Economia e Finanza
Guerra dei dazi, venerdì nero in Borsa. Il conflitto commerciale tra Stati Uniti e Cina entra in una fase inedita e potenzialmente drammatica: a impasse e guerre di trincea si è sostituito lo spettro d’una indefinita escalation che stringa d’assedio i mercati e tenga in ostaggio l’economia globale. Uno spettro che ha preso corpo con la minaccia di Donald Trump di alzare ancora, «ben oltre il 25%», tutti i dazi che dal mese prossimo ha appena deciso di estendere all’intero export annuale cinese, centinaia di miliardi di dollari, verso l’America. E con la risposta di Pechino che, senza dare dettagli, non si è però fatta attendere: «Prenderemo le necessarie contromisure se gli Stati Uniti faranno scattare» i provvedimenti. «Non accetteremo alcuna “massima pressione” o ricatto», ha detto il portavoce del ministero degli Esteri Hua Chunying. Il ministro Wang Yi ha aggiunto che «i dazi non risolvono le frizioni». Le crescenti ripercussioni del conflitto, ancora prima della nuova spirale, sono emerse dai nuovi dati sull’interscambio: nel primo semestre 2019 le importazioni Usa dalla Cina sono scese del 12% e l’export del 19%, a volumi bilaterali complessivi di 27,04 miliardi di dollari che hanno visto Pechino perdere il titolo di primo partner commerciale degli Stati Uniti per la prima volta dal 2005, superata dal Messico, nuovo leader, e dal Canada. Le Borse mondiali, reduci dalla delusione per un taglio dei tassi al minimo sindacale da parte della Fed, risentono duramente dei venti di guerra commerciale. Tutte le principali piazze azionarie hanno fatto registrare marcati ribassi in scia alla notizia dei nuovi dazi Usa. Al termine degli scambi in Europa il saldo finale è da bollettino di guerra: la piazza peggiore è quella di Parigi (-3,34%) ma sono dolori anche a Francoforte (-2,92%), Londra (-2,34%) e Milano (-2,41%). Le vendite hanno colpito i settori più esposti al rischio guerra commerciale come le materie prime (-4,62% la performance dell’indice europeo di comparto), l’auto (-3,46%) e l’industria in genere (-3,16%). Hanno tenuto invece quelli meno esposti al rischio dazi come l’immobiliare (+0,11%) o comparti storicamente difensivi come le utilities (-0,23%). Pesante anche la tecnologia (-3,69%) frenata da un’altra partita commerciale: quella tra Giappone e Corea. Trai due Paesi è in corso una controversia sui risarcimenti che le aziende giapponesi dovrebbero dare peri lavori forzati in tempo di guerra. Un dissidio che ha fatto registrare un’escalation nei toni culminata con la decisione, presa ieri dal governo giapponese, di rimuovere la Corea del Sud dall’elenco dei partner commerciali preferenziali. Il dietrofront dei listini mondiali è stato enfatizzato dall’elevata volatilità che in genere caratterizza il mese di agosto. Nelle ultime due sedute il Vix (il cosiddetto indice della paura) è salito di oltre il 25% e viaggia sui massimi da maggio. Le vendite sul mercato azionario sono state contrastate da acquisti a pioggia sull’obbligazionario. Per tutta la prima metà della seduta BTp, in ragione della loro rischiosità, sono stati esclusi e il rendimento a 10 anni ha riguadagnato la soglia dell’1,60%. Un andamento che, unito al record storico del tasso negativo del Bund (-0,5%), ha contribuito alla risalita dello spread oltre i 214. Il trend si è tuttavia invertito nelle ultime ore di contrattazione quando, mentre il saggio del trentennale di Berlino andava per la prima volta sotto zero, anche i tassi dei titoli italiani hanno iniziato a scendere. Per lo spread è stata una giornata altalenante e dai picchi visti in mattinata si è arrivati in chiusura a quota 206 secondo la rilevazione Reuters.
Nasce Progetto Italia, colosso delle costruzioni. Gli ultimi nodi si sono sciolti nella notte, dopo una maratona di assemblee, negoziati e consigli fiume. Cassa depositi e prestiti, Salini Impregilo e le banche danno vita a Progetto Italia, il campione nazionale delle grandi opere nato per rilanciare il settore delle costruzioni. Un comparto che oggi vale circa l’8 per cento del Pil. La sfida non è semplice. Si scommette sull’aggregazione dei principali operatori presenti sul mercato con l’intento di fare scala. La prima fase, denominata “Progetto Italia backbone”, è finalizzata a rimettere sul mercato la storica azienda Astaldi attraverso una serie di accordi necessari a portare alla sezione fallimentare del Tribunale di Roma le carte per il piano concordatario. Il tutto per arrivare all’ammissione entro il 30 settembre 2019. La strategia, tratteggiata dopo il lungo confronto, prevede un aumento di capitale di 600 milioni lanciato da Salini Impregno e offerto in sottoscrizione a investitori istituzionali tra cui Salini Costruttori, Cdp Equity e le banche, Unicredit, Intesa Sanpaolo e Banco Bpm. Gli accordi stabiliscono impegni rispettivamente per 50 milioni, 250 milioni e 150 milioni. Per il rimanente, al massimo 150 milioni, deciderà il mercato. É stato stipulato un pre-accordo di sottoscrizione, in caso di eventuale inoptato, con le banche che cureranno l’aumento ovvero Citi e Morgan Stanley. Sciolto anche il nodo della governance. Il cda di Salini Impregilo sarà di 15 componenti, di cui un terzo designato da Cdp Equity, tra cui il presidente indipendente (previo gradimento di Salini Costruttori). II ceo resterà Pietro Salini mentre Massimo Ferrari, che ha condotto le trattative, verrà confermato nel ruolo di general manager. Le parti hanno anche convenuto di costituire un nuovo comitato strategico con il compito di supportare il board nell’implementazione di Progetto Italia fino al suo completamento. L’asse tra Salini Impregilo e Astaldi produrrà un soggetto da 9 miliardi di giro d’affari e 400 milioni di ebit. Ma in prospettiva, se il piano verrà allargato ad altri competitor, come ha scritto ieri in una missiva ai dipendenti Pietro Salini, si punta a «creare un gruppo internazionale ancora più grande, in grado di competere con i principali player del settore, capace di presentarsi sul mercato entro II 2021 con un fatturato di 14 miliardi, un portafoglio di 62 miliardi. Dieci anni fa questo era solo un sogno, oggi si sta lavorando per realizzarlo». I candidati naturali a entrare nel perimetro oltre alle numerose società in crisi, tra cui Condotte, Cmc, Grandi Lavori Fincosit e Trevi sono anche aziende al momento in salute come Rizzani de Eccher, Pizzarotti e Vianini Lavori. Si vedrà fino a che punto Progetto Italia sarà in grado di spingersi. Come sottolineato ieri da Cdp, tassello fondamentale dell’operazione, senza la quale non si sarebbe potuto procedere, il piano «è in linea con la missione istituzionale di Cdp a supporto del Paese e offre prospettive di redditività e di sviluppo, generando valore per gli investitori e gli altri stakeholder di riferimento».
Politica interna
Il futuro del governo. Martedì prossimo il Senato dovrebbe votare, quasi di sicuro con la fiducia, il decreto Sicurezza bis, testo caro alla Lega che ha provocato più di un mal di pancia nel Movimento 5 Stelle. I numeri sono sul filo e un’eventuale bocciatura farebbe cadere il governo. Cosa succederà? Solo due giorni fa la maggioranza ha guadagnato un altro senatore, Emma Pavanelli (M5S), ripescata in Umbria per mancanza di candidati nel collegio vinto in Sicilia. Dopo quest’ultimo aggiornamento il governo gialloverde può contare su 165 voti, 107 del Movimento 5 Stelle, 58 della Lega. Sono appena cinque in più rispetto alla maggioranza necessaria di 160 voti. Una significativa coincidenza. Perché sono almeno cinque i senatori del M5S che potrebbero votare contro o astenersi, a partire da Elena Fattori e Matteo Mantero. II governo rischia? Oppure è solo pretattica e al voto non ci vuole andare nessuno? In soccorso della maggioranza potrebbero correre i tre senatori della Südtiroler Volkspartei, partito che in Alto Adige governa con la Lega. Circola poi l’ipotesi che al momento del voto Fratelli d’Italia possa uscire dall’Aula in modo da abbassare il quorum. Ma dal partito di Giorgia Meloni smentiscono nettamente questa ipotesi. Fratelli d’Italia, del resto, è il primo tifoso del voto anticipato visti i sondaggi in forte crescita. Ma non è da escludere che a uscire dall’Aula per abbassare il quorum e aiutare così il governo possa essere qualche senatore di Forza Italia, per tenere in vita la legislatura ed evitare un voto che per il partito si profila a dir poco incerto. Se il governo non cade adesso, se resiste al voto di fiducia sul decreto sicurezza bis e alla mozione sulla Tav, sarà costretto a sopravvivere a lungo. A meno che non decida di lasciare il passo a un altro esecutivo, a un Conte bis sulla base di chissà quali nuove alleanze o a un governo tecnico scelto dal presidente della Repubblica. Sergio Mattarella avrebbe infatti fatto capire ai 5 stelle e alla Lega che non consentirà giochini. Se l’8 settembre, come previsto, la Camera voterà il taglio dei parlamentari in quarta lettura, se quindi la riforma costituzionale ideata dal Movimento sarà legge e porterà il numero dei seggi da 945 a 600, non si tornerà alle urne prima che le nuove norme siano entrate in vigore. II che significa che potrebbero passare molti mesi. Perché è ragionevole pensare che l’opposizione chieda che si svolga un referendum, com’è suo diritto. Se davvero vuole evitare tutto questo, Matteo Salvini ha davanti due strade: la prima è quella di aprire la crisi adesso, sul decreto sicurezza bis o sulla Tav, che mercoledì vedrà Lega e 5 stelle schierati al Senato su posizioni opposte. La seconda è quella di non far passare il taglio dei parlamentari, che pure finora ha sostenuto, il prossimo 8 settembre, al rientro dalle vacanze. Una scelta difficile da spiegare al suo elettorato, ma sempre possibile. Non c’è una terza via. L’ipotesi che il Colle consenta di votare in qualsiasi momento, come molti avevano sperato, soprattutto nella Lega, è stata esclusa. La scelta è qui e ora. Ed è il motivo per cui Di Maio sprona Salvini, lo ha fatto ancora ieri a Radio Anch’io, a dire cosa vuole: se pretende nuovi ministeri o se davvero intende far finire subito l’esperienza del governo giallo-verde. Intervistato dal Corriere della Sera il leader pentastellato alla domanda se ha paura di tornare al voto? O crede che non sia possibile in autunno? «Questa è la solita domanda per mettere zizzania. Secondo me dobbiamo pensare solamente a fare una cosa: governare. Abbiamo dimostrato di saperlo fare. E parlano i fatti, tutti i provvedimenti sono stati condivisi, si è sempre lavorato con impegno e serenità. Continuiamo a farlo».
Italia e nomine Ue. La telefonata a Giuseppe Conte la fa di primo mattino. Dopo la rapida e poco serena lettura dei giornali, all’indomani dell’invettiva-show in conferenza stampa. Matteo Salvini chiama il premier giusto in extremis. Poco prima che la futura presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen varchi il portone di Palazzo Chigi. Al capo del governo comunica finalmente le decisioni della Lega. Ma deludendo le sue aspettative, non indica un nome secco, bensì una vaga terna (che poi il vicepremier si ostinerà a mantenere coperta fino a sera). Tuttavia, i “politici competenti e di governo” che, stando alle poche indiscrezioni circolate, sarebbero stati indicati risponderebbero ai nomi del sottosegretario all’Economia Massimo Garavaglia, della ministra della Pa Giulia Bongiorno e dell’Agricoltura Gian Marco Centinaio. «Se non presentiamo un candidato solo rischiamo di esporci alla discrezionalità di Bruxelles», è stata l’obiezione del premier. I nomi devono essere tre per coprire le varie “offerte” possibili al governo italiano. La spunta il leghista. Ma la partita è aperta. Non ha trovato conferma fino a sera dalle varie fonti l’indiscrezione secondo la quale Conte avrebbe fatto alla sua ospite proprio il nome di Garavaglia e che sarebbe stato bocciato. Come pure l’ipotesi per l’Italia della prestigiosa “Concorrenza” ma “depotenziata”. Per la Lega equivarrebbe a una beffa. Quando Conte, congedandosi, si è preso tempo, la presidente della Commissione ha sorriso e non ha mosso obiezioni, anche se oramai è in via di completamento l’elenco delle candidature ufficiali presentati dai 28 Paesi per altrettanti portafogli: sino ad oggi i nomi presentati sono 19, pari al 68% del totale. Certo, mancano all’appello Francia Svezia, Portogallo, Croazia, Cipro, Slovenia, Romania, Lituania, Belgio. E, appunto, l’Italia. Ma nel frattempo la presidente ha annotato le principali istanze degli altri Paesi. Stefano Folli ricorda su Repubblica che ‘l ultima volta che i commissari italiani nell’Unione furono scelti in un quadro almeno parzialmente condiviso con l’opposizione era il 1994, primo governo Berlusconi. Andarono a Bruxelles Mario Monti ed Emma Bonino, dopo che si era discusso anche il nome di Giorgio Napolitano, il più autorevole esponente in Europa della sinistra ex comunista. Monti e la Borino fecero onore all’Italia, come è noto, e il merito non fu solo di una maggioranza di governo, bensì dell’intero Parlamento. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti. Oggi c’è la Lega, forte di un seguito elettorale considerevole, come si è visto nel voto di maggio, a cui è riconosciuto il diritto di indicare il commissario. Tuttavia questo partito non solo ha votato contro la neo-eletta presidente von der Leyen, ma è considerato, insieme al suo leader, il nemico numero uno dell’Unione quale è oggi. Salvini è inquadrato nelle due capitali che contano più delle altre, Berlino e Parigi, alla stregua dell’estrema destra tedesca di Alternative (AfD). Certo non è un secondo Orbán, dal momento che l’ungherese è nel Ppe e ha sostenuto senza esitazioni la nuova presidente. In Italia invece Salvini è una sorta di “convitato di pietra” senza il quale non si può decidere, ma con il quale è disdicevole sedersi al tavolo.
Politica estera
Gli Stati Uniti si ritirano dal trattato sui missili nucleari. Ieri gli Stati Uniti hanno formalizzato il ritiro dal Trattato Inf, che dal 1987 ha garantito la messa al bando dei missili nucleari dal teatro europeo. Anche dal punto di vista simbolico, la sconfitta è pesantissima, come la distanza che si spalanca tra Mosca e Washington. L’era dei grandi accordi sul disarmo, dimenticati e violati, lascia il posto a una corsa agli armamenti che non avrà più bisogno di coperture. Resta in vita solo il nuovo Start, nel campo della deterrenza strategica, e in scadenza tra due anni. Ma sul fronte delle armi tattiche, il Trattato Inf (Intermediate-Range Nuclear Forces) – siglato nel 1987 da Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov – era l’unico accordo vincolante rimasto tra Russia e Stati Uniti a garantire un equilibrio tra i due maggiori arsenali nucleari. Con l’obiettivo di eliminare i missili balistici e cruise di medio o corto raggio (500-5.500 km di gittata) lanciati da terra, armati in modo convenzionale o con testate nucleari, l’Inf prevedeva un attento regime di verifiche reciproche, comprese ispezioni in loco che consentirono un’epoca di cooperazione bilaterale. È da anni, però, che Mosca e Washington si accusano a vicenda di violare il Trattato. Mike Pompeo, il segretario di Stato americano, ha parlato ieri di sistemi missilistici che rappresentano «una minaccia diretta agli Stati Uniti e ai nostri alleati». La Nato accusa la Russia di essere la sola responsabile del fallimento. Mosca avrebbe violato i limiti imposti dal Trattato Inf sviluppando un missile di gittata superiore ai 500 km. Adesso il rischio di una nuova corsa agli armamenti nucleari diventa davvero concreto. E torna — per l’Europa come per gli alleati dell’America in Asia, dal Giappone alla Corea del Sud — il timore di un improvviso attacco missilistico: uno spettro che, finita la guerra fredda, sembrava ormai consegnato ai libri di storia. Il Cremlino agita ramoscelli d’ulivo proponendo una moratoria nello spiegamento di nuovi missili in Europa. Un’offerta respinta dal segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg: «Sono in malafede, offrono un rinvio nello schieramento di missili che, in realtà, hanno già messo in campo». La Nato condivide la scelta degli Stati Uniti di uscire dal trattato e di sviluppare, dopo un blocco di oltre 30 anni, missili di nuova generazione, per contrastare quelli russi e cinesi. Ma non prevede, al momento, di ospitare in Europa i nuovi ordigni americani. Ma per l’America oggi il vero problema è costituito dalla Cina che, non vincolata dal trattato (32 anni fa i suoi razzi erano rudimentali), ha sviluppato negli ultimi decenni l’arsenale di missili a medio raggio più vasto e moderno del mondo: missili che possono colpire facilmente Giappone, Corea, India e basi americane nel Pacifico. E infatti Trump ieri ha detto che il nuovo Trattato dovrà considerare non solo la Russia: «Vorremmo includere la Cina a un certo punto».
In salita la Brexit di Johnson. Si fa più difficile la strada per la Brexit, e in particolare per il “no deal”, l’uscita dall’Unione europea senza accordi, minacciata da Boris Johnson da quando ha conquistato Downing Street due settimane fa. La già fragilissima maggioranza conservatrice in parlamento si riduce ulteriormente a un solo seggio, 320 contro i 319 dell’opposizione, dopo la vittoria della candidata liberaldemocratica Jane Dodds in un’elezione suppletiva in Galles, in cui ha portato via il posto a un deputato dei Tories. Se si tiene conto dei parlamentari “ribelli” ostili alla Brexit nelle file del partito di governo, di fatto Johnson non ha già più una maggioranza. L’elezione in Galles fornisce altri segnali interessanti. Tre partiti nettamente anti-Brexit, i lib-dem, i verdi e gli indipendentisti gallesi, si sono coalizzati sostenendo tutti la candidata che ha vinto. «La prima cosa che farò a Londra — ha detto Dodds — sarà cercare Boris Johnson dovunque si nasconda, per dirgli di smetterla di giocare al no deal con il nostro futuro». Il 3 settembre a Westminster troverà il premier con la calcolatrice in mano. Il voto in Galles, in un feudo lib-dem fino al 2015, lascia tracce contrastanti: i laburisti caduti al 4%, i Tory perdenti ma meno del previsto, il partito Brexit di Nigel Farage con un 10% sufficiente a inguaiare i conservatori. Complicato proiettare il risultato sul pallottoliere di ipotetiche elezioni generali in autunno. Al momento, maggioranza e opposizione hanno drappelli pronti a votare contro le rispettive leadership, in un fuoco incrociato di franchi tiratori più o meno a volto scoperto: Tory che affonderebbero l’uscita senza accordo dalla Ue ma (forse) non la sfiducia, laburisti pro Brexit che in odio a Jeremy Corbyn voterebbero il piano Boris ma non l’appoggio al suo governo. Per evitare questa palude, il premier 55enne potrebbe indire elezioni anticipate, contando sulla debolezza del Labour ma con il rischio di impantanarsi nuovamente per due opposti ostacoli: la presenza del partito Brexit di Farage e l’avanzata lib-dem sotto Jo Swinson.