Economia e finanza
La stretta petrolifera di Trump. «Massima pressione sull’Iran, d’accordo coi nostri alleati, perché smetta le sue attività destabilizzanti che minacciano la sicurezza del Medio Oriente». Così la Casa Bianca ieri ha motivato un nuovo passo nell’escalation delle sanzioni: l’obiettivo è ridurre a zero l’export iraniano di petrolio, che è la prima fonte di valuta pregiata per il regime degli ayatollah. L’embargo petrolifero era scattato nel novembre scorso, ma con eccezioni per otto paesi tra cui l’Italia. Cadono così anche le eccezioni e Washington fa sapere che non verranno prorogate. Ora i Paesi che continueranno a importare greggio andranno incontro a sanzioni economiche. La decisione della Casa Bianca ha spinto ieri le quotazioni del petrolio ai massimi da sei mesi. Il Brent (il petrolio del mare del Nord) ha superato i 74 dollari al barile mentre il Wti (il greggio americano) ha quasi toccato i 66 dollari. L’Iran esporta circa un milione di barili al giorno, contro i 2,7 milioni di un anno fa, prima delle sanzioni Usa. I paesi maggiormente colpiti dalla decisione del presidente americano sono soprattutto Cina, India e Turchia. Sia il governo di Pechino che quello di Ankara hanno criticato la legittimità della mossa americana, oltre a sottolineare l’impatto negativo sul mercato petrolifero.
Il decreto salva Roma. Il decreto sulla Capitale resta al centro della polemica politico-economica. 12 miliardi di debiti del Comune di Roma, da girare in parte allo Stato, i rimborsi ai risparmiatori coinvolti nella crisi delle banche, poco convinti dalla soluzione alle porte. Il cosiddetto decreto Crescita, approvato salvo intese il 4 aprile scorso, torna oggi in Consiglio dei ministri per l’atteso via libera definitivo, ma alla vigilia della riunione, e dopo settimane di aggiustamenti e limature, restano da sciogliere due grandi nodi, e ancora molte tensioni tra la Lega, il Movimento 5 Stelle e il ministero dell’Economia. Sui debiti di Roma, al centro di polemiche da giorni, ieri è intervenuto a gamba tesa il leader della Lega, Matteo Salvini, contestando duramente la norma proposta dal sindaco Virginia Raggi. Non ci sono Comuni di serie A e Comuni di serie B, è la stoccata che il vicepremier piazza sul Salva Roma. Il disegno è quello messo a punto dai tecnici capitolini insieme a quelli del ministero dell’Economia, e punta a trasferire allo Stato buona parte dei 12 miliardi di debiti della capitale oggi gestiti da un Commissario. Ma alla vigilia del Consiglio dei ministri chiamato a dare il via libera al decreto crescita e la Salva Roma, si riaccende lo scontro fra Lega e 5Stelle su una delle norme più controverse del decreto, ser l’appunto il cosiddetto salva Roma. Ed è uno scontro tutto elettorale con la Lega che punta ad un’intesa immediata che riguardi tutti i Comuni, con il M5S che già da giorni ha aperto ad una simile soluzione ma non subito, piuttosto in fase di conversione del provvedimento.
Politica Interna
Scontro Lega – Cinquestelle. La tregua pasquale vacilla già. Troppi i fronti aperti e ancora non chiariti, con il Consiglio dei ministri che incombe. La questione clandestini, i fondi a Roma capitale, il caso Raggi, ma anche la questione giudiziaria che ha investito il sottosegretario Armando Siri. E se il Movimento ha chiesto un passo indietro, anche il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che lo incontrerà in settimana, è intenzionato a chiederne le dimissioni dal governo, in attesa di chiarimenti. Luigi Di Maio viene descritto dai suoi come molto irritato ed è intenzionato a chiedere un vertice sui rimpatri al premier Conte. Ma Di Maio è pronto all’affondo anche su Siri e sui fondi alla Lega. Lo scontro politico investe anche il Quirinale. Infatti, se perfino con una seconda deliberazione, così come chiesto dal capo dello Stato, non si riesce a trovare un accordo sul Decreto crescita, questo vuol dire che prima ancora che uno sgarbo istituzionale, la maggioranza si sta avvitando in una crisi politica e decisionale. A questo punto infatti non è più in primo piano solo il rapporto tra Esecutivo e Quirinale – e le tensioni avvertite con il recente richiamo fatto da Mattarella sui tempi e contenuti dei decreti legge – ma le fondamenta stesse di un’alleanza che fa fatica perfino a sbloccare leggi preparate ad hoc per affrontare la campagna elettorale e contrastare la stagnazione economica. Un inceppo tanto più grave perché dimostra in modo evidente che il requisito di necessità e urgenza sta saltando di fronte ai tatticismi e alle incertezze.
Polemiche sul 25 aprile. Le dichiarazioni di Salvini e la sua decisione di non partecipare alle celebrazioni del 25 aprile hanno innescato diverse polemiche. Sono intervenute alcune autorevoli firme sui principali quotidiani italiani. Così Pierluigi Battista sul Corriere ricorda come l’allora leader del Carroccio, Umberto Bossi, nel 1994 partecipò alle celebrazioni. “Era successo che un mese prima aveva vinto il Cavaliere Nero Silvio Berlusconi che si era portato appresso i fascisti del Msi di Fini non ancora sbiancati nelle acque purificatrici di Fiuggi, gennaio 1995, e questa vittoria aveva gettato nel panico uno schieramento portato a identificare la propria sconfitta come un campanello d’allarme per la stessa democrazia” scrive; e così Gad Lerner su Repubblica “La parola-chiave con cui Matteo Salvini s’è chiamato fuori dalle celebrazioni del 25 aprile 2019 è: derby. Non so se l’avesse studiata, o se gli sia venuta spontanea in diretta Facebook, da formidabile improvvisatore qual è nell’arte dello scherno. Fatto sta che, a proposito della festa nazionale istituita per decreto dal governo De Gasperi nel 1946, lui ha scelto di dissociarsene così.” Mentre su Libero quotidiano Alessandro Giuli ricorda che “nato per celebrare la liberazione dell’Italia dal nazifascismo, un dono degli americani presto trasformato in medaglia dai resistenti della prima e soprattutto dell’ultim’ora, l’appuntamento si è via via sovraccaricato di nostalgismo e conflittualità.”
Politica Estera
Attentati in Sri Lanka. Una Pasqua di sangue in Sri Lanka per gli otto attentati compiuti in simultanea alle 8.45 di mattina, sei nella capitale Colombo e altri due a Negombo e Batticaloa. A essere colpiti sono state cinque chiese e tre resort di lusso frequentati anche da occidentali. Il responsabile della strage sarebbe un gruppo jihadista locale che ha ricevuto sostegno e ispirazione dal «terrorismo internazionale», cioè dall’Isis o da Al Qaeda. Il massacro di Pasqua nello Sri Lanka ha ormai una doppia lettura. Per la polizia ha agito un gruppo locale, il National Thowheed Jama’ath, sostenuto da una rete internazionale. Un’azione forse ispirata dall’Isis, come suggerisce l’intelligence americana. Aspetti da definire. E possibile che una gang di estremisti islamici, nota per distruggere statue buddiste, sia passata, senza una tappa intermedia, ad uno tra gli attentati più gravi di quest’epoca? Scegliendo di colpire anche tre hotel di lusso della capitale Colombo, gli attentatori hanno preso di mira quell’industria turistica alla quale tocca il difficile compito di trasformare l’immagine dello Sri Lanka nel mondo, dopo che tra il 1983 e il 2009 il Paese era finito sulle pagine dei giornali quasi sempre per i motivi sbagliati. Inoltre, colpendo a pochi mesi da una clamorosa crisi costituzionale (lo scorso ottobre a Colombo hanno convissuto due premier, uno dei quali frettolosamente riconosciutoda Pechino), hanno minato la stabilità politica di uno dei Paesi cardine della Belt and Road Initiative cinese e degli equilibri strategici dell’area indo-pacifica.
Il nuovo presidente ucraino. Le capitali di tutto il mondoaspettano per complimentarsi mentre iI Cremlino è cauto e dice che per congratularsi col vincitore aspetterà il conteggio di tutte le schede. Ma altrettanto prudenti appaiono le cancellerie occidentali, anche se Trump, Macron e Merkel hanno già inviato messaggi dopo che lo scrutinio in corso ha confermato la vittoria di Volodymyr Zelensky con il 73 per cento dei voti. II fatto è che il nuovo presidente dell’Ucraina è un quasi perfetto sconosciuto. Il compito è difficile. Con i riflettori puntati sui suoi prossimi passi, le decisioni, i primi incontri, le persone di cui si circonderà, Zelenskiy ha di fronte a sé tre grosse sfide: la crisi economica, la corruzione fino ai più alti livelli del potere, la guerra nel Donbass. Le aspettative sono altissime, grandi quanto la disperazione dei più poveri, la stanchezza per la guerra e il disgusto per la classe politica. Di sicuro il miglioramento del livello di vita della popolazione resta il punto più urgente nell’agenda di Zelenskiy malgrado il fatto che, teoricamente, le questioni economiche non siano di diretta competenza del presidente ma del governo.