di Raffaele De Stefano*
Caro direttore,
in un’intervista rilasciata a il Sudonline il vicepresidente di Confindustria Caserta, Alfredo Bottazzo, è intervenuto sul problema Mezzogiorno, che dopo anni di pressoché totale oblio torna a riemergere sulla scia della cosiddetta autonomia differenziata richiesta da Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. Bottazzo prova a fornire una spiegazione dell’incapacità del Sud e delle sue classi dirigenti di rispondere adeguatamente alla cosiddetta “secessione dei ricchi”, che rischia di minare la coesione nazionale e sociale.
Secondo Bottazzo, il Mezzogiorno non può risolvere i suoi problemi senza recuperare i suoi valori identitari attraverso la riscoperta della sua storia, dalla Magna Grecia ai Borbone. Il taglio del legame con la propria storia, avvenuto al momento dell’unificazione nazionale, impedisce ai meridionali di avere consapevolezza di sé come popolo che conosce le proprie radici e che “esprime un’idea plausibile del ruolo da svolgere nel mondo di oggi e di domani”.
Il discorso di Bottazzo sfugge, però, al pericolo della torsione nostalgica verso una presunta mitica età dell’oro del Sud, manifestazione di una altrettanto presunta superiorità antropologico-culturale dei meridionali sulla “razza padana”. Si tratta di prendere atto che “che la classe dirigente del Nord è compatta e solidale quale che sia il partito o lo schieramento politico di cui è espressione. Il Mezzogiorno resta invece un condominio spezzettato in regioni troppo piccole per fare da sole, troppo divise per fare massa critica. […]Il Mezzogiorno è un puzzle disordinato e disorientato. Restano lamenti e vittimismi, che non ci fanno fare un passo avanti.”
Il recupero della consapevolezza di sé del Mezzogiorno diventa, allora, la premessa per ricomporre il “puzzle disordinato e disorientato” e per “Comunicare di più che le economie del Nord e del Sud sono interconnesse e interdipendenti. Sfidare le classi dirigenti del Centro Nord sulla necessità di attingere ai mercati del Mediterraneo, dove si trova il futuro di tutti dopo il raddoppio del Canale di Suez. Non chiedere più incentivi per le imprese, ma risorse per il capitale sociale. A partire dalle infrastrutture di base.”
Dunque, si tratta di opporre la logica delle interconnessioni e delle interdipendenze a quella della frantumazione territoriale che soggiace al modello di autonomia differenziata sostenuta dal partito trasversale del nord-fatto di politici di diversi schieramenti, imprenditori, lavoratori- che vuole liberare la “locomotiva del Nord” dalla “palla al piede del Sud”.
Come scrive Giuseppe Provenzano su Limes: “Si parla di dipendenza del Sud mentre si dovrebbe parlare più propriamente di interdipendenza, dei reciproci vantaggi che si stabiliscono tra due aree strutturalmente differenti per molte ragioni ma strettamente integrate, che non sono sistemi a parte e storicamente tendono a crescere ( e arretrare) insieme”.
L’interdipendenza Nord/ Sud era ben chiara alle classi dirigenti del Secondo dopoguerra, un’epoca nella quale il meridionalismo era patrimonio culturale comune alle diverse forze politiche.
E’ in questo humus favorevole che nascono la Svimez – nel cui nucleo originario ci furono uomini del Nord come il cattolico Pasquale Saraceno di Sondrio, anche se nato da genitori meridionali, e il socialista Rodolfo Morandi di Milano -, la Cassa per il Mezzogiorno, e vengono varate leggi come la 634 del 1957 che introdusse misure protezionistiche per l’industria meridionale.
Come ricorda il presidente della Svimez, Adriano Giannola, “ Quella protezione permise alla grande industria, specie di Stato, di sviluppare l’offerta siderurgica, chimica, insomma quelle produzioni dell’industria pesante che[…] erano fondamentali per consentire a Fiat, Ignis e agli altri colossi privati del Nord di reggere e poi vincere la concorrenza nel Mercato comune europeo”.
Quella stagione storica e quelle classi dirigenti sono da tempo archiviate e la questione cruciale oggi è: quale soggetto politico rappresenta i diritti e le istanze dei cittadini del Mezzogiorno? Quale classe dirigente è in grado di sfidare le classi dirigenti settentrionali con un progetto di Paese che tenga conto degli interessi del Sud ?
Ad oggi è difficile pensare che la rappresentanza del Mezzogiorno possa essere affidata ad una delle forze politiche esistenti. Nessun partito ha preso finora una posizione netta contro l’autonomia differenziata; tutti balbettano e fanno una serie ambigua di distinguo. Soltanto lo scorso 22 giugno CGIL, CISL e UIL, con la manifestazione a Reggio Calabria “ Ripartiamo dal Sud per unire il Paese”, hanno detto in maniera chiara il loro no all’autonomia differenziata. Evidentemente gli interessi del partito trasversale del Nord condizionano la linea dei partiti nazionali.
Recentemente esponenti di diversi partiti hanno preso posizione contro l’autonomia differenziata ma sono ancora pochi e, ad oggi, incapaci di modificare i termini del discorso e dell’agenda politica. Del resto i politici meridionali- per ignoranza, opportunismo o perché colonizzati nell’immaginario dalla falsa narrazione del Nord “virtuoso”, “efficiente” e del Sud “parassitario” e “dissipatore” di risorse pubbliche per incapacità o malaffare- hanno assistito silenti alla riforma del titolo V della Costituzione, all’approvazione e applicazione sperequativa del federalismo fiscale.
Una nuova classe dirigente meridionale e meridionalista sta, tuttavia, nascendo nel vivo del dibattito e della battaglia contro l’autonomia differenziata lanciata da un manipolo di giornalisti e intellettuali e poi ampliatisi con la nascita e il coinvolgimento di comitati e associazioni di cittadini, dei sindacati di base e di istituzioni universitarie come la Federico II di Napoli.
Questa classe dirigente in fieri ha davanti a sé il compito immediato di bloccare l’autonomia differenziata, chiedere la piena attuazione della Costituzione, che garantisce la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni- ad oggi non ancora definiti- concernenti i diritti civili e sociali di tutti i cittadini,pretendere il finanziamento integrale del fondo perequativo, attualmente finanziato al 50%, e l’attuazione della clausola del 34% degli investimenti pubblici al Sud, oggi fermi al 28% con una perdita di 61 miliardi annui impropriamente dirottati al Nord.
Questa nuova classe dirigente, sul medio termine, non dovrà limitarsi a giocare di rimessa in occasione di un prossimo attacco del partito trasversale del Nord, ma dovrà svolgere un ruolo attivo nella costruzione di un progetto di sviluppo del Mezzogiorno e dell’Italia, a partire, come sostenuto da Giannola, dalla costruzione di una mission euromediterranea dell’Europa, e nel ridisegno dell’assetto istituzionale del Paese.
Su quest’ultimo aspetto sarà necessario riflettere a partire da un bilancio dell’esperienza delle Regioni, durante la quale non si è ridotto il gap tra Nord e Sud, diminuito, invece, negli anni dell’intervento dello Stato centrale. E’ vero, tornando all’intervista di Bottazzo, che il Sud è un condominio diviso, e che un coordinamento sovraregionale darebbe al Mezzogiorno una strategia unitaria e consentirebbe di fare massa critica nel confronto con le classi dirigenti settentrionali.
Si dovrà, più in generale, interrogarsi su se e quale tipo di autonomia realizzare. Essa dovrà essere imperniata sulle Regioni o sui comuni? Quali materie dovranno essere demandate ai livelli locali? Con quali risorse? Bisognerà, di fondo, scegliere se correggere oppure inseguire la logica divisiva e di frantumazione territoriale delle scelte politiche, imposta dall’egemonia del discorso leghista; se continuare, nello scenario della competizione globale, ad essere uno stato unitario o diventare una confederazione di piccoli stati.
E’ un percorso non breve e non semplice che questa nuova classe dirigente dovrà fare in un confronto dialettico con i soggetti politici e sociali esistenti, facendo emergere le contraddizioni tra un discorso ufficiale nazionale e la concretezza di scelte politiche che tutelano gli interessi particolari di una sola parte, quella settentrionale, del Paese.
*Co-Coordinatore area Scuola e cultura Comitato meridionalista Gaetano Salvemini