I conti sono fatti: l’importo medio mensile di reddito e pensione di cittadinanza dovrebbe attestarsi a 500 euro per nucleo familiare, per un totale di 1,7 milioni di famiglie. «Il Rei ha un beneficio medio sul nucleo di circa 25o euro: noi quasi lo raddoppiamo», spiegano dal team che cura il dossier al ministero del Lavoro. Secondo l’Osservatorio statistico Inps, da gennaio a settembre 2018 il reddito di indusione introdotto dal Governo Gentiloni ha interessato 379mila famiglie povere per un importo medio mensile di 305 euro. Non è affatto detto, però, che lo schema di articolato sul reddito di cittadinanza trasmesso all’Economia non venga ulteriormente rivisto, alla luce delle osservazioni attese dai tecnici della Ragioneria generale dello Stato.

La coperta è già corta. Il fondo in manovra ammonta attualmente a 9 miliardi per il 2019: 7,1 per il reddito, 900 milioni per le pensioni di cittadinanza e un miliardo per la riforma dei centri per l’impiego. II decollo in primavera (da marzo le domande, da aprile i sussidi), secondo i consulenti del ministro Di Maio, permetterebbe di risparmiare 2,25 miliardi. Ma potrebbero servirne di più, se durante la trattativa per sventare la procedura di infrazione avviata dalla Commissione Ue risultasse necessario dirottare ancora più risorse dalle spese agli investimenti, in particolare a quelli scomputabili dal deficit. Tagliando il 2,4% del tetto deficit-Pil anche oltre lo 0,2% su cui i leaderdi M5S e Lega hanno ormai aperto.

Per questo sono tornate a circolare le voci, seccamente smentite ieri da Palazzo Chigi e da Di Maio, di uno slittamento ancora più incisivo, con una partenza (anche per quota 100) non da aprile ma da giugno. L’unica certezza è che il M5S deve onorare il piatto forte e storico del suo programma. Anche se la riforma dei centri per l’impiego, centrale per il buon finanziamento del reddito, è ancora di là da venire. Da qui potrebbero forse arrivare altri risparmi, se l’anno prossimo non dovesse essere speso il miliardo previsto.

L’atteggiamento dialogante rispetto alla Ue mostrato dal governo riguardo alla manovra ha determinato reazioni positive da parte dei mercati finanziari, lo spread è sceso sotto quota 300 e la borsa di Milano ha fatto registrare una ripresa. Se la reazione dei mercati è stata positiva, è interessante capire qual è la reazione a caldo dei cittadini. Quando si tratta di definire le caratteristiche della legge di bilancio le valutazioni non sono affatto univoche: la maggioranza relativa (29%) ritiene che faccia crescere il debito pubblico e spaventi gli investitori, a seguire il 19% è del parere che dia impulso alla crescita, il 13% pensa che favorisca l’assistenzialismo e il 12% che riduca le diseguaglianze sociali. Ma un italiano su quattro (27%) non è in grado di esprimersi. Le opinioni sono in larga misura influenzate dall’orientamento politico, come era lecito attendersi: gli elettori della maggioranza accentuano la valenza positiva dei provvedimenti (crescita e riduzione delle diseguaglianze vengono citati dal 68% dei pentastellati. È interessante osservare che un leghista su cinque la considera assistenzialista e nel bacino degli indecisi e degli astensionisti, che oggi rappresentano «il primo partito», i giudizi negativi prevalgono su quelli positivi, al netto della maggioranza relativa che non ha un’opinione. L’equilibrio tra rilancio della crescita, tenuta dei conti pubblici e credibilità sui mercati divide: rappresenta un obiettivo raggiungibile per il 37% degli italiani mentre il 41% si mostra scettico.

E il calo del Pil non aiuta. Il «governo del cambiamento» non immaginava di trasformarsi in soli sei mesi nel «governo del meno». Quel segno — come si sono affrettati a sostenere Di Maio e Salvini — sarà pure «un’eredità del passato», la conseguenza di «politiche economiche sbagliate», dunque la prova che «avevamo ragione a voler invertire la rotta». Ma è chiaro ai due vice premier che — di qui in avanti — l’unico modo per restare alla guida dell’esecutivo con la fiducia dell’opinione pubblica, sarà recuperare al proprio fianco il «generale Pil». Cambiando a loro volta la rotta, come da mesi veniva suggerito. Ce n’è traccia nei ragionamenti ultimi di Savona, nei consigli a suo tempo cestinati del sottosegretario grillino Buffagni, e nelle intemerate del leghista Giorgetti. Molti si chiedono di questi tempi se questo governo durerà ancora a lungo. Una cosa “e certa” spiega Roberto D’Alimonte sulle colonne del Sole 24 Ore: “Se questo governo cadesse non sarebbe possibile metterne insieme un altro dentro l’attuale parlamento. Non è plausibile un governo del centro-destra sostenuto da una massa di transfughi del Movimento. Né è plausibile un governo Pd-M5s. L’esito della crisi sarebbero le elezioni anticipate. Con quale possibile risultato? Sulla base della media dei sondaggi che vediamo da settimane è praticamente certo che il centro-destra, guidato da Salvini, arrivi alla maggioranza assoluta dei seggi”.