Le prime pagine e le notizie in evidenza sui giornali di martedì 18 giugno 2019
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ECONOMIA E FINANZA
Salario minimo. Dopo aver dovuto ingoiare dalle elezioni europee del 26 maggio tutti i diktat di Matteo Salvini, Luigi Di Maio prova a rialzare la testa. Infatti il vicepremier pentastellato intende accelerare sul salario minimo tanto che ieri ha convocato una riunione a palazzo Chigi, e sul taglio delle tasse per il ceto medio. La proposta “grillina” sul salario minimo è contenuta nel Ddl Catalfo, attualmente all’esame della commissione Lavoro del Senato, dove oggi inizierà l’esame degli emendamenti, prevede che il trattamento minimo orario previsto dal ccnl non può essere inferiore a 9 euro lordi. Sempre ieri si sono svolte alcune audizioni sul salario minimo alla Camera, dove sono state presentate tre risoluzioni rispettivamente da Lega, Pd e Fdi (non da Fi che è fermamente contraria): per il rappresentante dell’Aran, Pierluigi Mastrogiuseppe, fissare una soglia minima a 9 euro lordi l’ora «potrebbe avere un impatto anche sulla spesa pubblica, visto che alcuni servizi acquistati dalla Pa presentano retribuzioni inferiori». E un impatto sul costo del lavoro si avrebbe anche sui servizi esternalizzati dalla Pa. Secondo Di Maio, «è questo il prossimo passo da fare. Restituire dignità a 3 milioni di lavoratori sottopagati. È una legge presente in tanti Paesi europei e l’Italia non può restare a guardare». Nella riunione a Palazzo Chigi il vicepremier fa anche un altro passo che, al netto del botta e risposta con la Lega, in realtà avvicina le posizioni dei due azionisti di maggioranza. «Bisogna restituire dignità a milioni di lavoratori sottopagati ma al contempo occorre aiutare le imprese uccise dalle tasse». L’idea, quindi, è che il salario minimo viaggi in parallelo al taglio del cuneo fiscale, le tasse sul lavoro, che dovrebbe trovare posto nella prossima legge di Bilancio.
La condizione dell’industria in Italia. Da diversi mesi ormai, circa trecentomila lavoratori hanno visto il loro reddito tagliato e spesso il loro futuro compromesso dalla minaccia o dalla realtà di un licenziamento, in oltre 150 crisi aziendali grandi e piccole, le più note delle quali rispondono al nome di Whirlpool, Mercatone Uno e Arcelor Mittal, senza che nemmeno una venisse effettivamente affrontata e risolta nei cosiddetti «tavoli» in cui normalmente si esercita l’azione dei Ministeri dello Sviluppo Economico e del Lavoro che fanno capo entrambi a Luigi Di Maio. Le assunzioni che slittano e le crisi aziendali che vanno tranquillamente avanti, senza veri tentativi di contrastarle, danno la misura della «questione industriale» e sono il risultato finale di alcuni decenni di progressivo allontanamento della società e della politica italiana dalla comprensione delle logiche produttive e spesso anche delle logiche dell’economia. Il ritorno alla crescita non può che passare dalla scienza e dall’industria. Ma le difficoltà del settore chimico-industriale oggi sono davanti agli occhi di tutti. Nei primi mesi del 2019 il settore, per la prima volta dall’ultima crisi, si è fermato: l’andamento della produzione segna crescita zero. Se poi guardiamo alle prospettive, non sono incoraggianti: per la seconda parte dell’anno, secondo i dati del centro studi di Federchimica, la produzione in Italia sarà stagnante, con possibili rischi di calo se il contesto macroeconomico, nazionale o internazionale, subisce un ulteriore deterioramento. «Tornare a crescere – dice Lamberti presidente di Federchimica – è imperativo». La congiuntura I numeri dicono che, diversamente dal passato, l’indebolimento non riguarda solo la domanda interna, ma si estende anche all’export che, nel primo trimestre, ha registrato – 0,3% in valore. È questa la media dello 0,2% delle esportazioni extra Ue e dello 0,6% di quelle in Europa, che rappresenta la principale destinazione dell’export chimico italiano con una quota del 60%. E per molte imprese è, di fatto, il mercato domestico di riferimento. L’Europa per i chimici è importante, non solo come mercato, ma anche come riferimento politico: «L’Europa deve essere rafforzata e non indebolita. Servono politiche stabili e di lungo periodo che favoriscano competitività e innovazione. È necessario che la politica industriale torni in cima alle priorità europee: auspichiamo la presenza di un Commissario di rilievo in grado di coordinare una vera politica industriale, che incentivi anche nuove eccellenze, in ambito manifatturiero e digitale».
POLITICA INTERNA
Csm: interviene Mattarella. Assume una forza simbolica la presenza del presidente Sergio Mattarella venerdì al plenum del Csm. La preoccupazione sulla delegittimazione della magistratura è infatti vivissima da parte della presidenza della Repubblica. «Una crisi istituzionale con pochi precedenti», la definisce una fonte. A una settimana dall’esplosione del mercato delle nomine è questa infatti la principale preoccupazione che anima il Quirinale: il potere giudiziario, un architrave dello stato di diritto, è finito nel fango di uno scandalo. E tutto ciò è successo proprio mentre in Italia governano i populisti. Anche perciò, s’intuisce, il presidente sarà presente a palazzo dei Marescialli, anche se in fondo si tratta di una seduta in teoria tecnica, relativa all’insediamento dei nuovi componenti del Csm, e all’indizione delle elezioni supplettive dei due componenti del Consiglio tra i pm. Ma stavolta la presenza va nettamente al di là della necessità formale imposta dal ruolo. La torbida manovra di schizzare di fango il Quirinale da parte dei protagonisti dello scandalo si è sgonfiata rapidamente, era un tentativo tra i più maldestri: e questo ormai è chiaro a tutti. Però restano le conseguenze di quanto sta avvenendo. Ovvero, la delegittimazione della magistratura. E pertanto Mattarella, con la sua presenza attiva come presidente, legittima e fa andare avanti l’attuale Csm. Pur tra dimissioni, sostituzioni, future elezioni per due posti scoperti. Accade venerdì 21, alle 9 di mattina. Quando il capo dello Stato varcherà la soglia di palazzo dei Marescialli per presiedere la seduta in cui si cercherà di chiudere, anche se non del tutto, lo scandalo che ha costretto al passo indietro ben cinque consiglieri togati su sedici. Uno, Luigi Spina, sotto inchiesta a Perugia, gli altri quattro perché partecipi di cene in cui, presenti politici (i dem Luca Lotti e Cosimo Ferri), si faceva mercato delle nomine al vertice delle più importanti procure italiane. Gianluigi Morlini (Unicost), Antonio Lepre e Corrado Cartoni (Mi), si sono dimessi. Esita Paolo Criscuoli (Mi) convinto che il suo coinvolgimento sia marginale. Tant’è. Mattarella, che tre giorni fa ha già invitato il Consiglio a “voltare pagina”, venerdì siglerà con la sua presenza accanto al vice presidente David Ermini la necessità di andare avanti. Perché, se il Csm cadesse e si votasse ora, lo si farebbe con le stesse regole, che tutti dicono di voler cambiare. E allora Mattarella decide di esserci. Assisterà ai lavori in cui entrano due nuovi consiglieri, Giuseppe Marra e Ilaria Pepe, entrambi della corrente Davigo, che prendono il posto di Morlini e Cartoni. Se Criscuoli si dimettesse gli subentrerebbe Bruno Giangiacomo di Area. Bisognerà attendere le elezioni del 6 e 7 ottobre per coprire i due posti da pm.
Timori e scontri nel M5S. Salvini sta cercando ogni pretesto per buttare giù il governo. Dobbiamo mantenere i nervi saldi è come un’aria di fatalità che strozza il respiro a Luigi Di Maio e a tutti i suoi uomini. Il sentimento di assedio, invisibile ma pervicace, è il prodotto dell’incertezza e della paura: cosa vuole fare davvero Matteo Salvini? È stata questa la domanda che ha aleggiato per tutto il tempo dell’incontro tra il capo politico e i ministri del M5S a Palazzo Chigi. Un confronto che qualcuno di loro attendeva da settimane, reputandolo necessario dopo la disastrosa sconfitta delle Europee. A quella domanda una risposta decisa e granitica non c’è stata, ma i grillini riuniti hanno condiviso una convinzione: che Salvini abbia ancora in testa di rompere prima del 20 luglio. E il viaggio in Usa del leghista, circonfuso dalla luce dei massimi vertici dell’amministrazione Usa, non ha fatto che irrobustire questi timori. Quella data è l’ossessione di Di Maio. Perché arrivarci con il governo ancora integro vorrebbe dire chiudere la finestra elettorale di settembre. E dunque del 2019. Nonostante qualcuno dei suoi lo stia persuadendo anche del fatto che a Salvini non convenga così tanto rompere e affrontare in solitaria una legge di Bilancio campale, Di Maio non riesce a togliersi dalla testa che il leghista sia alla ricerca della deflagrazione. Così, mentre Di Maio sta cercando di contenere il suo compagno di governo e di riorganizzare il Movimento, al suo interno Di Battista attacca. E lo fa in un libo appena pubblicato. Un de profundis del governo, in 126 paginette di agile «pamphlet», come lo definisce lo stesso Alessandro Di Battista. Una piccola bomba a mano tirata sul governo, su Matteo Salvini e su Luigi Di Maio. I parlamentari non hanno ancora letto il testo, uscito ieri, ma sono bastate le prime anticipazioni per scatenare una rivolta contro l’ex Subcomandante che, indeciso se andare al fronte o restare nelle retrovie, ha pensato bene di minare dalle fondamenta l’esecutivo. Perché, scrive nelle ultime righe, se continuano «gli squallidi giochi di potere», il Movimento deve fare il Movimento: «Un conto è fare un patto di governo, un altro è essere complici». L’esternazione di Di Battista viene contestata nelle molte chat che viaggiano tra i parlamentari.
POLITICA ESTERA
Salvini negli Usa. La missione americana del vicepremier Matteo Salvini è andata come da programma, ma non ha risolto i dilemmi strategici frapposti tra il nostro paese e gli Stati Uniti e che rischiano di protrarsi anche se il presidente repubblicano Donald Trump dovesse cedere la Casa Bianca all’opposizione democratica, nel 2020. Salvini, con consueta capacità di comunicazione mimetica, s’è comportato da militante dell’asse filosofico trumpiano, dalla rigidità contro l’emigrazione, alla difesa degli interessi nazionali che, screziata di protezionismi, detesta le istituzioni multilaterali e privilegia la diplomazia «Uno a Uno», alternando rotture chiassose a plateali accordi di convenienza. Le antiche ideologie occidentali vengono dissecate in slogan roboanti, poi prevale, giorno per giorno, un pragmatismo senza troppe ubbie: ecco la linea di condotta condivisa dai due estroversi leader, Trump e Salvini. A Washington il ministro degli Interni ha saputo indossare anche un insolito, almeno in casa, saio digitale di umiltà, spiegando a un importante analista Usa «Io? Io sono solo un vicepremier», quando invece sa benissimo che l’onore del colloquio con il vicepresidente Mike Pence, accordato a pochi uomini di governo stranieri, raddoppiato dal meeting bilaterale con il segretario di Stato Mike Pompeo, dove son stati discussi i nodi difficili, sono il riconoscimento ufficiale dell’alleato americano al successo elettorale leghista alle Europee di maggio. Al termine del viaggio molti i quesiti sollevati.
Esistono due diverse chiavi di lettura per interpretare la trasferta a Washington di Matteo Salvini. La prima è quella più volte battuta in questi giorni, ossia del leader che «pensa in grande» e dunque cerca di rafforzare la sua interlocuzione politica al di là dell’Atlantico. La seconda, è quella del dialogo tra due fenomeni, politici e di costume, definiti dal mainstream come anomali, con molti tratti in comune e dunque destinati a parlarsi: il trumpismo americano e il salvinismo italiano. E anche se in agenda non era previsto un colloquio dei due diretti interessati, il ministro dell’Interno italiano e il 45esimo Presidente degli Stati Uniti, i rispettivi mondi ora si parlano.
La morte di Morsi in Egitto. La notizia della morte dell’ex presidente egiziano Mohamed Morsi, «caduto a terra dopo un’udienza di 5 minuti e deceduto durante il trasferimento d’urgenza in ospedale», arriva sotto tono come era accaduto per la sua designazione alla corsa al dopo Mubarak, emersa a sorpresa per ovviare alle tante incandidabilità dei veri leader della Fratellanza Musulmana in quella primavera cairota di 7 anni fa, quando il grande Paese nordafricano sembrava in procinto di votare democraticamente per la prima volta nella sua storia. Allora Morsi, uno dei funzionari del partito islamico più facili da incontrare nei mesi successi alla rivoluzione di Tahrir, era stato scelto e poi eletto, battendo di poco l’uomo della business community Ahmed Shafik, grazie ai voti o all’astensione dei giovani liberal ma anche di intellettuali come Alaa El Aswany, pronti a tutto per non riavere il Faraone. Sempre tanti gli interrogativi in Occidente sulla cosiddetta Fratellanza. Una fratellanza mondiale, che però ha avuto in Egitto la sua culla storica, il suo fondatore nel 1928, un maestro di scuola di Ismailia, Hassan al-Banna, e una lunga e ramificata saga in parte anche terroristica, che rimanda a tutto il mondo su nn ita. Questo è l’universo dei “fratelli musulmani”, con le loro costole addirittura filo-americane, per esempio nel Kuwait grato agli USA per la liberazione dall’occupazione irachena, o in quelle non estremiste del partito tunisino Ennahda. Ma che in Egitto ha invece sempre costituito una spina nel fianco dei militari, dei laici, della stessa stabilità mediorientale. A Gaza la Fratellanza ha indossato i panni di un’organizzazione terroristica come Hamas, che spara missili sui quartieri civili delle cittadine israeliane. In Egitto, il regime del generale nonché presidente Al Sisi ha individuato negli affiliati alla “Muslim Brotherhood” la minaccia fondamentale allo Stato, e ha scatenato di conseguenza una guerra senza quartiere a migliaia di “fratelli”, imprigionandone a migliaia, uccidendoli, condannandone a morte centinaia, giustiziandone decine e decine.