Quel giorno non lo potrà dimenticare facilmente. Era il sesto o il settimo o forse l’ottavo consecutivo trascorso nello stesso, identico modo. Letto-cucina-letto-bagno-letto. In isolamento, come in una cella di clausura o di carcere, la più parte del tempo la passavo sotto il piumone, con il solo beneficio di una tv sempre accesa, giorno e notte.Aspettando una traccia o un indizio di notizia sospirata: una inversione di tendenza, dopo settimane di pessimi segnali dell’emergenza Coronavirus.
E invece niente. I contagi crescono ancora. I morti non si contano, ormai le bare da Bergamo bisogna portarle a cremare a bordo di automezzi militari. Le rianimazioni scoppiano. Circola voce che, dovendo scegliere a chi dedicarsi, i medici siano pronti a lasciare a casa chi ha più di 65 anni. Chiudiamo Codogno e Bergamo. Poi Lombardia, Veneto, Piemonte e pianura padana. Anzi, di più: in breve la quarantena riguarda l’intero Paese e l’Italia tutta diventa zona rossa.
La situazione non migliora, anzi. L’onda d’urto dell’epidemia che in breve aggredisce l’Europa, si promette terribile.La paura diventa il filo che cuce la trama dei giorni degli italiani, specie quando decine di treni portano al Sud, in una sola notte, un formidabile potenziale di contagio: decide di giovani studenti e lavoratori che non trovano di meglio, dinanzi a un disorientamento che coinvolge tutti, che rientrare alle famiglie di origine.
Li posso capire.Anche se non condivido la loro scelta. Vivo da solo e da diversi mesi in una casa piccola, anche se deliziosa, nel centro antico dellamia città. Ho i figli lontani, con la loro mamma e per come sto mi rincresce anche chiamarli. Specie in video. Sarebbe difficile dissimulare che il papà non si rade da un bel po’. E del resto non mi va di fingere. Con loro mi limito a brevi messaggi di Whatsapp. Per tutti gli altri faccio finta di aver sentito i bip.
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Da qualche giorno anche l’azienda per cui lavoro – un gruppo industriale del settore energia – ha tirato il freno.Non arrivano componenti dalla Cina, che si è fermata a sua volta già da qualche tempo, a causa dell’emergenza esplosa a Wuhan. Così farò esperienza della cassa integrazione, per la prima volta. Lavoro sì, ma a scartamento ridotto e da casa. E così è venuta meno anche la spinta ad alzarsi, la mattina, darsi una sistemata, salire in macchina per andare in ufficio.
L’umore è sceso rasoterra. I giorni si trascinano da un po’ tutti uguali, a parte il latte e il pane da comprare, ma a due passi da qui, dove i negozi di alimentari non hanno in realtà mai chiuso.
In attesa di un segnale, una svolta, un indizio. Che qualcosa inizi a cambiare.Che la strada si metta in piano dopo una faticosa salita. Che l’incubo è finito…
Credo sia questo lo stato d’animo anche di tantissimi italiani. Anche con quelli che, per avventura, sono rimasti chiusi in casa con la famiglia. Vivo in uno dei quartieri a più alta densità abitativa d’Europa, in una zona che normalmente pullula di turisti di giorno e di giovani in movida la sera, fino a notte tarda. Ma da giorni il silenzio che è calato sulle strade è surreale e si potrebbe tagliare con un coltello…
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Poi una mattina la tv dà unEra questo lo stato d’animo mio e, credo di tantissimi italiani. Condiviso in buona sostanza anche con i tanti italiani che, per avventura, sono rimasti chiusi in casa con la famiglia. Vivo in uno dei quartieri a più alta densità abitativa d’Europa, in una zona che normalmente pullula di turisti e studenti. Ma da giorni il silenzio che è calato come una cappa è surreale. Si potrebbe tagliare con un coltello…
Poi una mattina ecco l’annuncio. Il Presidente della Federazione Russa(sì proprio il Paese che da anni subisce sanzioni a cui non abbiamo posto un freno) ha disposto di imbarcare su un paio di Tubolev, accanto a tonnellate di medicinali e presidi sanitari, un nutrito gruppo di medici e infermieri.Con l’obiettivo di venire in aiuto dell’Italia in un momento particolarmente critico. Ascolto e riascolto la notizia da un canale all news, per sincerarmi di aver capito bene. Mi sovviene alla memoria mio padre, il suo racconto di quando, nel 1945, apprese che i soldati sovietici erano arrivati a Berlino, alzando sul tetto del Reichstag la bandiera rossa. Me ne ha parlato tante volte, ma credo di aver compreso bene che cosa abbia provato soltanto adesso.
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Oggi è il 10 maggio 2020. Leggo che quel drappello di medici e infermieri sono rientrati in Russia da Bergamo avvolti in una cortina di silenzio, con la sola eccezione di un articolo su un paio di giornali locali.Un esito indegno per un Paese che nei secoli ha elaborato una cultura dell’ospitalità e dell’amicizia che affonda le radici nel mondo classico. Un epilogo che ha suscitato in me – e ne sono certo, nella maggioranza degli italiani – uno sdegno profondo.
Io che scrivo non rappresento alcun potere e non ho dalla mia che il mio pensiero.Nessuno mi ha dato mandato di parlare a nome di nessuno. Ma ho una sorella, un fratello, un cognato e un nipote: tutti infermieri, tutti ancora in prima linea.Ed a loro nome che avverto l’esigenza di chiedere scusa.
Chiedo sommessamente scusa per un Paese, il mio, che evidentemente ha smarrito il senso della propria dignità e del rispetto altrui. E sonosicuro che chi in Italia ha perduto un congiunto,senza nemmeno la possibilità di tributargli l’ultimo saluto celebrando un funerale, chi ancora è in ambascia per un parente o un amico in ospedale, chi sta facendo sacrifici per contenere le conseguenze sanitarie ed economiche della pandemia: tutti loro non possono che esprimere a Voi, medici e infermieri venuti in nostro soccorso, tutti i sensi della più profonda gratitudine.
Aggiungo: se c’è un Dio – ovunque sia e comunque si chiami – mi auguro che protegga il popolo russo per molti anni a venire.
Claudio D’Aquino