Otto ragioni per valutare le opzioni scadute del tempo passato e le opportunità possibili del futuro remoto nelle linee guida del Masterplan del Governo Renzi
di Massimo Lo Cicero
Leggiamo sul sito web del Governo la prima bozza del masterplan promesso prima dell’estate. Sono 20.568 caratteri per 3060 parole. Francamente la prima impressione è la malinconia, le cose passate del buon tempo antico negli ultimi venticinque anni, dopo la crisi del 1992 e la sciagura del federalismo regionale; poi rileggi le pagine e ti sembra deludente il contenuto dello scritto ma, in fondo, leggendolo per la terza volta ti accorgi che il documento è solamente ridondante. E che almeno otto punti emergono dalla marea degli oltre 20.000 caratteri.
In primo luogo si deve chiarire che masterplan e legge di stabilità non possono convivere. Il masterplan ambisce ad avere una strategia ed una visione: strumenti e tempo per arrivare ai traguardi. Insomma è una prospettiva per il lungo periodo. Basa pensare ad uno dei grandi progetti di cui si sente parlare – la ferrovia Napoli Bari – della quale i massimi dirigenti, del ministero competente, dicono che si realizzerà nel 2022. Ovviamente la legge di stabilità è cosa molto diversa: deve diventare legge entro il prossimo gennaio e detterà le condizioni per realizzare una congiuntura che possa saldare il 2015 alla speranza che il 2016 sia il primo passo di una crescita potenziale per l’Italia intera. La legge è uno strumento di breve periodo e, dunque, la convivenza tra i due strumenti non deve e non può sussistere. Ma, nel masterplan fanno capolino azioni e strumenti che potrebbero rimanere nel testo della legge. Se desideriamo ridurre lo scarto tra Nord e Sud non basta la legge ma serve un piano strategico: cioè un masterplan rivisto e meno ridondante.
Il secondo punto da affrontare sono le modalità, preoccupanti, che indicano una strana forma di governo: una cabina di regia, che si allarghi all’Agenzia per la coesione territoriale ma possa condividere anche le azioni del Dipartimento per le politiche di coesione, ed Invitalia. Troppo diverse nel tempo, trascorso, e nelle funzioni attribuite loro queste organizzazioni. Unificarle o farle cooperare tra loro? E se si affiancano anche Regioni e città metropolitane, ma per altre azioni di sviluppo? Non sembra una scelta felice.
Mentre un riordino che semplifichi l’ingerenza degli organismi pubblici nelle scelte imprenditoriali sarebbe utile. Anche perchè – questa è la terza osservazione – non si trova traccia di politiche di relazione tra banche ed imprese per accelerare la ripresa della crescita. In cambio, quarta osservazione, servirebbero sia la Cassa Depositi e Prestiti che la Banca europea degli Investimenti, per dare forza e presenza ad un piano Junker, che avrebbe dovuto decollare entro il 2015, e del quale, invece, si parla poco. Peccato, perché questo piano di 300 miliardi di euro sarebbe la risposta idonea alla creazione di infrastrutture ed investimenti reali, dalla banda larga all’energia: cioè il complemento della politica fiscale rispetto alla politica monetaria non convenzionale che Draghi sta governando dalla BCE.