Economia e finanza

Manovre delle banche centrali. Le Banche centrali, con le loro politiche monetarie nuovamente espansive, tornano a occupare il centro del palcoscenico dei mercati dopo alcune settimane durante le quali erano finite dietro le quinte, lasciando spazio a temi più preoccupanti per gli investitori quali il duello su commercio, dazi e cambi fra Usa-Cina e i crescenti rischi di recessione (per non parlare, in chiave italiana, della crisi di Governo). E lo fanno in grande stile, soprattutto con riguardo alla Banca centrale europea e all’intervista concessa al Wall Street Journal da Olli Rehn. Il Governatore della Banca di Finlandia (uno dei papabili successori alla poltrona di Mario Draghi, prima che la scelta ricadesse su Christine Lagarde) ha abbandonato la tradizionale prudenza per la quale è conosciuto fra gli addetti ai lavori per avvertire mercati che il pacchetto di stimoli in preparazione a Francoforte per settembre sarà «significativo e d’impatto». In altre parole, un bazooka in versione super. Parole che hanno rilanciato negli investitori le attese (oltre che per íl già deciso nuovo round di aste di rifinanziamento T-Ltro) anche per un taglio dei tassi di interesse nell’Eurozona e una riattivazione del piano di riacquisti di titoli pubblici e privati fin da subito. E che non hanno certo tardato a farsi sentire sui listini finanziari. Il fatto che fra gli analisti si azzardi l’ipotesi di un nuovo quantitative easing da almeno 500 miliardi di euro aiuta infatti a spiegare la ripresa delle Borse europee, che hanno chiuso tutte con guadagni superiori al punto percentuale. Anche la Federal Reserve ha fatto le sue mosse. Ma più passano i giorni e più appare evidente che la scelta della Fed di abbassare i tassi di interesse “una tantum” è stata una decisione dannosa. Con un cambio immotivato della politica monetaria la Fed ha abdicato al suo ruolo di bussola, lasciando il proscenio ai mercati finanziari, il settore più volatile ed instabile dell’economia. L’errore della Fed sta aumentando l’incertezza, la vera tossina macroeconomica che accresce il rischio che l’attuale rallentamento congiunturale si trasformi in recessione.

Una nuova febbre dell’oro. L’incertezza alimentata dalla guerra dei dazi, i timori di rallentamento dell’economia e i segnali in arrivo dalle banche centrali pronte a promettere nuovi stimoli stanno alimentando una forte avversione al rischio tra gli investitori. Un trend in atto da tempo che, in queste turbolente settimane di agosto, si sta intensificando. Lo fotografano sia gli indici (Borse in calo, rally dei bond, dell’oro e delle valute rifugio) sia i flussi nei fondi di investimento. Nell’ultima settimana – segnala BofA Merrill Lynch – ci sono state sottoscrizioni nette per 16 miliardi di dollari nei fondi obbligazionari. Si tratta del quarto maggior dato settimanale di sempre. Nelle ultime 10 settimane i fondi che investono in oro hanno raccolto 11miliardi di dollari di sottoscrizioni nette. Per questa categoria di fondi si tratta del maggior flusso di investimento registrato dai tempi della Brexit. L’oro d’altronde sta dando ottime soddisfazioni agli investitori: il prezzo è tornato sui massimi dal 2013 e con un rialzo di oltre il 19% da inizio anno il metallo giallo si conferma la seconda classe di investimento più redditizia dopo i fondi immobiliari. Il film del 2010-2011. L’ultima volta che l’oro ha dominato nelle classifiche di rendimento a livello globale risale al biennio 2010-2011. Con le quotazioni di questi giorni l’oro ha confermato il suo ruolo di safe asset in presenza di un aumento delle tensioni geopolitiche e dell’incertezza economica. Il 7 agosto l’oro ha superato i 1500 dollari l’oncia e questo si è tradotto in un aumento consistente del valore delle riserve auree delle banche centrali. Per la Banca d’Italia che ne possiede 2.452 tonnellate ha significato un aumento di oltre il 15% rispetto a inizio d’anno per un controvalore in euro del Conto Rivalutazione ben superiore ai 100 miliardi. Vedremo dove ci si fermerà a fine anno ma è bene dire che questi maggiori valori non si tradurranno in utili più elevati di Bankitalia e quindi in un dividendo più pesante per lo Stato e i partecipanti al capitale.

Politica interna

Crisi di governo: Salvini apre a Di Maio. Per sapere come finirà la crisi più pazza e grottesca del mondo, bisognerà attendere martedì quando Giuseppe Conte farà le sue comunicazioni nell’aula del Senato. E lì Matteo Salvini, ormai senza governo e anche senza elezioni, potrebbe votare perfino la risoluzione 5Stelle a favore del governo pur di tornare in partita. Per poi giovedì dare la prova d’amore a Luigi Di Maio, offrendo i voti della Lega per la riforma con il taglio dei parlamentari. In questo caso le elezioni d’ottobre sarebbero definitivamente archiviate. Tale è il caos che però nessuna previsione è possibile. Nicola Zingaretti continua a frenare sull’intesa con i 5Stelle. E lo fa proprio nel giorno in cui, con un triplo salto mortale, Salvini per rientrare in partita fa balenare l’ipotesi di affidare palazzo Chigi a Di Maio: con Giuseppe Conte il divorzio è irrimediabile, per granitica volontà del premier. L’offerta non è arrivata direttamente a Di Maio. «Tra me e Salvini non c’è stato alcun contatto», confida il leader 5Stelle. E aggiunge: «In ogni caso io con Salvini non ci torno e non ci torno anche se mi offre la guida del governo». Salvo però mantenersi ambiguo su Fb, parlando solo di «fake-news». Intanto, la posizione sulla crisi di Sergio Mattarella è al vaglio degli analisti. Il presidente della Repubblica non tifa per il ribaltone. Al momento delle consultazioni, i partiti devono presentarsi al Colle con proposte di lunga durata prendendosi tutte le responsabilità di un eventuale nuovo governo. Come dire che al Quirinale vogliono alzare l’asticella dopo il pasticcio cui si è assistito finora. Significa no ad accordicchi ma anche no a patti più seri basati però sulla convenienza del momento e stretti da forze politiche divise al loro interno (con inevitabili ripercussioni sulla stabilità per di più durante l’esame della legge di bilancio). Secondo punto: se non ci sono accordi possibili Matteo Salvini non gestirà le elezioni anticipate dall’ufficio del Viminale (già frequentato raramente). Nascerà comunque un governo diverso da quello guidato da Giuseppe Conte, presieduto probabilmente dalla presidente del Senato Alberti Casellati con nuovi ministri. Prima di tutto un altro titolare dell’Interno. Questo esecutivo chiederà la fiducia, non l’avrà ma porterà lo stesso il Paese alle urne alla fine di ottobre

Il caso Open Arms al vaglio della magistratura. Adesso c’è la consapevolezza che può veramente finire in tragedia. Chi minaccia di buttarsi in acqua, chi di tagliarsi le vene o di soffocarsi. I 134 migranti ancora a bordo passano da uno stato catatonico a scatti di rabbia incontenibile. Si guardano in cagnesco per contendersi un angolo d’ombra o il bagno (solo due). Ieri mattina il comandante Marc Reig e la capomissione Ani Montes Mier hanno capito che garantire l’incolumità a bordo diventa di ora in ora più difficile. E hanno messo giù i barchini di salvataggio nel caso di qualche gesto improvviso. Il prefetto di Agrigento Dario Caputo (a cui spetta autorizzare lo sbarco) attende ordini da Roma e la sentenza del Tar del Lazio, che ha autorizzato la Open Arms ad entrare in acque italiane per consentire immediati soccorsi ai migranti a bordo in una situazione di «eccezionale gravità», resta inattuata per il secondo giorno di fila. L’Unione europea ha definito «insostenibile» la situazione della Open Arms, confermando che sei paesi europei – Francia, Germania, Lussemburgo, Portogallo, Romania e Spagna – hanno accolto l’appello della Commissione a farsi carico dell’accoglienza per questi poveri disgraziati e ieri la Procura di Agrigento ha aperto un’inchiesta contro ignoti per sequestro di persona e violenza privata. Si parla di «atto dovuto», in quanto è stata avviata dopo i due esposti di Open Arms e dall’associazione giuristi democratici. In realtà la Procura stava già monitorando la situazione. Ora i pm, o un organo di polizia delegato, potrebbero fare un sopralluogo sulla nave per verificare se ci siano gli estremi dei reati ipotizzati e se sia possibile contestarli a qualcuno. Nessuno si sbilancia ma sembra uno scenario simile al caso Diciotti. E non si può escludere che lo sbarco arrivi.

Politica estera

Trump vuole comprare la Groenlandia. Sulle prime a Copenaghen hanno pensato che fosse un pesce d’aprile. Ma l’idea che gli Stati Uniti vogliano comprare la Groenlandia, attribuita da fonti bene informate a Donald Trump, con il passare delle ore ha reso necessaria una reazione ufficiale: «La Groenlandia non è in vendita». Riportata inizialmente dal Wall Street Journal, l’indiscrezione sostiene che il presidente americano ha avanzato la possibilità in varie conversazioni con i suoi consiglieri: e anche le trovate improbabili, con l’odierno capo della Casa Bianca, vanno prese sul serio. Questa non è fra le più strampalate, sebbene qualcuno ironizzi su Twitter: «Vuole acquistarla per fare un regalo a Melania». Lo status dell”isola più grande del mondo”, come viene definita (in teoria la superano Australia e Antartico, ma entrambe sono masse continentali, non isole), potrebbe anche cambiare nel prossimo futuro: non tuttavia per essere inglobata dall’America, cui pure appartiene dal punto di vista geografico. Territorio autonomo del regno di Danimarca, da tempo la sua popolazione di 56 mila persone, 90 per cento delle quali sono inuit eschimesi, disseminate su una superficie pari a sette volte l’Italia, preme per ottenere piena indipendenza. Ci aveva già provato il lungimirante Harry Truman nel 1946 ad acquistarla offrendo 100 milioni di dollari in lingotti d’oro al governo di Copenaghen. Era la genesi della Guerra fredda e il 33° presidente degli Stati Uniti ben sapeva che avere il controllo della Groenlandia gli avrebbe dato un vantaggio strategico nei confronti dell’Unione Sovietica. Sulle sue orme Donald Trump ci riprova, convinto che l’«annessione della terra dei ghiacci» conferirebbe agli Usa la marcia in più nella corsa alla conquista del Polo rispetto all’inarrestabile Cina.

Crisi di Hong Kong. Pechino interverrà a Hong Kong per stroncare le proteste che da oltre due mesi agitano l’ex colonia britannica? Alla vigilia di un fine settimana che si annuncia tesissimo, ieri il Global Times ha sostenuto che non ci sarà un massacro come quello di 30 anni fa a Pechino in piazza Tiananmen. Non si tratta di una rassicurazione, perché il giornale del Partito comunista non esclude un’azione di forza, semplicemente puntualizza che oggi «la Cina è molto più forte e più matura e la sua capacità di affrontare situazioni complesse è molto migliorata». L’editoriale del tabloid nazionalista è in linea con quanto dichiarato dall’ambasciatore cinese a Londra, secondo il quale «se la situazione peggiorerà ulteriormente, il governo centrale non rimarrà a guardare». «La Costituzione di Hong Kong- ha aggiunto Liu Xiaoming – ci offre soluzioni e poteri sufficienti per sedare rapidamente qualsiasi rivolta». Questi avvertimenti, così come l’ammassamento di qualche centinaio di blindati nella metropoli di confine di Shenzhen, potrebbero rappresentare solo uno sfoggio di muscoli da parte di una leadership in difficoltà, che né da Pechino né ad Hong Kong attraverso Carrie Lam e il suo governo, è riuscita a comprendere l’origine e la portata di un movi mento giovanile che ora ha evidenti difficoltà ad affrontare. E così, mentre si profila un lungo weekend di dimostrazioni di protesta a Hong Kong, il chef executive di Cathay Pacific, Rupert Hogg, ha dato le dimissioni (sostituito da Augustus Tang) e ha perso il posto anche il responsabile commerciale Paul Loo: un segnale di crescenti pressioni sul settore corporate e di come la compagnia aerea di Hong Kong (partecipata al 30% da Air China) sconti l’essersi trovata coinvolta nelle tensioni tra Pechino e i dimostranti che all’inizio della settimana hanno bloccato l’aeroporto.