Economia e finanza
Il richiamo dell’Europa sui nostri conti. Il presidente portoghese dell’Eurogruppo Mario Centeno ha richiamato il governo M5S-Lega a rispettare «gli impegni presi l’anno scorso», sui conti pubblici, con «i risultati». Nella riunione a Bruxelles dei 19 ministri finanziari della zona euro si sono espressi sulla stessa linea istituzionale anche il tedesco Olaf Scholz e il francese Bruno Le Maire. Ma la campagna elettorale per il voto europeo della settimana prossima ha prodotto anche accuse di Paesi nordici in reazione al vicepremier leghista Matteo Salvini, che ha ipotizzato di alzare il debito al 140% del Pil e di cambiare le regole Ue. E Giovanni Tria, per un giorno, ha svestito i panni del mite professore di Economia, andando all’attacco dell’Eurogruppo. L’ultimo prima delle elezioni europee, il primo dopo che Salvini ha riacceso il fuoco sotto lo spread riproponendo l’intenzione di sforare il tetto del 3% del deficit. «C’è un Def approvato da governo e Parlamento», ammonisce Tria, «e anche Salvini lo ha votato». Il ministro prova a rassicurare i partner europei e, soprattutto i mercati che si tornano a interrogare se «l’Italexit» sia nuovamente un’opzione. A Bruxelles la tensione si taglia a fette. Al ministro delle finanze austriaco che gli ha rinfacciato di violare le regole e di aver ceduto a Salvini «non vedendo più la realtà», Tria ha risposto a muso duro: «Pensi prima di parlare». Da Israele il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco ha evidenziato la «correlazione» tra il raddoppio dello spread sui titoli di Stato italiani e il primo anno del governo M5S-Lega, pur anticipando «la speranza», per «dopo le elezioni europee», di un ritorno alla normalità.
Sforamento dello spread. Finora l’aumento dei tassi d’interesse sui nostri titoli pubblici ha avuto un impatto limitato sul costo del denaro per i prestiti a famiglie e imprese, «grazie all’ampia liquidità delle banche e al miglioramento dei loro bilanci», in futuro non sarà così. «Segnali di tensione stanno emergendo», avverte il Governatore Ignazio Visco. Secondo le indagini condotte da Bankitalia c’è stato infatti un irrigidimento delle «condizioni di credito», che ha penalizzato soprattutto le piccole imprese, sulle quali si scarica «l’aumento del costo della raccolta bancaria e del deterioramento delle prospettive economiche nel lungo periodo». C’è quindi la possibilità concreta che un alto premio di rischio sui titoli di Stato finirebbe inevitabilmente per «colpire» l’economia reale. Visco non si spinge oltre ma non è un mistero che sullo spread incida e molto anche la situazione politica. E la politica italiana ha risposto in diversi modi. Conte confida che con la fine della campagna elettorale si concluda anche il braccio di ferro tra i suoi due vice, Luigi Di Maio e Matteo Salvini. Un auspicio che è anche del presidente di Confindustria Vincenzo Boccia. Ma anche lo stesso Visco prima e Di Maio dopo, e lo stesso ministro Tria fino al ministro delle Finanze austriaco hanno richiamato Matteo Salvini a maggior cautela nella sua crociata contro l’Unione. Se l’obiettivo era coalizzare tutti contro la sua narrazione e polarizzare il dibattito, il leader del Carroccio ci è riuscito anche stavolta. La scadenza del 26 maggio è vicina, e Salvini sente l’urgenza di recuperare i consensi persi con il caso Siri. Ma in mezzo ci sono le sorti del terzo debito pubblico del mondo e il giudizio di chi in ogni angolo del pianeta ogni giorno compra e vende i titoli a garanzia di quel debito. Negli uffici delle grandi banche d’affari, le uscite del leader leghista sono sale per la speculazione: due giorni fa un singolo ordine partito da una sala operativa asiatica ha fatto schizzare il rendimento di cinque punti. Ieri con un certo imbarazzo il ministro del Tesoro ha varcato la soglia dell’Eurogruppo, la riunione periodica dei ministri della moneta unica. Quando può, Tria se ne guarda bene dal fare sgambetti ai due azionisti di maggioranza. In questo caso la situazione glielo impone.
Politica Interna
Inchieste sullla Lega. Per il vicepremier Matteo Salvini, impegnato nella sua personale e infinita campagna elettorale, ora irrompono gli arresti del sindaco leghista di Legnano, Gianbattista Fratus, e di due assessori di Forza Italia: tutti accusati di corruzione e di turbativa degli incanti. Così la Guardia di Finanza, in esecuzione delle richieste della procura di Busto Arsizio, fa «piazza pulita» (è questo, davvero, il nome dato all’operazione) in un comune simbolo del potere del Carroccio in Lombardia. Assediato dalle inchieste sulla Lega, Matteo Salvini sembra però pronto alla crisi. Vuole elezioni anticipate a settembre, per candidarsi premier del centrodestra. I «nemici potenti» di cui ieri il ministro dell’Interno ha parlato non sono i grillini, considerati niente più che «uno strumento», coinvolti in un disegno che mira a colpirlo, a logorarlo prima e isolarlo poi, e infine espellerlo dal gran ballo del potere. Per certi versi Salvini non considera dei «nemici» nemmeno i magistrati, nonostante siano le inchieste giudiziarie a scandire i giorni finali della sua campagna elettorale, costringendolo a cambiare il copione. No, secondo lo stato maggiore del Carroccio la centrale ostile sta da un’altra parte. In un partito che avverte l’accerchiamento, si è discusso di «un grande vecchio della sinistra» che «d’intesa con Berlino e Bruxelles» starebbe lavorando «a dividere Di Maio da Salvini»: un’azione progressiva che avrebbe cura di non provocare una immediata crisi di governo, così da consentire la costruzione graduale del nuovo quadro politico. Ed ora è però sembra pronto anche alla crisi. L’indizio più eloquente – notizia ancora riservata – è che ha appena fissato la sua prima visita a Washington. La data dell’8-9 giugno attende solo la conferma uflìciale, ma tutto è pronto per il faccia a faccia che lo vedrà di fronte al vicepresidente Usa Mike Pence. Alla missione, Giorgetti e Salvini lavorano da mesi. Il primo tessendo la tela diplomatica con esponenti dell’Amministrazione americana, il secondo con numerose visite all’ambasciatore americano a Roma. E così, dopo anni di filoputinismo e la svolta filoamericana e anticinese dei leghisti contro la Via della seta, i tempi sono maturi per ottenere la benedizione dalla presidenza più populista della storia degli Stati Uniti. L’ultimo passo obbligato, sperano a via Bellerio, per conquistare Palazzo Chigi senza i 5S. E per reagire allo scossone giudiziario che adesso fa paura, come dimostra l’ennesimo giorno sulle montagne russe.
Il ruolo di Mattarella. A preoccupare il Presidente della Repubblica sono soprattutto, secondo autorevoli fonti, gli atteggiamenti dei vari protagonisti della politica e del governo italiano, i quali delle due l’una: o ignorano la gravità della nostra condizione finanziaria e perciò non calcolano fino in fondo l’impatto delle loro esternazioni. Oppure lo calcolano, ma ne se ne infischiano del senso di responsabilità, il che sarebbe perfino peggio. Giusto che la dialettica elettorale si esprima liberamente, però in qualche caso vengono varcati i confini dell’autolesionismo. Naturalmente dal Colle smentiscono suggerimenti o inviti, ma non la piena e assoluta coincidenza di idee tra Sergio Mattarella e il governatore di Bankitalia sull’esigenza di tenere in ordine i conti pubblici e di misurare le parole. Altrimenti, sono guai. Solo mercoledì il Capo dello Stato era tornato a battere sul punto dolente. «In una fase di congiuntura economica debole anche sul fronte della domanda interna, è necessario uno sforzo collettivo con misure appropriate per rilanciare la fiducia di famiglie e imprese». Dunque, per Mattarella come per Visco, famiglie e imprese vanno tutelate. E, secondo il Presidente, servono azioni per ridare fiducia ai cittadini e ai mercati, in balia di «tensioni, rischi e incertezze». In questo quadro, ha spiegato in un messaggio a Rete Imprese, è assurdo bombardare la Ue, come fa il leader della Lega, quando poi saremo costretti a trattare. È possibile che all’indomani del voto tutto torni alla normalità – questo è l’auspicio del Colle – ma intanto torna il timore che dopo il 26 maggio si apra un “caso Roma” in Europa.
Politica estera
La politica italiana in Libia. L’opzione militare è un grande rischio soprattutto per le forze della Cirenaica guidate da Khalifa Haftar. Un fallimento dell’assedio di Tripoli potrebbe segnare, per il generale di Bengasi, la replica della bruciante sconfitta in Ciad dell’87 e segnare anche la sua fine come leader politico. Conte chiede quindi diplomazia, un dialogo per ricostruire un Paese sfasciato che ormai spaventa i militari che combattono e i registi internazionali – emiratini, egiziani, sauditi, qatarini – che finanziano e sostengono le due fazioni in guerra; Haftar risponde che l’operazione lanciata da Bengasi, la Capitale dell’altra Libia, la Cirenaica, non s’arresta con le parole, le buone intenzioni, i cortesi bilaterali, ma con una spartizione equilibrata del potere, del denaro, del petrolio. In sintesi è proprio questo richiamo alla diplomazia che il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte si è sentito di lanciare all’uomo forte della Cirenaica in un incontro durato due ore ieri a Palazzo Chigi. In una guerra di posizione come quella che si sta consumando da settimane alle porte di Tripoli con forze che sostanzialmente si equivalgono c’è infatti il rischio, avrebbe detto Conte in un colloquio a quattr’occhi con Haftar, che chi ha sostenuto finora le forze di Bengasi per ripulire Tripoli da terroristi e milizie filoislamiste (Stati Uniti, Arabia saudita, Emirati) possa ora ritirare il suo sostegno visti i limitati risultati sul terreno dell’esercito Lna. Ecco perché, secondo Conte, «è necessario addivenire quanto prima a un cessate il fuoco per evitare l’insorgere di una crisi umanitaria nel Paese a tutela delle difficili condizioni del popolo libico». A un Haftar ostinato nelle sue ambizioni Conte ha spiegato che l’Italia conosce bene la complessità di quel Paese e resta coerente nel suo messaggio che lunedì scorso è diventato anche il messaggio di tutta l’Unione europea che per la prima volta, a livello di ministri degli Esteri, ha condannato l’aggressione di Haftar ed esortato a un cessate il fuoco.
Scontro Usa-Cina. Dall’inizio della sua Amministrazione, il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha preso misure straordinarie per contenere la potenza della Cina. La guerra commerciale è cominciata più di un anno fa, e gli esperti danno ormai come un fatto inarrestabile la fine della forte interdipendenza tra le prime due economie del mondo. Molti riconoscono in queste politiche il tentativo malevolo della potenza egemone di schiacciare la potenza emergente, portato avanti da un’Amministrazione che si è già mostrata nemica del libero commercio e del multilateralismo. Oggi a parole tenta di abbassare i toni dello scontro, eppure la Casa Bianca lancia un nuovo, doppio attacco verso Huawei, il colosso delle telecomunicazioni simbolo dell’ascesa tecnologica della Cina. Mercoledì sera Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo che giaceva sulla scrivania da tempo: vieta alle aziende americane della telefonia di usare nelle loro reti i prodotti di società che minacciano la sicurezza nazionale. Nessun nome, ma è noto che gli Stati Uniti considerino Huawei, leader mondiale delle reti 5G, un potenziale cavallo di Troia delle spie comuniste. All’azienda di Shenzhen però fa ancora più male il secondo affondo, firmato dipartimento del Commercio. Il suo nome è stato inserito infatti nella famigerata “entity list”, una lista nera di aziende che per rifornirsi negli Stati Uniti devono prima ottenere l’autorizzazione del governo. Rischia un boicottaggio, che potrebbe privarla di componenti chiave made in Usa per i suoi dispositivi. Torna così in primo piano la vera posta in palio nella sfida tra Washington e Pechino: il primato nelle tecnologie che verranno. E ci sono riflessi anche in Italia. Infatti, le incognite della geopolitica sono ora il vero tema che agita gli operatori tic italiani. I quali da tempo hanno fatto capire che ormai di Huawei (soprattutto) è difficile fare a meno.