Economia e Finanza

Germania e Usa, allarme recessione. Pil tedesco negativo dello 0,1% nel secondo trimestre dell’anno rispetto al trimestre precedente e curva dei rendimenti dei titoli di Stato tedeschi, tutti in segno negativo, piatta come non la si vedeva dalla Grande Crisi. Invertita la curva dei rendimenti dei titoli di Stato americani e inglesi, con primi segnali di stagflazione nel Regno Unito. Produzione cinese in crescita ridotta come non si vedeva dal 2002. I mercati vanno a caccia di asset sicuri, vedono sempre più nero l’andamento della principali economie, temono la fine della crescita mondiale e vedono vacillare la fiducia nel potere delle banche centrali e delle politiche monetarie ultra-accomodanti se non accompagnate da adeguati stimoli fiscali e riforme strutturali pro-crescita. È in questo cupo quadro agostano, mese tradizionalmente caldo sui mercati anche a causa della scarsa liquidità, che la recessione tecnica (due trimestri consecutivi di Pil in segno negativo) è arrivata alle porte di una Germania che non riesce a farsi trainare dalle esportazioni in un momento di alta tensione sul commercio mondiale e clima incandescente in Usa, Cina e Regno Unito, che sono tra i principali partners commerciali delle imprese tedesche. La tregua sui mercati è durata solo un giorno. Scossi dalla paura di una nuova recessione in Germania e negli Stati Uniti, ieri i listini hanno chiuso in profondo rosso, con l’America in calo di oltre il 3%. Negli Stati Uniti (e nel Regno Unito) il rendimento dei titoli decennali del Tesoro è sceso sotto quello dei titoli a 2 anni, un’inversione della curva che non si osservava da oltre un decennio e anticipatrice di recessione. In un’estate già densa di tensioni, dalla guerra commerciale alla crisi argentina, le ultime (cattive) notizie hanno spaventato gli investitori. E l’oro, bene rifugio per eccellenza in tempi di volatilità, ha segnato un nuovo record, sopra i 1.500 dollari l’oncia. Milano è stata la Borsa peggiore in Europa, con il Ftse Mib in discesa del 2,53%, mentre lo spread è sceso intorno a 217 punti nel giorno in cui Bankitalia ha segnalato un nuovo record del debito pubblico a 2.386 miliardi a giugno. Andrea Goldstein scrive sul Sole 24 Ore che “il rallentamento della crescita del commercio mondiale, dovuto soprattutto, anche se non solo, alle tensioni protezionistiche, ha ripercussioni importanti sulla congiuntura di tutti i paesi europei. E la Germania non fa eccezione: nell’ultimo quarter, l’export ha registrato un calo più consistente che l’import, con dinamiche negative particolarmente accentuate per il comparto automobilistico. Va detto anche che a sostenere la crescita sono stati consumi delle famiglie e del settore pubblico e investimenti in capitale fisso, a sfatare il mito di certi commentatori nostrani che la buona salute dell’economia tedesca sia il frutto di laboriose formichine sottopagate. In ogni caso, il numero di persone che lavorano non è mai stato tanto alto: più di 45 milioni, con un aumento di 435 mila unità da giugno 2018. Il lavoro (tra cui ovviamente anche quello di un numero non insignificante dei rifugiati accolti nell’estate 2015) è più degno dei sussidi. Le reazioni della classe politica tedesca, anche se non sempre univoche, sono improntate alla moderazione, forse perché a Berlino non si vive in uno stato di campagna elettorale semiperenne”.

Crisi di governo e manovra. In una lettera al Sole 24 Ore Vincenzo Boccia scrive che proprio in questi giorni cade una delle crisi di governo più complesse che il nostro Paese abbia mai affrontato per tempi e modalità, perché capita in un momento in cui l’economia ristagna – il Pil tedesco fa registrare un meno 0,1 per cento nel secondo trimestre – e gli ordini arretrano nelle grandi regioni industriali del Nord mentre a Sud si assiste a un continuo aumento dei divari e a un ulteriore deterioramento della situazione economica. Noi non partecipiamo, perché non dobbiamo partecipare, al dibattito se sia opportuna o meno una verifica elettorale immediata o la scelta di soluzioni alternative che comunque dovrebbero avere una strategia e fissare degli obiettivi valutabili nel merito. Ciascuno di noi a livello personale ha ovviamente le proprie idee e può decidere se renderle pubbliche o mantenerle riservate. Confindustria ha costruito la sua credibilità nei decenni rimanendo fedele, dagli anni Settanta in poi, a quella che un mio predecessore definì la tripla A: essere ed essere percepita Autonoma, Apartitica e Agovernativa. Ciò significa giudicare i singoli provvedimenti di un governo o i progetti di una forza politica senza mai affidare ad alcuno una delega generale, decisione che spetta solo ai cittadini nell’ambito dei percorsi istituzionali, e che noi dobbiamo ovviamente rispettare. Per questo non interveniamo nel dibattito in corso e per questo accetteremo con serenità quanto le istituzioni e i cittadini decideranno. Per noi occorre superare le incertezze e quindi il punto non è solo e tanto fare presto ma fare che cosa. A noi interessano più sviluppo, più crescita, più occupazione da realizzare a partire dalla prossima manovra di bilancio puntando a un taglio del cuneo fiscale per rafforzare i salari dei lavoratori, a un piano di inclusione dei giovani nel mondo del lavoro e a massicci investimenti in infrastrutture che colleghino persone e territori per includere e rafforzare la coesione sociale. Questi sono peraltro i punti sui quali le grandi associazioni di rappresentanza hanno mostrato grande convergenza ai tavoli di governo. Preoccupazioni arrivano anche da Confcommercio. «La crisi politica arriva in una in fase congiunturale critica, con la crescita acquisita per l’intero 2019 pari a zero e uno scenario internazionale caratterizzato da guerre commerciali, dal timore della Brexit e il rischio recessione che interessa anche la Germania che ha chiuso il secondo trimestre con il Pil negativo. L’allarme è giustificato anche dalle reazioni dello spread edei mercati che ci dicono che nessuno ci farà sconti. Non interveniamo nel dibattito politico, ma segnaliamo alle forze politiche che serve una consapevolezza comune, va messa in sicurezza la nostra economia, anzitutto disinnescandogli aumenti Iva». È l’analisi del presidente di Confcommercio, Carlo Sangalli, che non nasconde le preoccupazioni del mondo produttivo per l’attuale contesto, appellandosi alle forze politiche: «Va salvaguardato l’interesse del Paese evitando l’esercizio provvisorio per dsinnescare gli aumenti Iva e lavorare alla legge di Bilancio per contribuire alla ripartenza dell’economia».

Politica interna

Crisi di governo. Berlusconi: Salvini ha fatto mosse azzardate. «Il 20 agosto sfiduceremo il premier. La via maestra, democratica, trasparente, lineare, è quella delle elezioni. No a governi strani, prima si vota meglio è». A una settimana dall’apertura politica della crisi di governo il leader della Lega Matteo Salvini non può che insistere sulla richiesta di elezioni prima possibile, ma intanto deve registrare un cambio di clima a suo sfavore: il voto di martedì in Senato che ha deciso di calendarizzare le comunicazioni del premier Conte per il 20 agostoe non per il 14, come voleva la Lega ha finito per saldare M5s, Pd, Leu e Autonomie in un asse anti-salviniano di 161 voti che potrebbe costituire la base di un nuovo governo. E i segnali di dialogo tra una parte del Pd e il M55 per un esecutivo cosiddetto di legislatura che relegherebbe Salvini all’opposizione a tempo indeterminato si infittiscono, anche se la strada appare in salita. Intanto il M5s accusa Salvini di incorenza e lo invita a «mollare la poltrona». Nell’incertezza dell’esito, Salvini non solo non ritirerà la mozione di sfiducia come gli chiede di fare il M5s per poter votare il taglio dei parlamentari calendarizzato alla Camera il 22 agosto, ma non ritirerà neanche la delegazione dei ministri leghisti come pure ventilato nei giorni scorsi per indurre Conte alle dimissioni immediate. Conte infatti ha deciso di parlamentarizzare la crisi e non rinuncerebbe alle sue comunicazioni alle Camere neanche se Salvini ritirasse i ministri. «Una questione di correttezza verso il Parlamento e il Paese», ripete in queste ore ai suoi, che comunque lo vedono tranquillo e sicuro di aver scelto la strada giusta. Il timore dei dem è che Salvini per evitare l’inciucio possa tentare il «contro inciucio», che possa cioè usare questa settimana per tornare sui propri passi e cercare un nuovo, spericolato accordo con Di Maio. È una preoccupazione palpabile, nonostante ieri il leader della Lega abbia annunciato che il 20 voterà la sfiducia a Conte, malgrado nel Carroccio respingano sdegnati l’eventualità: «Perché se facessimo retromarcia, dopo aver perso la possibilità di andare alle elezioni perderemmo anche la faccia». «La faccia non mancherebbe a Salvini», ribattono dal Nazareno, persuasi della minaccia per via di certi segnali «inequivocabili». Il fatto è che il sistema circolare dell’informazione tra partiti non consente più di tenere riservate le notizie. Per esempio i leghisti hanno saputo che il leader pd Zingaretti, dopo aver dato garanzie a Salvini sul voto anticipato, è stato «dissuaso da una perentoria telefonata di Prodi». Allo stesso modo ieri i democratici hanno intercettato lo sfogo di Giorgetti contro la mossa del suo «Capitano»: «Per mesi gli ho detto “stacca stacca”. E quando gli ho detto di non farlo, lui ha annunciato la crisi. Ma andasse…». Intervistato da Repubblica Giorgetti sostiene che ci sono le condizioni per andare al voto entro il 27 ottobre. «Che un governo si insedi anche un mese dopo, a fine novembre, e appronti una manovra, intanto per congelare l’Iva. Lo ha già fatto Gentiloni nel 2017. Poi serviranno misure politiche, concrete. E su quelle abbiamo già le idee chiare». «Sarebbe davvero singolare che si perda altro tempo. Non vogliono elezioni in autunno? A quel punto la cosa quasi inevitabile è che si insedi un governo elettorale fino al voto e che presenti un bilancio a legislazione vigente, come si dice in gergo. E poi un decreto a fine anno con misure in vigore da gennaio: a cominciare dalla sterilizzazione dell’aumento dell’Iva, ovviamente. Purché a inizio anno si torni davanti agli elettori». Intanto sul fronte di Forza Italia con i suoi fedelissimi in queste ore Silvio Berlusconi è stato chiaro: «Per me esiste solo il centrodestra. Non sono disponibile ad altre soluzioni, né istituzionali né alternative di alcun tipo». È un no secco il suo a qualunque governo con maggioranze spurie, che lo si chiami di scopo o di salvezza nazionale. L’ansia che pervade tanti azzurri non spaventa il leader azzurro. Che è sì preoccupato, ma non dai toni spavaldi, piuttosto dalle ultime scelte dell’alleato di ieri e forse di domani. «Si — ha confessato nelle riunioni — mi preoccupano le mosse azzardate di Salvini». Insomma, si interroga l’ex premier, perché il leader della Lega «chiede di votare in Parlamento sapendo di essere in minoranza? Il rischio è che si faciliti la nascita di un governo contro il centrodestra. Oppure che si vada sì al voto, ma con Salvini che perde consensi a causa dell’azzardo compiuto». Si perché non solo Berlusconi sa bene quante volte lo stesso Salvini nei mesi scorsi gli abbia detto «non apro la crisi, perché gli italiani puniscono chi tradisce un patto». Ma ricorda ai suoi anche quello che successe con Matteo Renzi: «A un certo punto perse il senso del limite, ed è quello che mi sembra stia accadendo anche a Salvini. Il suo è stato un errore». Salvini interpellato dal Mattino dice che per un patto con Berlusocni è ancora troppo presto. «Al momento non sappiamo cosa accadrà domani. Se si andrà a votare oppure no. Dunque trattative, accordi, listini e poltrone sono gli ultimi dei pensieri miei. Sarebbe irrispettoso. Andiamo per gradi». Quanto all’ipotesi che possa nascere un governo diverso da quello di adesso Salvini ritiene che «sarebbe davvero da irresponsabili. Finirebbero per governare il Paese quei due partiti che nelle ultime elezioni, regionali ed europee, sono stati sempre sistematicamente sconfitti. Sarebbe l’esecutivo dei perdenti. Ci può credere solo gente come Renzi, uno che se oggi si tornasse al voto non guadagnerebbe neppure il consenso dei parenti. Ai parlamentari dico che la dignità viene prima delle poltrone. In ogni caso noi abbiamo fiducia in Mattarella».

Grillini-Pd, arriva l’ok di Casaleggio. E ora nel Pd scatta il terrore del ripensamento: non del segretario sul governo con i grillini, bensì di un indietro tutta dei due dioscuri Salvini e Di Maio. Ovvero di un ricompattamento dei gialloverdi, assai improbabile. «Fantascienza», assicura Giuseppe Brescia, presidente della prima commissione, molto vicino a Fico. «Non esiste che torniamo indietro, la gran parte dei gruppi si sentono sollevati». «Ma non è impossibile visto che questa è la crisi più pazza del mondo», dicono i Dem. Il leader Pd anche per questo resta coperto. I suoi colonnelli, in giro per il paese, già sono allertati, non solo da un ritorno in auge rispetto alla prospettiva di sconfitta alle urne. Ma anche dalla speranza di alleanze a raffica nelle regioni per blindare posizioni (come quella di Zingaretti nel Lazio); e per difenderne altre (come quella di Bonaccini in Emilia) . Il via libera di Davide Casaleggio è dunque il più atteso, perché nel Pd nessuno si fida di Di Maio. Nella tolda di comando del partito, dove insieme a Zingaretti da giorni siedono vari pezzi grossi, da Bettini a Franceschini, da Orlando a Gentiloni (che resta il più refrattario), tutti si chiedono cosa pensi sul serio il capo di Rousseau. Sorrisi più distesi quando esce un’agenzia che attribuisce a Casaleggio il non porre veti ad un accordo col Pd, tranne quello di tenere fuori Matteo Renzi. Ma la voce ufficiale del presidente dell’associazione Rousseau non si è fatta ancora sentire. Ed è con lui che prima o poi il segretario del Pd dovrebbe confrontarsi, certo non prima che Conte sia salito al Colle. Si perché tra i Dem c’è la certezza che in questa «difficilissima partita» sia Casaleggio a dare le carte nel Movimento, tanto più ora che Di Maio difficilmente potrebbe essere coinvolto in un nuovo governo. La paura che Di Maio stia tentando di ricucire con la Lega poggia sul fatto che il capo politico di M5S verrebbe tagliato fuori da un esecutivo col Pd e che per questo abbia tutto l’interesse a giocarsela fino alla fine. Dal mondo pentastellato però piove un avvertimento, giunto di sicuro fino al Nazareno: «Farebbe un errore Zingaretti a scavalcare Luigi», spiega uno dei suoi uomini, «una mancanza di fiducia tale potrebbe compromettere la trattativa».
Intervistato da Repubblica Renzi alla domanda come fa ad andare avanti con chi fino a pochi giorni fa definiva il Pd il partito di Bibbiano risponde «Provo disgusto per come sono stato trattato da molti grillini. Hanno insultato me, mia moglie, la mia famiglia. Qualcuno ha fatto il gesto delle manette ai miei genitori: un barbaro, incivile. Ma la politica non si fa con il risentimento personale. Non mi interessa avere ragione, ma dare una prospettiva all’Italia Puoi sopportare un insulto, ma non puoi sopportare una recessione causata dalla stupidità e dalla cialtroneria Se si va a votare quando lo dice “capitan Fracassa” Salvini, non evitiamo l’innalzamento dell’Iva e arriva la recessione. Se il Pd va al 25% tutti diremo: che bel risultato. Ma il Pd al 25% significa opposizione. E aumenta l’Iva» . Sul possibile accordo Pd.M5S Massimo Giannini sulle colonne di Repubblica parla del dilemma del rospo. “Baciare il rospo”: sembra il destino della sinistra italiana.Successe nel `95 con Dini, che subentrò al primo governo Berlusconi grazie al sostegno del Pds di D’Alema. Successe nel 2011 con Monti, che successe al terzo governo Berlusconi col lasciapassare del Pd di Bersani. Può risuccedere oggi, con il Pd di Zingaretti che dà via libera a un governo giallorosso pronto a mettere qualche pezza a colori sui disastri di quello gialloverde. Lo fa con il Movimento di Grillo, che dopo gli anni del Vaffa ai “PiDioti” adesso si scopre “elevato” e si preoccupa di fermare “i barbari”, ai quali in 14 mesi ha consegnato le chiavi del regno. Lo fa con Di Maio, che solo due settimane fa schiumava rabbia contro “il partito di Bibbiano”. Si può baciare anche questo rospo? Si, evidentemente si può. Bettini lo teorizza. Franceschini e Minniti lo confermano. Renzi, nella sua ultima, stupefacente reincarnazione, fa anche di più: archiviate le offese a Babbo Tiziano, dice addirittura che “si deve”. E al netto delle convenienze dei singoli, hanno tutti qualche ragione. Tanto più adesso che l’emergenza non è più solo economica, ma è diventata anche democratica. Questa è la sfida che la sinistra ha di fronte. Se siamo tornati al 1921, allora va bene tutto. E chi se ne infischia della coerenza, delle incompatibilità identitarie, del #senzadime che dalla sera alla mattina diventa #vengoanchio. Si chiama Ragion Politica. Anche Togliatti e Moro, qui ed ora, l’avrebbero praticata. Tutto vero, tutto giusto. I benefici sono chiari: così si sconfigge il disegno autocratico e il delirio di onnipotenza del Tiranno. Ma quali sono i costi? Salvini griderà per mesi “gioco di Palazzo” ordito dai soliti noti “incollati alla cadrega”, per privare i cittadini del diritto di votare. La sinistra ha una classe dirigente credibile e capace di far capire agli italiani che queste sono le regole della democrazia parlamentare, e che come il governo gialloverde un anno fa non è stato votato dagli italiani ma è nato da un “contratto” post-elettorale, oggi un altro governo può nascere nello stesso modo e in modo altrettanto legittimo senza ripassare dalle urne?

Politica estera

Migranti, il Tar sconfessa Salvini «Eccesso di potere per travisamento dei fatti e violazione delle norme di diritto internazionale del mare in materia di soccorso». La miccia che fa deflagrare il fuoco che già covava sotto le polveri del governo che non c’è più viene accesa nel pomeriggio da un provvedimento senza precedenti del Tar del Lazio che assesta la seconda botta in due giorni ad un Salvini furioso. Il divieto di ingresso in acque italiane per la Open Arms, vista la situazione «di eccezionale gravità e urgenza» è sospeso, la nave può entrare per consentire l’immediata assistenza alle persone. La Open Arms canta vittoria e si muove nel mare in tempesta verso Lampedusa mentre Salvini si lancia in una litania di no: «A nome del popolo italiano non smetterò di difendere i confini. Se qualcuno la pensa diversamente, se ne assuma la responsabilità». E ingaggia un braccio di ferro dietro l’altro. Con il premier Giuseppe Conte, innanzitutto, che gli aveva indirizzato una lettera poche ore prima chiedendogli di rispettare le norme a tutela dei minori e delle persone vulnerabili e autorizzare il loro sbarco come chiesto dal tribunale dei minori di Palermo. Con la ministra della Difesa Elisabetta Trenta che (dopo aver cofirmato il divieto di ingresso subito prima della crisi di governo) ora si smarca decisamente dal Viminale e manda due navi militari dell’operazione Mare sicuro a monitorare la Open Arms nella rotta verso l’Italia, disponendo il trasferimento dei 32 minorenni a bordo oggi quando la nave sarà di fronte Lampedusa. E braccio di ferro, ovviamente, anche con la giustizia amministrativa. «Figuriamoci – dice un Salvini sprezzante – se un giudice del Tar del Lazio ora decide di fare entrare una nave spagnola che è in acque maltesi. Caro giudice, lo stipendio te lo pagano gli italiani e devi difendere confini italiani». Annuncia ricorso al Consiglio di Stato e la firma di un nuovo divieto per la Open Arms. Disintegrata l’unità di facciata esibita dal governo nei precedenti casi di divieti alle navi delle Ong, il verdetto del Tar è una spallata al decreto Sicurezza bis (viene contestato il principio che una nave che soccorre un’imbarcazione a rischio possa essere considerata offensiva per la sicurezza del Paese) e apre una pagina inedita ancora tutta da scrivere. «C’è un disegno per tornare indietro e aprire i porti, un patto innaturale Pd-MSS. Ma io non torno indietro». Ma la Ong spagnola ha già pronta la contromossa con la richiesta di un commissario ad acta, che si sostituisca a Salvini nell’autorizzare l’ingresso nelle acque territoriali e lo sbarco.

Proteste ad Hong Kong. Quando la sorte di una città è legata alla forza della polizia c’è da allarmarsi. È quello che sta accadendo a Hong Kong, sprofondata in una crisi violenta da dieci settimane. Il governo centrale cinese ormai definisce «quasi-terrorista» l’ala dura del movimento democratico e ha evocato l’impiego della sua guarnigione militare se la Hong Kong Police Force non riuscirà a riportare l’ordine. Ma proprio l’eccesso di reazione degli agenti che sparano a distanza ravvicinata pallottole di gomma sui dimostranti, tirano lacrimogeni in luoghi pubblici chiusi e manganellano a sangue sta alimentando la furia dell’ala dura del movimento in maglietta nera e mascherina sul volto. Anche ieri sera scontri e domenica si aspetta una nuova marcia di protesta. Carrie Lam, la governatrice burocrate di Hong Kong, ora quasi piange in pubblico mentre commenta i due giorni di battaglia nella hall dell’aeroporto. La signora che ha causato la rivolta proponendo una legge per l’estradizione verso la Madrepatria cinese dice di vedere con angoscia «la nostra città che cade verso l’abisso». Lacrime di coccodrillo: o è troppo sprovveduta (non ha capito subito che i cortei da un milione di persone non si contengono con i lacrimogeni), o quando lo ha capito ha cinicamente fatto il lavoro preparatorio sporco per conto di Pechino. Il movimento senza capi, «liquido come l’acqua che scorre imprendibile» oscilla tra la maggioranza civile e i duri pronti a ingaggiare guerriglia con la polizia. La polizia di Hong Kong, un tempo definita «la più bella dell’Asia», formata sul modello dei «bobbies» britannici, sembra esausta, esasperata e incattivita dalla prova. Denise Ho, artista, cantante e attivista è uno dei nuovi volti della protesta che ha infiammato Hong Kong in questi mesi. Alla domanda su chesuccederà ora a Hong Kong dopo settimane di proteste culminate nell’occupazione dell’aeroporto internazionale risponde: «Le proteste sono iniziate in modo pacifico con milioni di cittadini in piazza contro la legge sull’estradizione. Purtroppo il governo di Hong Kong ha praticamente ignorato le richieste dei manifestanti e non ha aperto un vero dialogo politico. In più la reazione brutale e sproporzionata delle forze dell’ordine ha radicalizzato la piazza: lancio di lacrimogeni nel metrò, proiettili di gomma sparati a distanza ravvicinata e violenze ingiustificate hanno esasperato gli animi. Questa non è più la città che ha conosciuto una stagione di libertà, grazie alla “Basic Law”, l’insieme degli accordi costituzionali e di transizione negoziati fra Londra e Pechino nel 1997». Gino Pugliese esperto di Asia, lecturer al Dipartimento di War Studies al King’s College di Londra, intervistato dal Sole 24 Ore spiega che «la situazione è preoccupante e il rischio di repressione da parte delle autorità cinesi a Hong Kong sta crescendo. Penso però che nelle alte sfere di Pechino si rendano conto della convenienza a temporeggiare. Per evitare il rischio di una Tienanmen in mondovisione, che avrebbe gravissime controindicazioni politiche ed economiche».