FLORIDA CITY, FL - FEBRUARY 06: Workers pick tomatoes in the fields of DiMare Farms on February 6, 2013 in Florida City, Florida. The United States government and Mexico reached a tentative agreement that would go into effect around March 4th, on cross-border trade in tomatoes, providing help for the Florida growers who said the Mexican tomato growers were dumping their product on the U.S. markets. (Photo by Joe Raedle/Getty Images)

Nunzio Marcelli*

Parafrasare Toto’ è fin troppo facile. La grande attenzione suscitata giustamente dal nuovo “caporalato” in agricoltura per il reclutamento di manovalanza sottopagata e senza diritti (ma assicuriamo che ne esistono di analoghi in altri settori, tipico quello dell’edilizia e nelle enclave cinesi in italia, fabbriche e centri commerciali che cominciano ad ingaggiare manodoperra italiana, e non solo al Sud) ha fatto esprimere già più volte diversi Ministri della Repubblica in materia.

Certo, serve l’impegno alla repressione. Certo, servono i controlli. Tuttavia ci sembra che sfugga un elemento fondamentale: la tutela dell’agricoltura che serve davvero al nostro paese, l’agricoltura tradizionale, i piccoli produttori, i prodotti di qualità. A chi ci dice che sembra Davide contro Golia, rispondiamo: sì; infatti come Davide siamo convinti che si possa vincere contro il gigante che vuole che tutto debba essere quantità, che tutto dipenda dai grandi numeri, dalla produzione in serie, che portano al latifondo e al caporalato, appunto.

Si può fare: se l’Italia, come dovrebbe aver già fatto da tempo, e le Regioni, che gestiscono i fondi europei per l’agricoltura, si decidono ad investire davvero seriamente sui prodotti di filiera, di qualità, sulle produzioni da valorizzare, e sul certificare – seriamente – l’origine del prodotto, e garantire con marchi controllati la produzione ad emissioni zero (che esiste ed è quella che non tiene gli animali in stalla ma al pascolo, che non sparge ovunque fertilizzanti chimici ma punta su un prodotto che non è più “di nicchia”, ma oggi può raggiungere tanti mercati diversi, anche all’estero, dove sono sempre più richiesti prodotti sani e buoni, come i nostri territori sanno fare, se li sosteniamo invece di darli in pasto al mercato globale dove non possono competere). Emergono sempre più realtà di società di capitali, senza nessun legame con i territori, che affittano i terreni stagionalmente per sfruttarli in modo intensivo, anche grazie alle pratiche di caporalato, e poi abbandonarli, non senza aver attinto ai fondi comunitari: realtà per le quali la predazione è fonte di grandi profitti, mentre nel mondo “Italia” vuol dire buona cucina, mangiare bene. E mangiare bene dipende, prima di tutto, dal produrre buono: buono in senso di sano, ma anche di etico, rispettoso del territorio e delle persone.

Il caporalato è un fenomeno rilevante, ma è solo la punta dell’iceberg di un paese che non sa più riconoscere i valori del suo territorio, la qualità della sua agricoltura e allevamento, che non sa dare forza e voce a chi ogni giorno fa grande il nome dell’Italia nel mondo.

Cari Ministri (e care Regioni), se è sfruttamento far lavorare nei campi le persone a due euro all’ora, non è forse atto di pirataggio mettere negli spot animali al pascolo e fattorie con galline che razzolano all’aperto solo per far vendere prodotti industriali, realizzati in stabilimenti dove gli animali è tanto se hanno mai visto una volta il cielo? Si sfrutta l’immagine della buona agricoltura con una pubblicità ingannevole, mentre Regioni, Stato e Comunità Europea abbandonano a se’ stesse le piccole produzioni e le filiere. Si continua a dire che si vuole la qualità, ma si temono le lobby della quantità, che continuano a dettare l’agenda.

In questo modo, inutile dirlo, siamo di nuovo e ancora tutti caporali.

*Presidente Arpo (Associazione Allevatori Ovicaprini d’Abruzzo)