Economia e Finanza

Il taglio dell’Irpef parte in salita. Riparte il dibattito sul taglio dell’Irpef che, però, si preannuncia tutto in salita. La revisione dell’imposta in vista dell’approdo a una dual tax deve fare i conti con le risorse finanziarie disponibili, già appesantite dall’ipoteca delle clausole di salvaguardia Iva da sminare, e dalle prime avvisaglie di recessione economica. Nelle intenzioni della maggioranza c’è quella di procedere a tappe partendo, come annunciato a Telefisco dal sottosegretario al Mef Garavaglia con una riduzione della prima aliquota dal 23% al 20 per cento. Un’operazione che vale tra i 9 e i 12 miliardi di euro. Ma la riforma più complessiva dell’Irpef impone anche di mettere mano allo sfoltimento delle agevolazioni fiscali. A più riprese nei mesi passati si è parlato di una riscrittura della curva dell’Irpef grazie alla potatura delle tax expenditures. A partire dal bonus degli 80 euro che da solo erode gettito per circa 10 miliardi di euro e che, fin dalla sua introduzione, è subito apparso come un corpo non del tutto organico, anche a causa della “curva corta” di applicazione con l’azzeramento a 26mila euro. Non è un caso, infatti, che venga “catalogato” statisticamente come una voce di spesa e non come un bonus fiscale. La partita degli 80 euro si collega a una più ampia sulla revisione di tutti i bonus fiscale. Una sorta di grande incompiuta. Salvatore Padula osserva in un editoriale sul Sole 24 Ore che una “vera” riforma fiscale non può essere l’ennesimo intervento “mordi e fuggi” di cui il passato offre una casistica quanto mai ricca. Una riforma fiscale è un progetto organico, che sappia guardare a tutte le componenti del prelievo, prendendo atto di ciò che molti studiosi a partire da Franco Gallo – ricordano da tempo, è cioè che i principali prelievi attuali colpiscono in modo eccessivo le famiglie (il lavoro) e le imprese (la produzione), senza intercettare la ricchezza moderna che spesso non ha patria e corre tra miliardi di bit. Senza scordare altri capitoli, dalla tassazione dei redditi di natura finanziaria a quella degli immobili fino al contrasto dell’evasione, per poi arrivare al ruolo dell’amministrazione finanziaria.

Toninelli: “L’Autobrennero diventi pubblica”. In Rete sono virali da venerdì le immagini dei camion in panne al Brennero. Ieri, alla paralisi lungo  l’arteria alpina, si è aggiunta la polemica politica con Danilo Toninelli che prima annuncia che l’Autobrennero tornerà pubblica, poi quando le opposizioni e gli enti locali gli ribattono che lo è già all’85% si affida ad una seconda nota precisare che la gestione dell’A22 sarà presto «totalmente pubblica», quindi «stop all’asfalto elettorale, ai clamorosi e ingiustificati dividendi». Insomma, concessionario sotto osservazione e «nazionalizzazione» come risposta immediata del governo all’ultimo weekend nero sull’autostrada A22. Infastidito dalle critiche, dell’ex ministro dei Trasporti Maurizio Lupi («All’ignoranza c’è un limite»), della deputata forzista Michaela Biancofiore («Sono esterrefatta»), di Messia Rotta del Pd («Il passaggio a società totalmente pubblica è già previsto dal 2016»), Toninelli rilancia contestando i 120 milioni di utili fatti dalla società in quattro anni di regime di proroga. E accusa «chi si è ingrassato con la grande mangiatoia delle autostrade». Che poi, evidentemente, nel caso dell’Autobrennero, sarebbero gli stessi enti pubblici ai quali, già da due anni, è previsto il rinnovo della concessione con una società in house, una newco per la quale a luglio scorso il Consiglio di Stato si è espresso favorevolmente. Azionisti di maggioranza le Province autonome di Bolzano e Trento e la Regione Trentino, mentre resta ancora da assegnare il 14 per cento ancora in mano ai privati di Serenissima partecipazione spa. Intanto gli ispettori del ministero dovranno verificare se Autostrada del Brennero spa abbia responsabilità per non esser riuscita a garantire la circolazione in una situazione meteo difficile, ma prevista.

Politica interna

Lega e 5 Stelle, la resa dei conti. È uno scontro ravvicinato quello che si consuma tra Matteo Salvini e Luigi Di Maio. Entrambi da sabato girano in lungo e largo l’Abruzzo in vista delle Regionali di domenica prossima e duellano come se non fossero alleati di governo. Oggetto della contesa la Torino-Lione e, va da sé, il caso Diciotti. E proprio sull’autorizzazione a procedere per il ministro degli Interni in serata il presidente della Camera Roberto Fico fa conoscere il suo pensiero: «Non entrerò nel merito, certo è che se mi arrivasse una richiesta di autorizzazione a procedere nei miei confronti pregherei i parlamentari di dare l’autorizzazione senza se e senza ma». Più cauto il vicepremier Di Maio: «Noi nella nostra storia non abbiamo mai votato per utilizzare le immunità parlamentari», ma il caso Diciotti, chiosa, «è un po’ diverso». La giornata inizia a Campli, in provincia di Teramo, quando, davanti a una piazza Vittorio Emanuele strapiena, il ministro dell’Interno rilancia il sì alla Tav: «Tranquilli, io non litigo con nessuno. II mio è un pensiero, se sono stati scavati 25 chilometri di tunnel, è più utile andare avanti e finirlo o spendere soldi per chiudere il buco? Io sono per andare avanti». «Sulla vicenda Tav sta per arrivare il tempo delle scelte», dicono nel Movimento. E ancora: «Entro dieci giorni si chiude la partita? Anche meno». I Cinque Stelle mettono nel mirino un appuntamento che potrebbe essere dirimente. Danilo Toninelli incontrerà nei prossimi giorni a Bruxelles la sua omologa francese Elisabeth Borne e la commissaria europea per i Trasporti Violeta Bulc. Con sé il ministro avrà l’analisi costi-benefici sulla Tav tradotta in inglese e francese, un dossier che — stando alle indiscrezioni filtrate dal ministero dei Trasporti — ha dato esito negativo alla realizzazione dell’opera. Quello sarà il momento della decisione, il momento che dovrebbe segnare uno spartiacque. Salvini fiutata l’aria di rottura che si respira nel M5S, ieri sera ha cambiato spartito. «Se Di Maio vuole rompere io sono pronto —è il suo stato d’animo — ma se ne assume lui la responsabilità». L’attacco di Roberto Fico ha stroncato sul nascere l’atteggiamento zen del vicepremier leghista. Ha capito che forse questa volta non basterà il dialogo a far ripartire i cantieri della Tav ed è andato giù duro contro il presidente della Camera che «dice no a tutto». II suo monito prefigura nuove alleanze, costruite attorno a «gente che costruisca». Salvini è sempre più convinto che l’Italia abbia bisogno della sua guida e guarda con ansia al 26 maggio, quando il ribaltamento di consensi in favore della Lega imporrà un «cambio di rotta» al Governo. Se tutto andrà secondo le sue previsioni, il Carroccio chiederà un nuovo contratto e ministeri pesanti come i Trasporti e la Giustizia, dove a Salvini piacerebbe vedere Giulia Bongiorno al posto di Alfonso Bonafede. Ma il 26 maggio è lontano e il vice leghista prova a placare chi scalpitano per spedirlo a Palazzo Chigi. «Io non ho fretta — ripete ai suoi —. Per me quello che conta è la coerenza. Finché posso fare le cose che gli italiani mi hanno chiesto vado avanti, senza guardare i sondaggi». 

Primarie Pd. Carlo Calenda arriva a sorpresa nell’assemblea all’Ergife in cui il Pd certifica i risultati del primo round del suo congresso, quello tra gli iscritti, e avvia il conto alla rovescia per le primarie del marzo con l’obiettivo minimo di un milione di partecipanti. Sala affollata di delegati, eletti solo per l’appuntamento di ieri. Tifoserie dei candidati segretari agguerrite. Nicola Zingaretti con il 47,4%, Maurizio Martina (36,1) e Roberto Giachetti (11,1) sono arrivati in testa e sono pronti alla sfida nei gazebo. Ma a catalizzare l’attenzione è proprio l’ex ministro dello Sviluppo economico che ha promosso il manifesto “Siamoeuropei”, il fronte anti sovranista e un listone con il Pd al centro, in vista delle Europee di maggio. I tre candidati alla guida del Pd dopo una mattinata burrascosa hanno confermato l’appoggio unitario a #Siamoeuropei, conferma l’ex ministro dopo avere lasciato l’assemblea, dove ha atteso quattro ore prima di poter intervenire, in coda tra i militanti iscritti a parlare. A calmare le acque c’era stata anche una telefonata tra Zingaretti e Calenda, che aveva già attaccato sempre via social: “Se il documento dei parlamentari europei rimaneggiato nelle ultime ore da Goffredo Bettini si confermerà come una operazione contro #Siamoeuropei ne prenderò atto. Non possiamo combattere su 10 fronti #chiarezza”. Intervistato dal Corriere della Sera Calenda sostiene che la sua lista unitaria “forse non piace a Bettini e alla Toia che hanno espunto dal documento dei parlamentari europei ogni riferimento a Siamo Europei. Piace però all’82% degli elettori del Pd e alla quasi totalità di quelli di +Europa e Italia in Comune, secondo un sondaggio commissionato proprio dal Pd”. Calenda incalza: “Il Pd non basta più per niente. Al di là dei training autogeni che si possono fare durante le assemblee, il Pd ha un gigantesco problema di credibilità nel Paese. Quindi o si mette a disposizione di un progetto più ampio e convincente o rischia davvero di estinguersi”. In un editoriale su Repubblica Massimo Giannini sostiene che Calenda “non si può considerare ‘di sinistra’, nel senso classico oggi sgradito agli intellò che teorizzano la fine della dicotomia destra/sinistra. Ma Calenda ha qualche merito. È stato un buon ministro. Da Ilva a Embraco, ha detto cose che non avrebbe detto neanche Berlinguer ai cancelli di Mirafiori. È chiaro che non può fare il segretario. Ma è altrettanto chiaro che a lui si deve l’unica iniziativa politica che smuove le acque della palude”.

Politica estera

Venezuela, strappo di 7 Paesi Ue. Scaduto a mezzanotte l’ultimatum, oggi sette Paesi europei dovrebbero riconoscere Juan Guaidó come presidente a interim del Venezuela. L’attuale capo dello Stato Nicolás Maduro aveva otto giorni di tempo per indire nuove elezioni presidenziali altrimenti Germania, Spagna, Francia, Paesi Bassi, Portogallo, Regno Unito e da ieri pure l’Austria avrebbero dato il loro appoggio anche formale a Guaidó. Non solo Maduro ha respinto l’ultimatum e non ha indetto un nuovo voto presidenziale, ma ha annunciato elezioni legislative per cambiare il Parlamento di cui è espressione il nemico Guaidó. «Considereremo Guaidó come il presidente legittimo a interim — ha confermato ieri la ministra francese agli Affari europei, Nathalie Loiseau —. Maduro dice “organizzerò elezioni legislative”, il che significa in realtà “mi sbarazzerò del presidente del Parlamento Guaidó”, che è sostenuto dai manifestanti. Questa posizione è una farsa, una tragica farsa». La determinazione dei sette europei non è condivisa nel resto dell’Unione. Una soluzione di compromesso sembrava a portata di mano giovedì, quando la ministra degli Esteri svedese Margot Wallström ha proposto di riconoscere Juan Guaidó come presidente ad interim fino a nuove elezioni, ma l’Italia ha posto il veto. Una scelta che ha guadagnato al governo di Roma il poco ambito ringraziamento di Maduro, e la disapprovazione di Antonio Tajani, presidente del Parlamento europeo che ha già riconosciuto Guaidó. Il presidente «incaricato» del Venezuela, in una intervista al Corriere della Seraafferma:«Non è facile per noi capire la politica italiana o le difficoltà interne del vostro governo ad assumere certe posizioni. Faremo tutto quello che è possibile affinché il governo italiano aggiunga il suo appoggio, per noi importantissimo, al resto dell’Unione europea. Nella grande manifestazione di domenica si sono espressi sul palco vicino a me anche i rappresentanti della grande comunità italo-venezuelana. Spero che il governo italiano ascolti con attenzione il loro messaggio».

Il Papa negli Emirati. «Questa mattina ho avuto notizia che pioveva ad Abu Dhabi. In quel posto, lo si pensa come un segno di benedizione. Speriamo vada tutto così». Francesco sorrideva sereno, sull’aereo che ieri sere lo ha portato negli Emirati. E il primo pontefice a mettere piede nella Penisola arabica, culla dell’Islam, nell’ottavo centenario dell’incontro tra San Francesco di Assisi e il sultano al-Malik al-Kamil, «per scrivere insieme una pagina di dialogo e percorrere insieme sentieri di pace». Ma il Papa sa che tra oggi e domani lo aspetta uno dei viaggi più delicati del pontificato. La strategia di dialogo con il mondo musulmano e la pari dignità di tutti i fedeli. La prima messa pubblica in queste terre davanti a 135 mila cattolici. E l’appello per la pace — e per il ruolo essenziale e la responsabilità delle religioni — mentre prosegue la carneficina della guerra nello Yemen, che vede gli Emirati nella coalizione guidata dall’Arabia Saudita combattere i ribelli sciiti Houthi, senza pietà per bambini e civili. Francesco è tornato a parlarne ieri all’Angelus: «Con grande preoccupazione seguo la crisi umanitaria nello Yemen. La popolazione è stremata dal lungo conflitto e moltissimi bambini soffrono la fame», ha detto. Francesco dice di arrivare negli Emirati «come fratello per scrivere insieme una pagina di dialogo e percorrere insieme sentieri di pace». Il Paese, tuttavia, vive diverse contraddizioni al suo interno. Secondo Amnesty International, fra l’altro, proprio l’arrivo di Francesco può essere usato dal governo emiratino come “photo opportunity”, una vetrina, per mostrare una tolleranza religiosa non sempre reale, seppure le minoranze abbiano diritto di esistenza come non avviene in altri Paesi musulmani. Amnesty International, in particolare, parla di «sistematica repressione di ogni forma di dissenso e di critica», e chiede a Bergoglio di «segnalare alle autorità i casi dei difensori dei diritti umani in carcere».