Economia e finanza
L’Italia preoccupa la Ue. La Commissione europea ha ribadito ieri che l’Italia è fonte di instabilità economica nell’Unione europea, in un contesto di troppe riforme incompiute. Tra le altre cose, la valutazione deve servire al governo Conte per preparare entro aprile il proprio Programma nazionale di Riforma. In primavera, Bruxelles pubblicherà quindi nuove stime economiche e nuove raccomandazioni-paese, e deciderà nel caso se aprire una procedura per squilibrio macroeconomico. Secondo la Commissione europea, l’Italia è segnata da squilibri ritenuti «eccessivi», insieme alla Grecia e a Cipro. Da anni, ormai, Bruxelles sta mettendo l’accento sulle debolezze endemiche dell’economia italiana: alto debito e bassa competitività. «Vi diamo appuntamento in primavera quando valuteremo lo stato delle riforme italiane, anche alla luce del Programma nazionale di Riforma”, ha detto il vice presidente Valdis Dombrovskis. Finora nessun paese è mai stato oggetto di procedura, ma è da otto anni che l’Italia è segnata da squilibri macroeconomici. Parlando a Bloomberg Television ieri mattina, il vice presidente Dombrovskis ha spiegato: «Di tutti i paesi europei, l’Italia è quello che ha subito il rallentamento più pronunciato (…) Il danno provocato dall’incertezza del governo italiano per quanto riguarda la sua politica di bilancio ha provocato una frenata dell’economia». Gli ultimi due trimestri del 2018 sono stati segnati da una nuova clamorosa contrazione dell’attività economica. Il premier Giuseppe Conte da Roma, dove è stato approvato il decretone con le regole per reddito di cittadinanza e quota 100, ha replicato che alla Commissione Ue «sottovalutano l’impatto delle misure, che si dispiegheranno nei mesi a venire», e l’esigenza «di rafforzare l’equità sociale». Ha ammesso che «c’è una qualche debolezza nella domanda interna, ma è anche vero che la solidità economica rimane» grazie a un basso debito privato, ampio surplus commerciale, export diversificato, banche con meno crediti deteriorati.
Polemiche sul bail-in. Il via libera al bail-in dell’Italia e le pressioni subite dalla Germania sono tornate ieri al centro dell’attenzione dopo un’audizione al Senato di Giovanni Tria. II ministro dell’Economia ha detto che il suo predecessore Fabrizio Saccomanni nel 2013 è stato «praticamente ricattato» da Berlino sull’ok al bail-in. «Credo che quando fu introdotto fossero tutti contrari. Quel che so è che la Banca d’Italia in modo discreto si oppose», ha detto Tria. «Ho letto una dichiarazione dell’allora ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni, che fu praticamente ricattato dal ministro delle Finanze tedesco», ha detto Tria. «Se l’Italia non avesse accettato il bail-in, si sarebbe diffusa la notizia che non lo faceva perché aveva un sistema bancario prossimo al fallimento». In serata il ministro ha corretto in parte il tiro sul ricatto, parlando di «espressione evocativa ma infelice» che non voleva essere un’accusa alla Germania. La chiave di volta della vicenda fu lo scenario politico ed economico in cui era avvolta l’Europa: la crisi dei debiti sovrani del 2010-2012 faceva ancora sentire il suo effetto e in Italia era ancora fresco il ricordo dell’autunno dello spread che portò al governo Monti. Eravamo insomma più che sorvegliati speciali, c’era poi l'”urgenza” di chiudere – come ricordò Saccomanni – prima che nel 2014 si svolgessero le elezioni europee e si costituisse la nuova Commissione. Sul piano negoziale più che di un ricatto si trattò di un esito ineluttabile.
Politica interna
Questione Tav. La strada sulla quale camminano i Cinque stelle per uscire da quel ginepraio politico che è diventato la questione Tav è sempre più tortuosa. Anche perché, ammesso e non concesso si giunga mai al voto parlamentare necessario per cancellare l’opera, appare difficile che il presidente della Repubblica possa firmare una legge di abolizione del trattato internazionale firmato in precedenza dall’Italia. Che sia una versione riveduta e corretta del progetto, che venga chiamata mini-Tav o in qualunque altro modo, alla fine quello sarà il collo di bottiglia dal quale bisognerà passare. Ma il tempo, lasciato scorrere di proposito con l’alibi della famosa analisi costi-benefici, non ha giocato a favore dei pentastellati di governo. La rinuncia alla Tav non potrebbe che essere un gesto unilaterale, che getterebbe M5S nell’isolamento più completo, e avrebbe valore propedeutico solo a una rottura dell’alleanza di governo. Ma presenta ormai più costi che benefici. L’accordo su una Tav in minore, che sarebbe la riproposizione della trattativa affidata l’estate scorsa all’attuale sottosegretario all’Economia Laura Castelli, rischia di essere percepito come l’ennesima sottomissione di Di Maio a Salvini. L’altro effetto collaterale si chiama Torino. Non è un mistero tra i Cinque stelle che un attimo dopo la firma di qualunque accordo che autorizzi lo scavo del tunnel di base, la giunta della città amministrata da Chiara Appendino salterebbe come un tappo. L’opzione del temporeggiamento fino alle Europee non è più percorribile. Proprio ieri l’agenzia dell’Ue che gestisce i finanziamenti ha condiviso la necessità di pubblicare entro marzo i bandi per la costruzione del tunnel di base, pena la perdita immediata di 300 milioni di euro comunitari. «Entro la prossima settimana arriverà una scelta definitiva», assicura il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli, uscendo da Montecitorio. E anche Matteo Salvini «Basta rinviare. Per pronunciare due semplici letterine non dobbiamo aspettare il 26 maggio», giorno delle elezioni europee. Che poi le «due letterine» si traducano in un «Sì» o in un «No» è questione ben più complicata.
Autonomia delle regioni. Il segretario della Lega, forte dei successi elettorali in Abruzzo e Sardegna, sembra sia passato subito all’incasso. E ha incalzato a muso duro il collega 5stelle sul provvedimento di bandiera per lui irrinunciabile: sull’autonomia di Lombardi, Veneto ed Emilia Romagna non si può più tergiversare, per loro prioritario se il governo vuole andare avanti, è stato l’aut-aut all’alleato che sul dossier negli ultimi giorni ha nicchiato. Per questo ieri — nonostante l’agenda fissata in Sardegna — Salvini è dovuto rientrare a Roma per incontrare al Viminale il ministro degli Affari regionali Erika Stefani e i governatori della Lombardia e del Veneto, Attilio Fontana e Luca Zaia, molto preoccupanti per l’andazzo lento che il «catenaccio» dei grillini ha imposto alle intese regioni-governo sull’autonomia differenziata. «In settimana avrò un documento di sintesi da discutere con il premier Conte e con il vice Di Maio», ha detto il ministro. «Applicheremo la Costituzione. Non mi sembra che le regioni ad autonomia speciale abbiano da perdere alcunché. Stiamo vivendo un momento storico: lo dimostrano le altre regioni che hanno avanzato richiesta di autonomia: Liguria, Piemonte, Campania, Toscana, Umbria e Marche. E’ una richiesta di buona amministrazione e di spesa trasparente».
Politica estera
Summit Trump-Kim. Il programma per il presidente Trump oggi prevede la firma di un «joint agreement», un accordo con il leader nordcoreano Kim. Questo significa che l’intesa generale su un testo già esiste. I primi colloqui con Kim sono stati molto cordiali. Trump ha detto che «la Corea del Nord e il suo leader hanno enormi potenzialità», se sceglieranno la strada del disarmo. Kim ha definito «coraggiosa» la scelta del collega americano di tenere un secondo summit, dopo quello di Singapore, e ha promesso che «farò del mio meglio affinché sia un successo». Secondo le ultime indiscrezioni, le linee generali dell’accordo si basano su tre punti: dichiarazione della fine della guerra degli Anni Cinquanta; apertura di uffici di rappresentanza nelle rispettive capitali; chiusura del complesso nucleare di Yongbyon, che produce tutto il plutonio e il trizio usato per produrre le armi atomiche, riaprendo le porte agli ispettori internazionali dell’Aiea per verificare. In cambio Kim vorrebbe l’inizio dell’alleggerimento delle sanzioni stabilite in sede Onu, ma la concessione più probabile sembra essere quella di consentire alla Corea del Sud di riprendere subito la collaborazione economica e i progetti di sviluppo congiunti con il Nord. Presidente, dichiarerete la fine della guerra di Corea durante questo vertice? «We’ll see», «vedremo», risponde Donald Trump davanti alle telecamere mentre saluta Kim Jong-un. Parla Kim: «Abbiamo superato molte difficoltà, molti ostacoli per arrivare qui oggi, 261 giorni dopo il nostro primo colloquio, sono fiducioso che avremo un buon risultato e farò del mio meglio». Kim potrebbe portare a casa anche la Dichiarazione di fine della guerra di Corea, ancora ferma al cessate il fuoco del luglio 1953, oltre all’apertura di uffici di collegamento diplomatico e al via libera agli investimenti sudcoreani a Nord del 38° Parallelo. L’inizio del futuro di prosperità.
Accuse a Trump. «Razzista. Bugiardo. Imbroglione. Truffatore». Le rivelazioni dell’ex avvocato di Donald Trump “sporcano” il vertice di Hanoi con Kim Jong-un. “Split screen”, schermo diviso in due, è il termine che si usa quando i notiziari tv devono narrare due eventi in parallelo. Così l’America ieri ha seguito un presidente in missione speciale in Asia, mentre il suo grande accusatore Michael Cohen lo inguaiava a Washington. L’ex avvocato personale di Donald Trump Michael Cohen ha testimoniato per ore ieri davanti alla commissione di controllo della Camera, nell’arduo tentativo di riabilitare la sua reputazione. Cohen è un uomo battuto, esposto nella più cruda profondità dei crimini che ha commesso. La sua linea di difesa è che ha violato la legge per obbedire agli ordini del suo ex assistito, e che ha agito in coordinazione con lui e con i membri della sua famiglia, in particolare il primogenito Donald Jr. e la figlia Ivanka. Il nocciolo della testimonianza va poi a toccare l’indagine del Russiagate, nella quale Cohen è diventato un collaboratore di giustizia per il procuratore speciale Bob Mueller. Cohen ha accennato a indagini penali in corso su Trump: alcune potrebbero scontrarsi con l’immunità presidenziale, e colpirlo solo quando tornerà ad essere un cittadino ordinario. L’apparizione dell’ex amico che Trump chiama oggi «il sorcio» è solo un primo spiraglio dell’uragano che si sta per abbattere sulla Casa Bianca. Resta che le confessioni di Cohen forniranno munizioni alla candidata o al candidato democratico che sfiderà il presidente nel 2020. Trump risponderà con valanghe di fango sugli avversari.