Economia e finanza
Spread in picchiata a causa delle tensioni Salvini-Di Maio. Sarà che in campagna elettorale è più conveniente distinguersi, sarà per la crescente litigiosità tra i due vicepremier, sarà per la nuova, temeraria aspirazione al moderatismo del leader dei Cinque Stelle, fatto sta che Matteo Salvini e Luigi Di Maio riescono a litigare anche sullo spread. Vale a dire su ciò che fin qui avevano considerato come una bizzarra fissazione da economisti ostinati. E il livello dellatensione tra i due alleati di governo sale al punto che il prudente Giancarlo Giorgetti, sottosegretario leghista a Palazzo Chigi, ammette di essere «esausto» per questa guerra quotidiana a colpi di tweet e dichiarazioni a mezzo stampa tra i due leader e per la prima volta evoca pubblicamente il rischio della rottura: «Se la litigiosità resta a questi livelli anche oltre il 26 maggio non si può andare avanti».E non esclude neanche elezioni a settembre: «Non ho mai paura quando il popolo si esprime». All’ora di pranzo le agenzie di stampa battono le parole di Salvini da Verona, all’inaugurazione della nuova sede di Cdp: «Se serve infrangere i limiti del 3% nel rapporto deficit-Pil o del 130-140% del debito pubblico, noi tiriamo dritti. Fino a che la disoccupazione non sarà dimezzata, fino a che non arriveremo al 5% spenderemo tutto quello che dovremo spendere. E se qualcuno a Bruxelles si lamenta ce ne faremo una ragione». Un’affermazione che ha immediatamente agitato i mercati. Attorno alle 14,40 il differenziale di rendimento tra Btp e Bund a 10 anni si è allargato fino a 284 punti base, dai 277 del finale di seduta di lunedì, toccando il massimo da metà febbraio. In chiusura c’è stata una certa ripresa, a quota 281 punti base. Parallelamente, subito dopo la diffusione delle parole di Salvini da parte delle agenzie, anche l’euro ha perso terreno nei confronti del dollaro. «Ci sono rinnovati timori sull’Italia – ha detto alla Reuters Win Thin, numero uno della currency strategy per Brown Brothers Harriman a New York – sembra che la situazione si faccia di nuovo difficile». La questione è quella del debito pubblico italiano. Una montagna di titoli che vale più o meno 2.400 miliardi di euro che bisogna in continuazione rinnovare sui mercati finanziari, convincendo gli investitori ad acquistare i nostri titoli.
Industria 4.0: presentato ieri il Rapporto “Dove va l’Italia”. Adesso tocca all’Italia. La protagonista dell’ultimo rapporto del Centro studi di Confindustria è la domanda interna, grande assente nel lungo attraversamentodella crisi, chiamata ora a svolgere un nuovo molo propulsivo davanti al rallentamento progressivo dell’export. Se le commesse internazionali hanno infatti traghettatol’industriae il Paese fuori dalla recessione – questa la tesi di fondo del rapporto “Dove va l’industria italiana” – oggi queste non sono più in grado di fornire carburante aggiuntivo sufficiente. In parte a causa di eventi contingenti come guerre commerciali o Brexit, più in generale per effetto di trasformazioni profonde che indicano la fine dell’età dell’oro della global inazione e un ritorno al regionalismo come paradigma di riferimento per gli scambi. Se questo accade diventa dunque necessario fare maggiore affidamento sul mercato domestico, rilanciando in primis investimenti pubblici e privati. Questi ultimi, del resto, hanno già fornito un contributo non marginale negli ultimi anni, spinti in particolare dagli incentivi fiscali del Piano Industria-Impresa 4.0. Se le cose stanno così un processo di questo tipo non può vivere di soli incentivi ma abbisogna di una cultura del digitale che ancora non c’è e che la manifattura è chiamata ad elaborare in tempi stretti. Una cultura non solo «macchinista» ma che, ad esempio, sappia dare risposte anche alla mutazione del lavoro che spacca l’universo operaio in almeno tre tronconi diversi. Il Rapporto del Csc tributa un ampio riconoscimento alla vivacità dell’industria italiana dei macchinari decisiva nel raddoppio del saldo commerciale realizzato in questi anni. Il peso dei macchinari nell’export è del 19,1%, precede nettamente il made in Italy «estetico» (mobili, tessile, abbigliamento, calzature) al 14,6% e ha propiziato quella che Montanino chiama «la via alta del riposizionamento del sistema manifatturiero italiano». Ma se le cose stanno così bisognerebbe dotarsi di una politica industriale ad hoc, perché in un mondo in cui niente resta fermo l’interesse dei gruppi stranieri, cinesi in testa, nei confronti dei nostri gioielli della meccanica è sicuramente una variabile con la quale fare i conti.
Politica Interna
Scontro M5S-Lega. E’ troppo insistita e puntigliosa la polemica del Movimento Cinque Stelle contro la Lega, per non sollevare qualche dubbio. Il vicepremier grillino Luigi Di Maio dice di avere registrato una sorta di mutazione destrorsa del suo omologo leghista, Matteo Salvini, negli ultimi tre mesi. Di qui la decisione di lanciare l’allarme contro i pericoli insiti in questa deriva estremista. Ma l’operazione sarebbe stata più credibile, forse, se non fosse avvenuta in coincidenza con la campagna per le Europee del 26 maggio; e con sondaggi che davano in calo il M5S, con un travaso di voti verso il Carroccio. Le premesse inducono a ritenere che l’offensiva sia nata non solo per registrare lo spostamento a destra di Salvini, ma per schiacciarlo su quelle posizioni; e per fare terra bruciata non tra alleati di governo, ma tra elettorati che si erano mostrati contigui. Adesso che Giancarlo Giorgetti evoca pubblicamente la crisi di governo e il voto anticipato a settembre, Luigi Di Maio deve fare i conti con la paura. Paura che «tutto salti», come minacciato dal sottosegretario che «fin dall’inizio lavora contro di noi». E terrore di non avere un piano B. Certo, ci sarebbe il Pd. Il doppio forno ideale. Per questo il vicepremier grillino ammicca ai dem. Peccato che Nicola Zingaretti ha fatto sapere anche nelle ultime ore che «dopo questo governo c’è il voto, oppure un altro esecutivo che noi comunque non sosterremo». E peccato che i renziani, ancora decisivi al Senato, mai appoggerebbero un esecutivo con l’odiato grillino. Tutto è come sospeso, a Palazzo Chigi come nel quartier generale della Casaleggio associati. La soluzione preferita dal Movimento, nonostante l’escalation tra alleati delle ultime ore, continua a tingersi di gialloverde. Picchiare sulla Lega per tenersi avvinghiati alla Lega, ecco la strategia che Di Maio consegnava allo staff della comunicazione ancora ieri. «L’unico modo per andare avanti con questo governo è ridimensionare Salvini. Colpirlo senza tregua, come ha fatto lui con noi per mesi».
Ponte Morandi: possibili infiltrazioni mafiose. La signora Consiglia Marigliano, amministratrice della società napoletana “Tecnodem”, nulla sa di bonifiche industriali. Non ha alcun titolo, né esperienze professionali nel settore. Però si era aggiudicata, lo scorso febbraio, un subappalto da 100 mila euro nei cantieri di Ponte Morandi, per demolire e bonificare gli impianti. La Tecnodem era stata scelta da una delle aziende impegnate nella demolizione del viadotto Polcevera, che l’aveva pescata dalla cosiddetta “White list” della Prefettura di Genova. Un elenco di aziende ritenute del tutto in regola. Errore. Perché, come scoperto dalla Direzione investigativa antimafia di Genova, la signora Marigliano è consuocera di Ferdinando Varlese, 65enne di Napoli residente a Rapallo, proprio nel levante ligure. Condannato più volte dalla giustizia. Nel 1986 per associazione a delinquere, nel 2006 per tentata estorsione “con modalità mafiose”. Varlese, secondo i giudici della Corte d’Appello di Napoli, è legato al clan camorristico D’Amico-Mazzarella. E l’azienda Tecnodem può essere il cavallo di Troia per mettere i piedi dentro uno dei cantieri più redditizi d’Italia. Nelle scorse ore la Dia (Direzione investigativa antimafia) di Genova ha notificato uri interdittiva muovendo dall’ipotesi che ci sarebbero infiltrazioni camorristiche in un’impresa incaricata di lavorare alla ricostruzione del ponte Morandi. Di conseguenza la struttura commissariale ha chiesto la risoluzione del contratto, così che probabilmente si allungheranno i tempi del rifacimento di un’infrastruttura tanto necessaria a Genova e a tutta la regione. Il ministro Danilo Toninelli ha espresso soddisfazione per il lavoro degli inquirenti, ma in questa situazione è difficile essere allegri. I genovesi non meritano questo sfacelo e se quel ponte sarà costruito con ritardo sappiamo di chi è la responsabilità. All’indomani del disastro, in effetti, proprio Toninelli escluse la possibilità che l’azienda concessionaria (Autostrade, controllata dalla famiglia Benetton) potesse avere un ruolo nei lavori. Usando toni del tutto inadeguati, almeno fino a quando la giustizia non avrà fatto il suo corso, il ministro ha fatto perdere a Genova un’occasione importante. Dopo il crollo e dopo le accuse di una gestione irresponsabile, nessuno più di Autostrade era motivata a rifare il ponte in tempi stretti e con la massima sicurezza.
Politica Estera
Corte di Giustizia Ue: stop ai rimpatri a rischio. Lo straniero extra Ue che commetta reati, anche gravi, nel Paese che lo accoglie non perde il suo status di rifugiato se l’eventuale rimpatrio che ne seguirebbe si traducesse per lui in un pericolo di vita o di persecuzione. Lo stabilisce la Corte di giustizia dell’Unione Europea con una sentenza che salva dall’espulsione, rispettivamente dal Belgio e dalla Repubblica Ceca, un ivoriano e un congolese, oltre che un ceceno. Secondo i giudici del tribunale con sede nel Lussemburgo, il diritto alla protezione non può mai decadere del tutto, essendo prevalenti, in base alla Carta dei diritti fondamentali della Ue, le ragioni di incolumità personale rispetto a quelle di sicurezza dello Stato ospitante dove viene commesso il reato. E la Convenzione di Ginevra, sebbene includa la commissione di reati tra i possibili motivi di espulsione o respingimento, non prevede in casi simili la perdita dello status né dei diritti di rifugiato. La Corte Ue stabilisce in sostanza che il diritto dell’Unione riconosce ai rifugiati una protezione internazionale più ampia di quella assicurata dalla Convenzione di Ginevra. Matteo Salvini ieri ha subito colto l’occasione scagliarsi contro l’Ue: «Ecco perché è importante cambiare questa Europa – ha scritto sui social network il ministro dell’Interno -. Comunque io non cambio idea e non cambio la legge: i richiedenti asilo che violentano, rubano, spacciano, tornano tutti a casa loro». In realtà la sentenza non dovrebbe avere un impatto sulla legislazione italiana. La possibilità di revocare lo status di rifugiato in caso di «pericolo per la sicurezza dello Stato» era già prevista da un decreto legislativo del 2007 ed è in linea con la direttiva Ue, i cui principi sono stati confermati dalla sentenza di ieri (che nasce da un ricorso di un ivoriano, di un congolese e di un ceceno che si erano visti revocare o negare il riconoscimento dello status di rifugiato da Belgio e Repubblica Ceca).
Scontro Stati Uniti-Iran. Tra Stati Uniti e Iran è esplosa un’escalation di minacce, gesti a effetto, qualche atto terroristico, “wargame” e simulazioni d’attacco. II Pentagono mette a disposizione di Donald Trump 120.000 soldati pronti a entrare in azione contro la teocrazia degli ayatollah già presa di mira dalle sanzioni. Una squadra di esperti militari americani attribuisce alla regla di Teheran le quattro esplosioni che hanno danneggiato altrettante petroliere al largo degli Emirati Arabi Uniti. Le navi colpite battono bandiera norvegese, saudita, e dell’emirato di Sharjah. Tutte hanno subito squarci nello scafo in seguito a esplosioni: le prime perizie americane riconducono gli attentati alla matrice iraniana. Nei giorni precedenti Washington aveva lanciato un allarme per possibili attacchi ai trasporti navali nell’area, di conseguenza è stato rafforzato il dispositivo militare Usa. La settimana scorsa il governo di Teheran ha minacciato di poter distruggere qualsiasi flotta americana. Trump ha reagito avvertendolo che «soffrirà fortemente», se scatena «qualsiasi cosa che assomigli a un attacco». A meno di quarantott’ore dal misterioso sabotaggio delle petroliere all’imbocco del Golfo Persico, droni aerei hanno colpito due stazioni di pompaggio della EastWest Pipeline, oleodotto che offre una preziosa via di trasporto alternativa per il greggio in caso di problemi nel Golfo Persico perché attraversa l’Arabia Saudita da Oriente a Occidente, fino al porto di Yanbu sul Mar Rosso. L’attentato non ha fatto vittime e i danni sono rimasti contenuti, assicura Riad, tanto che non ci sono state ripercussioni sulle esportazioni petrolifere, anche se «per precauzione» l’oleodotto è stato temporaneamente chiuso. Ma l’episodio è stato accolto con allarme dal mercato: le quotazioni del Brent sono salite di oltre l’1%, superando i 71 dollari al barile. Il ministro saudita dell’Energia, Khalid Al Falih, ha condannato l’epiPetrolio via mare La quota mondiale di greggio su petroliere che passa da Hormuz sodio sottolineando che per Riad «questi attacchi dimostrano ancora una volta che è importante fronteggiare i terroristi, comprese le milizie Houthi nello Yemen, che sono spalleggiate dall’Iran».