Stefano Stefanini, La Stampa
L’incontro di ieri di Sergio Mattarella con Recep Tayyip Erdogan dimostra che l’Italia è ancora capace di far politica estera. E che, nel magma dei compromessi e del piccolo cabotaggio che ci vede spesso al rimorchio di altri, questa politica estera ha ancora un’anima e un ancoraggio ai valori fondanti della Costituzione e della nostra società civile. E quando questi sono sul tappeto il Presidente della Repubblica non esita a intervenire. Stefano Stefanini su La Stampa, commenta la visita del presidente turco a Roma. Chi scrive – sottolinea Stefanini – ne è stato testimone per sette anni e con due Presidenti. Il presidente turco è arrivato in Italia con un messaggio articolato all’Europa. Oggi l’Ue ha a che fare con un Erdogan non più plasmabile. Il presidente turco è diventato transattivo: il rapporto è diventato un «do ut des» in cui il presidente turco ha spesso il coltello dalla parte del manico, vedi flussi migratori. Bruxelles paga la conseguenza dei propri errori. Il presidente Mattarella avrà simpatizzato con Recep Tayyip Erdogan sulle indecisioni e contraddizioni dell’Ue. Avrà ribadito che l’Italia vede il futuro della Turchia in Europa, una linea mantenuta coerentemente nel succedersi di governi a Palazzo Chigi. Le porte, tutte le porte devono restare aperte. Ma Ankara deve sapere che se sceglie Europa e Atlantico anche il suo comportamento, tanto all’interno quanto all’esterno deve essere coerente. Se questo è stato il messaggio di Mattarella a Erdogan – e credo lo sia stato – il Quirinale ha fatto ancora una volta politica estera. Che è fatta sì d’interessi nazionali, ma d’interessi che poggiano sulle fondamenta delle idee e dei valori in cui ci riconosciamo. E questo va detto anche a amici come il presidente turco. La «franchezza» di ieri è tutta lì. Dal 1500 il Quirinale è stata la casa di papi, re e presidenti. Ha i cromosomi dell’autorevolezza. Quando fa politica estera non scherza.
Stefano Folli, Repubblica
A pochi giorni dalla doppia tragedia di Macerata — prima la morte e lo smembramento di una povera ragazza per cui è in carcere un immigrato nigeriano, subito dopo il raid razzista e la tentata strage da parte di uno squilibrato fascistoide — colpiscono due aspetti della vicenda. Lo scrive Stefano Folli nel suo punto su Repubblica. Il primo – scrive Folli – riguarda la sostanziale assenza della politica e in parte delle istituzioni, rimaste entrambe alquanto silenziose rispetto all’enormità degli eventi. Anche la solidarietà alle vittime, sia le persone di colore rimaste ferite sia i familiari della giovane Pamela il cui corpo è finito in due valigie, è stata fin qui molto parca, una discrezione degna di miglior causa. E’ mancata quasi del tutto una riflessione alta, rivolta non al 4 marzo bensì al futuro della convivenza civile e in definitiva alla qualità della nostra democrazia. Unendo e non separando i due gravissimi episodi. Perché non si può negare che tali episodi sono legati da un nesso perverso. Dopo Macerata il centrosinistra sembra piuttosto impacciato; timoroso di difendere la sua idea di integrazione rispetto a una destra aggressiva che, invece di mettersi sulla difensiva dopo il raid e la sparatoria, continua a occupare spavaldo il centro della scena. L’impressione è che il Pd non stia combattendo con sufficiente energia una battaglia che è morale e culturale prima ancora che politica. Non solo il leader di Forza Italia si è ben guardato dal prendere le distanze dal capo della Lega; al contrario ha rilanciato con la proposta, buttata lì in fretta e furia, di espellere 600 mila clandestini. Significa che il “moderato” Berlusconi teme l’“estremista” Salvini. Salvini ha già alzato le vele, Berlusconi si adegua. Pure Grillo affida al suo blog un’analisi ambigua per cui il vero razzismo oggi è il pensiero “globalista”. Forse al Pd non basta ripetere qualche slogan per contrastare l’accelerazione in atto.
Ernesto Galli della Loggia, Corriere della Sera
Sarebbe interessante sapere chi, quale Paese, si riprenderà mai i seicentomila immigrati che Berlusconi ha promesso, se vince le elezioni, di cacciare via dall’Italia. Ernesto Galli della Loggia, sul Corriere della Sera, affronta il tema dell’immigrazione. Nessuno lo sa – scrive della Loggia -, e naturalmente non ne ha una minima idea neppure Berlusconi stesso. Basterebbe questo a indicare l’incosciente superficialità con cui la classe politica italiana è abituata a trattare il tema dell’immigrazione. È la stessa superficialità, del resto, che l’ha portata a lasciare in vigore a tutt’oggi la legge Bossi-Fini. Se tanto mi dà tanto non stupisce che in queste ore la reazione della nostra classe politica ai fatti di Macerata non sappia andare oltre lo sdegno virtuoso dei buoni sentimenti, da un lato, e il losco calcolo politico dall’altro. Sempre accompagnati però da nessun’idea, da nessuna proposta, da nessuna capacità di trarre qualche lezione non retorica da quanto è successo. Che invece di lezioni e indicazioni importanti ne contiene parecchie. L’attuale solitudine politica di città e territori produce una disarticolazione complessiva del Paese e nelle collettività un sentimento di abbandono e di frustrazione dagli esiti imprevedibili; oltre naturalmente a far dipendere il governo solo dal canale informativo rappresentato dalle prefetture. Il primo e più ovvio percorso d’integrazione per gli immigrati dovrebbe consistere ovviamente in un lavoro. Ma non in un lavoro purchessia: in un inquadramento lavorativo legale. Qui comincia però la demenza burocratico-amministrativa italiana: essendo clandestini gli immigrati, infatti, non possono essere assunti legalmente se non dopo procedure assai complesse. Dunque anche il loro lavoro resta in un gran numero di casi un lavoro «clandestino», in nero e sottopagato.