Economia e finanza
Conti pubblici. Nonostante le tensioni della vigilia alimentate dalla risalita di rendimenti e spread, Standard&Poor’s non ha affondato il colpo. Confermato il rating tripla B con l’outlook negativo deciso a ottobre da quella che è considerata la più “severa”fra le big four. Il giudizio, insomma, rimane sospeso. Anche perché la crescita, oscillante fra il +0,1% tendenziale e il +0,2% programmatico fissato dal governo, viaggia lontanissima dal +1,1% stimato dall’agenzia a ottobre. Ma il deficit (2,4% per il Def contro il+2,7% di S&P) è più basso, così come lo spread che nonostante la risalita resta a distanza dai 309 punti di fine ottobre. L’outlook negativo, hanno spiegato dall’agenzia, prospetta un possibile abbassamento del rating nell’arco di 24 mesi. Ma l’agenda degli appuntamenti peri giudizi sul nostro debito è più serrata: S&P tornerà a pronunciarsi il 26 ottobre, dopo Dbrs (121uglio; rating attuale BBB-high), Fitch (9 agosto, BBB negativo confermato il 22 febbraio) e Moody’s (6 settembre; BBB- con outlook stabile confermato il 15 marzo). Secondo S&P il Prodotto interno lordo crescerà di un misero 0,1% quest’anno e dello 0,6% nel 2020. II deficit è previsto al 2,6% del Pil nel 2019 contro il 2,4% stimato dal governo e il debito salirà fino al 132,7% del Pil nel 2022: «La crescita è in stallo, mentre le nuove politiche potrebbero aumentare la rigidità del lavoro». Duro il giudizio sulla politica del governo che, dice S&P, «ha giocato un ruolo nel portare l’economia italiana in recessione tecnica nella seconda parte del 2018». Decisioni che hanno compromesso precedenti riforme strutturali «hanno già indebolito la fiducia degli investitori». Il riferimento è a «quota 100» sulle pensioni. Ma anche il «reddito di cittadinanza» viene criticato perché potrebbe innescare tensioni al rialzo sui salari e disincentivare la ricerca di lavoro. Sebbene l’obiettivo del governo, si legge nel report, fosse quello di fornire un «maggiore slancio, le mosse di bilancio sembrano essere state controproducenti per molti aspetti, dati i loro effetti negativi sulle condizioni finanziarie e sui costi di finanziamento per le banche italiane». Nonostante ciò, per ora il rating resta invariato.
Pil Usa sale del 3,2%. La crescita americana stupisce. Nel primo trimestre del 2019 il Prodotto interno lordo è aumentato del 3,2%, superando largamente la previsione del 2,5%, condivisa da mercati e analisti. Donald Trump va all’incasso politico con un tweet: «Tutto ciò è largamente al di sopra delle aspettative o delle previsioni. E cosa importante, l’inflazione è molto bassa. Make America great again!». Il presidente è già in campagna elettorale e le cifre, almeno per ora, stanno dalla sua parte. Il consigliere economico della Casa Bianca, Larry Kudlow ha spiegato «questo numero esplosivo» con il taglio delle tasse sulle imprese, le semplificazioni burocratiche, i cambiamenti nelle strategie commerciali. In realtà, esaminando i dati pubblicati ieri dal Dipartimento del commercio, si coglie una dinamica dell’economia reale che non sempre è collegata alle misure adottate o anche solo ideate dall’amministrazione Trump. Dopo oltre un annodi timori perla guerra commerciale con Cina e Unione europea, si scopre che le esportazioni, al netto dell’import, hanno contribuito con l’1,03% al risultato finale. Il dato del 3,2% è positivo soprattutto per l’aumento delle scorte aziendali e delle esportazioni, due elementi che sono ritenuti volatili, i primi a risentire di un eventuale calo della produzione ipotizzato da molti analisti durante il corso dell’anno. Mentre crescono, ma meno del previsto, i consumi e gli investimenti aziendali. La prudenza muove le scelte di famiglie e imprese. L’inflazione inoltre si è indebolita allontanandosi dal target di crescita annua del 2% fissato dalla Federal Reserve. Tanto da spingere il consigliere economico della Casa Bianca Larry Kudlow a chiedere senza troppi giri di parole alla Fed, come aveva già fatto Trump, di tagliare il costo del denaro, invece di pensare a una stretta. Secondo alcuni economisti, il dato sull’inflazione a lungo lontano dal target della Fed potrebbe indicare un indebolimento della domanda in arrivo. Insomma, aumentano le probabilità di un taglio del tassi da parte della banca centrale Usa, che a gennaio si è riscoperta paziente abbandonando i piani del mese precedente di alzare i tassi, ma se avverrà sarà più avanti nel corso del 2019.
Politica Interna
Il caso Siri. «Una volta si chiedevano le dimissioni per telefono, anche senza guardarsi negli occhi, io sono fatto in modo diverso, con il sottosegretario Siri ci parlerò, chiederò delle spiegazioni, le pretenderò anzi e poi sarà assunta una decisione. Il primo ragionamento che va fatto è il rispetto delle istituzioni e del lavoro del governo, per questo siamo stati eletti e per questo stiamo lavorando, per recuperare la fiducia dei cittadini». Al Ritz Carlton di Pechino, il presidente del Consiglio dice che il caso Siri si deve collocare anche «nel contesto della fiducia dei cittadini verso l’esecutivo. E quando prenderò una decisione, sia sulle delucidazioni che mi saranno fornite, sia sulle carte che ho cominciato a leggere, la spiegherò agli italiani. Non sono un giudice, trovo comprensibile che ognuna delle due forze politiche abbia una linea ben precisa, che Di Maio che ha sempre fatto della trasparenza un punto di orgoglio dichiari quello che ha detto». L’incontro con Siri non è ancora fissato, ma sarà comunque entro lunedì. «Ho parlato del fattore umano verso di lui. Non sono un giudice, ma un avvocato. Parliamo di un avviso di garanzia e c’è la presunzione d’innocenza. In ogni caso, deciderò dopo aver visto le carte, ancora ho letto poco». In Italia, però, i due vicepremier non aspettano la decisione e lottano forsennatamente attorno a Siri. «È comprensibile che Salvini lo difenda. Anche la posizione di Di Maio è fisiologica, visto che il Movimento ha sempre avuto un’ipersensibilità verso la questione della giustizia». Al fatto che “In mezzo si ritrova sempre l’avvocato che governa i gialloverdi: li governa ancora, Presidente, o le loro continue liti mettono in discussione il suo ruolo, indebolendola?”, Conte risponde: «E come indeboliscono il mio ruolo, Salvini e Di Maio? Con i 45 articoli del decreto crescita approvato l’altra sera non l’hanno indebolito per nulla. Non è in discussione».
Legittima difesa. Non sono dei “paletti” ma certamentedei criteri interpretativi che possono essere letti anche come un “argine” nell’applicazione della legittima difesa. Ed è forse questa la ragione se – contestualmente alla firma delle norme-bandiera di Salvini – Sergio Mattarella ha voluto scrivere una lettera di poche righe ai presidenti delle Camere e al premier proprio per ricordare il contesto costituzionale e i principi del codice Rocco (1930) entro cui deve muoversi la legge. In primo luogo, il capo dello Stato mette al centro quello che è il perno che rende la difesa “legittima”: «Il fondamento costituzionale – si legge nel testo – è rappresentato dall’esistenza di una condizione di necessità». In pratica, chi ha reagito a un’aggressione – e ha ucciso – doveva trovarsi nella necessità di difendersi da un pericolo attuale (ossia in atto, contemporaneo) di un’offesa ingiusta. E dunque quell’avverbio «sempre», che è diventato il “marchio” della legittima difesa di Salvini, va comunque calato nel caso concreto per riscontrare il requisito della necessità. Non solo. In un altro passaggio della lettera, Mattarella chiarisce che la modifica dell’articolo 55 del codice penale che punta a dare rilievo decisivo allo «stato di grave turbamento derivante dalla situazione di pericolo», non può essere invocato soggettivamente da chi ha ucciso per difendersi. Salvini aveva marginalizzato le toghe, ridotte a bocca della legge, Mattarella le rimette al loro posto. Saranno loro a valutare, caso per caso, l’effettività della legittima difesa. «La nuova normativa non indebolisce né attenua la primaria ed esclusiva responsabilità dello Stato nella tutela della incolumità e della sicurezza dei cittadini, esercitata e assicurata attraverso l’azione generosa ed efficace delle Forze di Polizia», dice il Capo dello Stato. Salvini fa buon viso a cattiva sorte: «Io ascolto con interesse estremo i rilievi del capo dello Stato, ma la legittima difesa è legge dello Stato e il mestiere di rapinatore da oggi è più pericoloso». Magistrati e avvocati plaudono a Mattarella. «Se emergeranno dubbi di costituzionalità saranno sottoposti al vaglio della Consulta» dice il neo presidente dell’Anm Pasquale Grasso. E Gian Domenico Caiazza, al vertice delle Camere penali, insiste «sulle perplessità di natura costituzionale». E anche il ministero della Giustizia si schiera con il Quirinale: «Concordo con Mattarella, alla sicurezza dei cittadini deve pensare lo Stato», dice Alfonso Bonafede.
Politica estera
Votazioni in Spagna. C’è una foto che gira per la Spagna: un giovane su un palco improvvisato, in una strada di Siviglia, che tenta di fare propaganda elettorale completamente ignorato dai passanti. Sono trascorsi solo quattro anni da quello scatto e il vento dev’essere cambiato molto, perché oggi quel ragazzo, Santiago Abascal, è una sorta di profeta e il suo partito, Vox, rischia di essere decisivo per le sorti della Spagna. Lo chiamano il «partito del quarto gin tonic», una fase alcolica che consente una certa libertà di pensiero, non lucida magari, ma molto istintiva. E in effetti gli argomenti di Vox, il nuovo movimento dell’estrema destra spagnola, possono, a prima vista, risultare un po’ grossolani, «semplici» dicono loro: le corride, le pistole per difendersi dai ladri, la tradizione religiosa, la caccia, un muro per difendere Ceuta e Melilla. Ma attenzione a sottovalutare l’aria che tira: «Vox dice quello che ho sempre pensato», ripetono i tantissimi venuti ad ascoltare Santiago Abascal al comizio di Valencia, il penultimo di una campagna elettorale che consegna a questo movimento una centralità impensabile fino a pochi mesi fa. Manca poco all’inizio della serata e parte forte la musica. Tutti si alzano in piedi a cantare, è il Novio de la Muerte (il «fidanzato della morte»), l’inno della Legione, il corpo scelto dell’esercito spagnolo. “Noi siamo la più grande nazione della storia. Siamo il Cid Campeador e don Chisciotte. Siamo Isabella la Cattolica. Siamo Pizarro e Cortés. Siamo Lepanto. Noi siamo la Spagna!” grida Santiago Abascal, e la folla piange con le lacrime. Una nazione non è fatta solo dai vivi, è fatta anche dai morti. E da quelli che devono ancora nascere. Noi difenderemo anche loro». Sono le nove di sera, il cielo di Madrid è ancora chiaro. Introdotto da uno squillo di tromba, Santiago Abascal, leader di Vox, sta chiudendo la sua trionfale campagna in plaza de Colón, storica piazza del partito popolare, invasa da un movimento che alle scorse elezioni prese lo 0,2% e ora nei sondaggi è accreditato di almeno il 1096, forse il 15, forse più ancora. E come quando Grillo portò via al Pd piazza San Giovanni. Abascal sta per infrangere un tabù: mai, da quando Franco è morto e la Spagna è una democrazia, in Parlamento è entrato un partito di estrema destra. Ora non più. Si chiama Vox. Come la Voce del popolo.
Italia-Libia. La parola d’ordine dell’Italia adesso è: «Né a favore di Haftar né a favore di Al-Serraj, ma a favore del popolo libico che aspetta da troppo tempo e ha il diritto di vivere in pace». In conferenza stampa a Pechino il premier Giuseppe Conte tornisce una dichiarazione di fatto preparatoria dei due decisivi incontri di oggi a margine del Belt and Road Forum in Cina con i presidenti russo e egiziano, Putin c Al-Sisi. Oggetto la Libia, dopo che Donald Trump ha “aperto” al dialogo col generale ribelle e signore della Cirenaica, Khalifa Haftar, lanciato con i suoi mille uomini verso Tripoli. Una svolta, quella americana, che induce l’Italia alla cautela e a cercare un accordo coi due grandi sponsor di Haftar, Mosca e Il Cairo. Prima Conte parla al telefono con Al-Serraj e gli ribadisce l’appoggio italiano, al punto che il premier riconosciuto di una Libia martoriata e divisa annuncia su Facebook che «l’Italia compirà tutti gli sforzi possibili per mettere fine a questa crisi e allo spargimento di sangue libico». Il mantra dell’Italia è: «Non c’è soluzione militare alla crisi in Libia». Di conseguenza, Haftar deve ritirarsi. E perciò Al-Serraj, forte ancora di legittimità internazionale, avverte che le sue forze «continueranno a combattere fino alla ritirata di Haftar». A Vladimir Putin, che si trova a Pechino e che oggi incontrerà il presidente del Consiglio Conte, non dispiacerebbe il replicarsi di uno scenario siriano sul fronte libico. L’Italia potrà così – a dispetto delle evidenti debolezze negoziali – continuare a sostenere l’importanza della soluzione politica. E poi l’Egitto: «Al Sisi – dice il premier Conte – ha un ruolo assolutamente chiave, visti i suoi rapporti con l’amministrazione americana, e a lui farò capire che nel caso in cui il progetto di Haftar fallisse, dovremmo prenderne tutti atto. Non possiamo reggere un conflitto armato che non si sa quanto durerebbe». Continua a non restare di questo avviso il generale Haftar, che secondo indiscrezioni di Al Jazeera, confermate indirettamente da dichiarazioni di ufficiali di Tripoli, starebbe allestendo un piano di attacchi alla capitale libica passando anche dal mare, per sostenere le forze nelle città di Sorman e Sabrata.