Economia e Finanza
Bankitalia sul Def. Per la manovra di bilancio del 2020 servono coperture di «notevole entità» per steriliznare gli aumenti dell’Iva, rafforzare gli investimenti, ridurre la pressione fiscale. Operazioni che se non finanziate da riduzioni di spesa o da un taglio delle detrazioni fiscali, condurrebbero ad un «deficit non compatibile con la riduzione del debito». L’allarme viene dalla Banca d’Italia, secondo la quale, senza gli aumenti dell’Iva e senza compensazioni, il deficit salirebbe nel 2019 al 3,4% del prodotto interno lordo. A fare i conti nel dettaglio, sempre nel corso delle audizioni sul Documento di economia e finanza, è stato l’Ufficio Parlamentare di Bilancio. Per il 2020 servono 25 miliardi per finanziare le politiche invariate, spingere sugli investimenti, correggere il disavanzo e scongiurare l’Iva. Sempre senza contare il costo della flat tax per le famiglie, la manovra “minima” salirebbe a 36 miliardi nel ’21 e a 45 nel ’22. Ieri la Corte dei Conti ha raccomandato che la flat tax sia «effettivamente compatibile con lo stato della finanza pubblica» e «idonea a superare le disparità e le iniquità dell’attuale sistema dell’imposizione sui redditi». Le stime di crescita programmatica del governo dello 0,2% quest’anno edello 0,8% nel 2020 sono state validate ieri dall’Ufficio parlamentare di Bilancio e giudicate «nel complesso realistiche» dalla Banca d’Italia, mentre il presidente dell’Istat, Gian Carlo Blangiardo, ha parlato di «segnali interessanti» sul primo trimestre, in attesa della prima stima flash di fine aprile. Sia pure in un quadro di notevoli incertezze – ha aggiunto Blangiardo – è ora «verosimile» un miglioramento dei livelli complessivi dell’attività economica. Sulle prospettive macroeconomiche entro le quali verrà scritta la prossima manovra di bilancio, naturalmente, continuano a pesare tutte le incognite degli ultimi mesi, a partire dallo spread. Nel corso dell’audizione di ieri davanti alle commissione riunite di Camera e Senato, Eugenio Gaiotti, capo del Dipartimento Economia e statistica di palazzo Koch, ha ricordato che un aumento permanente dello spread BtP-Bund di 100 punti base rispetto ai livelli di inizio 2018 può ridurre di un decimale il livello del Pil a un anno e dello 0,7% a tre anni.
L’aumento dell’Iva nel Def. Aumento “selettivo e ponderato” dell’Iva e contestuale rimodulazione di alcuni beni da un’aliquota all’altra. In campagna elettorale per le europee l’ipotesi è una sorta di tabù peri contraenti politici del governo giallo-verde e tuttavia in sede tecnica si moltiplicano in queste settimane simulazioni e possibili impatti delle diverse opzioni sul tappeto. Infrangere il tabù dell’inviolabilità dell’aumento Iva può servire a fini politici interni e per aprire da posizioni di maggiore forza una nuova trattativa con Bruxelles in vista della prossima legge di Bilancio. A questo e altro si riferisce il ministro dell’Economia Giovanni Tria quando parla di “soluzione bilanciata” sul nodo dell’Iva. Argomento ad alto impatto politico, che dribblato l’appuntamento elettorale del 26 maggio tornerà a imporsi come prioritario. In ballo vi sono 123,1 miliardi di incremento della principale delle nostre imposte indirette pronti a scattare dal prossimo anno, per effetto delle clausole di salvaguardia che il governo peraltro ha ulteriormente incrementato rispetto all’importo originario per offrire a Bruxelles garanzie aggiuntive al termine della faticosa trattativa chiusasi poco prima di Natale. Tutti sottoscrivono l’operazione verità del ministro Giovanni Tria. Giusto avere ridotto ai minimi termini la previsione sul Pil del 2019; inattaccabile quando limita al massimo la stima dell’impatto delle misure prese dal governo sulla crescita dell’economia. Ma anche sulla conseguenza più probabile di questa situazione il consenso si sta allargando. In sintesi, è impossibile, a questo punto evitare l’aumento dell’Iva. Magari parziale, limitato ad alcuni beni come trapela da qualche giorno da settori del governo. Oppure con passaggi di merci da una aliquota (quella intermedia agevolata al 10%), ad un altra (quella ordinaria oggi al 22%). Comunque la si metta è una stangata sui consumatori. Ieri il presidente di Confindustria Francesco Boccia ha calato le carte su una posizione storica di viale dell’Astronomia. A favore di «una vera riforma fiscale che agevoli i cosiddetti produttori, imprese e lavoratori, quindi una operazione macro che non riguardi solo le clausole Iva». Giusto fare scattare le clausole di salvaguardia che prevedono l’aumento dell’Iva? «Evidentemente una parte sì. Una parte dei nostri settori non l’amerebbe, quelli legati al largo consumo, ma con un equilibrio sull’attenzione al mondo produttivo e alle fasce cosiddette deboli potrebbe essere una riforma che ha il suo perché».
Politica Interna
Pd Umbria: le dimissioni dell Presidente della Regione. La resa arriva al tramonto, dopo una giornata trascorsa nel palazzo della Regione trasformato in fortino. È allora che Catiuscia Marini decide di compiere il sacrificio che mai avrebbe voluto: rassegnare le sue dimissioni. «Io sono una persona per bene» protesta nella lettera scritta, riscritta, strappata e infine consegnata al presidente dell’assemblea. Quindici righe in tutto: «Quello che sta accadendo mi addolora, ma sono sicura che ne uscirò a testa alta. Non ho niente a che fare con pratiche di esercizio del potere non rispettose delle regole e della trasparenza. Ma le istituzioni, che intendo tutelare, vengono prima delle persone che le guidano». Impossibile fare altrimenti. Nicola Zingaretti le ha chiesto un passo indietro. Per recapitare il messaggio ha spedito a Perugia Walter Vermi, neo-commissario del partito umbro: è lui che, in oltre tre ore di colloquio, le spiega perché ritirarsi è inevitabile, restare significa compromettere la corsa del Pd alle europee, la possibile rimonta sui grillini. L’avviso di sfratto notificato dal leader a mezzogiorno durante l’incontro alla Stampa Estera: «Confido nel senso di responsabilità della presidente perché faccia ciò che è più utile all’Umbria». E la Marini si dimette e dichiara: «Pensavo che il Pd del 2019 fosse una forza riformista e garantista, non una comunità di giustizialisti. Mi sbagliavo. Rimanere presidente avrebbe limitato le mie possibilità di reagire. Non l’ho fatto per il partito, l’ho fatto per me. Voglio tutelare il lavoro di questi anni, non voglio che siano messi in discussione il mio ruolo e la mia onorabilità. Ho sempre combattuto i sistemi di potere e le consorterie. Politicamente mi sento in campo perché non ho nulla di cui vergognarmi. Le dimissioni mi permettono di fare tutto quello che ritengo utile per il Pd dell’Umbria».
Richiamo di Mattarella a Conte su decreto crescita e sblocca cantieri. Prendiamo i decreti, lo strumento di cui più frequentemente il governo si serve per la realizzazione del proprio programma. Vengono approvati in Consiglio dei ministri con la formula «salvo intese», insomma senza accordo su nessuno dei punti qualificanti del provvedimento, e poi, dal giorno dopo la seduta a Palazzo Chigi, parte la negoziazione politica tra Lega e 5 stelle. Mirata, troppo spesso, non a smussare le divergenze per consentire il varo effettivo del testo, ma a innescare un gioco di veti reciproci da usare poi per rivolgersi agli elettori e accusare l’alleato-avversario di essersi rimangiato la parola. È andata così in tutti i casi più recenti, dallo sblocca-cantieri al decreto sulla crescita, rimasti praticamente lettera morta. E nel frattempo le settimane passano, il Parlamento aspetta, e i testi che prima o poi, più poi che prima, saranno approvati, difficilmente corrisponderanno agli annunci già fatti, visto che nel frattempo occorre trovare le coperture economiche e non sempre si trovano. Il paradosso è che il decreto sblocca cantieri è diventato esso stesso un cantiere, quasi eterno. Dovrebbe sbloccare opere per svariati miliardi di euro ed è bloccato esso stesso. Ha già stabilito un record della Repubblica: non ce n’è traccia a 28 giorni dall’approvazione, Lega e Cinque Stelle continuano a non essere d’accordo su singole norme, articoli estranei sarebbero entrati nel testo approvato «salvo intese» quasi un mese fa, snaturandone l’impianto originario, il che significa che a rigor di logica, ma anche di legge, il provvedimento andrebbe approvato di nuovo in Consiglio dei ministri prima della pubblicazione in Gazzetta ufficiale. Di questo hanno parlato ieri il capo dello Stato Sergio Mattarella e il capo del governo Giuseppe Conte. Un discorso sul metodo, una tirata d’orecchie da parte del Colle, una discussione franca su modo di governare che sta snaturando la natura del decreto legge, già peraltro abusata da tutti i governi. Solo che in questo caso, come nell’altro del decreto crescita – anche questo approvato con tanto di fanfara e rimasto impigliato nei dubbi della Ragioneria, nelle pastoie di un testo che ha accolto norme di natura di diverse, che ha problemi di copertura per gli stanziamenti sul terremoto – il metodo seguito da Palazzo Chigi ha imposto al Quirinale una sorta di richiamo ufficioso. Insomma per il presidente Mattarella non si può andare avanti in questo modo, sia per la forma che per la sostanza.
Politica estera
La ricostruzione della Cattedrale Notre-Dame. Il giorno dopo, davanti alle due torri che sono state sul punto di crollare e che invece adesso danno forza, la sindaca di Parigi Anne Hidalgo fissa l’obiettivo: «Dobbiamo ricostruire la cattedrale di Notre-Dame entro il 2024, in tempo per l’Olimpiade di Parigi». La sera alle 20, in tv, il presidente Emmanuel Macron raccoglie la sfida: «Ve lo dico con forza. Noi francesi siamo un popolo di costruttori. C’è tanto da fare ma ricostruiremo Notre-Dame più bella ancora. Voglio che tutto sia pronto in cinque anni». E un traguardo ravvicinato, i colossali lavori di restauro già previsti prima del disastro erano stimati in almeno 10 anni, e nella metà del tempo adesso si vorrebbe ricostruire la guglia spezzata e crollata e il tetto di legno, la «foresta» di querce che per 850 anni aveva resistito a tutto, dalla Rivoluzione ai nazisti, e che lunedì è stata incenerita. La sindaca di Parigi promette che sarà pronta per le Olimpiadi del 2024. Possibile? La facciata della Cattedrale e le due torri hanno resistito, il rosone più antico è salvo, mentre sono stati perduti quelli più recenti; è crollata la guglia, costruita nel XIX secolo, consumata dal fuoco. E no, lo stesso legno di quercia con cui era stato realizzato il tetto (“la foresta”) da dove è partito il fuoco, non si troverà più. Una società si è già fatta avanti per donare il materiale, ma in origine furono utilizzate 1.300 querce, per riavere una scorta di quel tipo serviranno molti anni. I vigili del fuoco sono riusciti a salvare reliquie ed opere d’arte, ma l’operazione di ricostruzione sarà complicata, tra gli esperti c’è chi arriva a ipotizzare anche 20 anni. Al di là dei 700 milioni di euro già raccolti, è chiaro che non ci sarà un problema di finanziamenti, però è lecito pensare che il conto finale sarà molto vicino, per lo meno, alla somma per cui ci sono già state donazioni.
Guerra in Libia: il ruolo dell’Italia. La Francia ha prorogato la chiusura delle frontiere con l’Italia per altri sei mesi, perché teme di subire un attentato da parte di jihadisti provenienti dalla Libia. A quanto pare, l’allarme del premier di Tripoli ha sortito i primi effetti. Serraj ha assicurato che ci sarebbero 800 mila profughi pronti a scappare verso l’Italia, tra cui anche militanti dell’Isis. Che siano 800 mila o molti meno, non conta: l’Italia sarebbe comunque disarmata. Trattandosi di persone in fuga dalla guerra, e non di migranti economici, il governo Conte non potrebbe fare altro che concedere accoglienza. Davanti a una simile emergenza, la chiusura delle frontiere, da parte dei Paesi confinanti, lascerebbe l’Italia in balia di una pressione migratoria senza vie di sfogo. Ne consegue che l’Italia ha la massima urgenza di ottenere l’interruzione delle ostilità a Tripoli, ma non la Francia, che non sta facendo niente di concreto per arrestare l’aggressione di Haftar, la cui offensiva ha però subito una battuta d’arresto grazie alla reazione degli assediati. Con una missione riservata a Tripoli, l’Italia ha insistito ieri con il governo libico affinché accetti al più presto un cessate-il-fuoco nella guerra civile esplosa il 4 aprile con la milizia di Khalifa Haftar. Il viaggio è stato chiuso alcune ore prima che la milizia di Haftar nella notte lanciasse una decina di razzi contro due quartieri popolari facendo 4 morti e una decina di feriti fra la popolazione. Conte ha inviato a Tripoli il vicedirettore dell’Aise, Gianni Caravelli che con l’ambasciatore Giuseppe Buccino ha incontrato il presidente Fayez Serraj e il ministro degli Interni Fathi Bishaga. Gli italiani si sono informati sulle condizioni del governo di Tripoli per una tregua immediata. Fonti della Farnesina spiegano che «in queste ore a New York la Gran Bretagna sta presentando una risoluzione che chiede il cessate-il-fuoco immediato: l’Italia ritiene che la cosa da fare sia innanzitutto bloccare la nuova guerra e poi riprendere a trattare a livello politico».