna di queste parole nuove (in realtà risemantizzate). Magari potrebbe essere l’oggetto di un prossimo studio.”
Dunque quali sono le regole di questo codice linguistico?
“Poco fa accennavo al rischio di cadere negli stereotipi, i quali, banalizzando i tratti della lingua della mafia possono anche finire per banalizzare lo stesso fenomeno mafioso. Nel libro provo a mettere in guardia il lettore da questo rischio. Di conseguenza, sarei molto cauto nel parlare di regole, se per regole intendiamo un insieme di regole di funzionamento di tipo strettamente linguistico. Parlerei, piuttosto, di regole pragmatiche, che vincolano in qualche modo la comunicazione dei membri dell’organizzazione. In questa prospettiva direi che la stella polare di tutti i mafiosi è l’obbedienza assoluta all’organizzazione (quell’umiltà a cui più di uno studioso riconduce etimologicamente la parola ‘omertà’), la quale è alla base di due delle caratteristiche più salienti di tutti i discorsi pubblici dei mafiosi (quella che gli studiosi hanno chiamato ‘comunicazione esterna’): il negare, anche di fronte all’evidenza, l’esistenza stessa dell’organizzazione e, in ogni caso, la sua appartenenza ad essa; la necessità di parlare per allusioni e per non detti, in modo da lasciare il più ampio spazio possibile alle interpretazioni dei destinatari”
Paternostro affronta un lavoro sulle fonti, interviste, dichiarazioni, intercettazioni, appunti, lettere degli uomin, in un percorso che parte dai primi del 900 e si conclude con i post sui più importanti social media del momento.
“Per la mia formazione di sociolinguista il lavoro sulle fonti è fondamentale e costituisce il pane quotidiano del mio lavoro. Le fonti per un linguista non possono che presentarsi sotto forma di testi: testi parlati e testi scritti, nelle forme più diverse, comprese anche quelle che oggi riguardano le nuove tecnologie (i social network in particolare). Una riflessione metodologica sulle fonti è cruciale ogni qual volta ci si imbarca in uno studio su un fenomeno linguistico o comunicativo. Nel caso di questo libro, le fonti su cui ho lavorato sono state di tre tipi: fonti scritte (in particolare i pizzini di Provenzano), fonti digitali e digitate (gli interventi su Facebook, social network oggi sempre più sfruttato anche dai mafiosi) e fonti orali (deposizioni in aula e interviste). In particolare, l’uso delle fonti orali presente alcune importanti implicazioni di carattere metodologico. Ho, infatti, dovuto procedere a una trascrizioni integrale di questi materiali, nonostante siano ovviamente disponibili i verbali di interrogatorio, in quanto l’obiettivo che mi ponevo io non è di carattere investigativo, ma linguistico e di conseguenza avevo bisogno di una trascrizione il più possibile fedele al testo realmente prodotto.”
La parola non scritta è stata il sostegno della logica comunicativa nei can mafiosi, tuttavia il supporto cartaceo dalle “lettere di scrocco”, messaggi anonimi lasciati nelle masserie dei proprietari di fondi per chiedere loro denaro, ai pizzini di Provenzano, sono stati altrettanti strumenti di comunicazione, sia per l’esterno e che per il clan. In questo contesto, anche termini come “famiglia” o “amicizia” acquisiscono nuovi significati che al contesto si adeguano, ogni messaggio è uno strumento per esercitare potere sul proprio destinatario. Se il linguaggio mafioso, con il suo codice era costruito per rendersi impenetrabile, l’uso dei media diventa strumentale per questo stesso scopo per informare, nascondendo, su azioni da fare o elementi da occultare. Nessun messaggio è mai casuale e va sempre interpretato, laddove sull’interpretazione si giocano poi gli equilibri della comunicazione stessa. Il modus operandi di Cosa Nostra si fa riconoscibile e negli anni è stato possibile individuare quella continuità che gli ha consentito di sopravvivere ad un secolo e mezzo di storia.
“Un lavoro divulgativo, ma in un’accezione che io ritengo positiva del termine, in quanto oggi si avverte un abbassamento della guardia rispetto al fenomeno mafioso, abbassamento che inevitabilmente finirà per disperdere quel patrimonio di conoscenze acquisito nel corso degli ultimi trenta anni. Inoltre, lavori che riguardino gli aspetti strettamente comunicativi e linguistici legati alle organizzazioni mafiose sono ancora pochi. Il mio vuole essere un modesto contributo alla conoscenza.”