Economia e finanza
Il monito di Bankitalia. Uno schiaffo al governo. Un richiamo al senso di responsabilità, un atto di accusa contro i molteplici «ritardi» del nostro Paese ai quali non si è posto rimedio, ma anche un richiamo al contegno nel linguaggio della politica. Nel contesto di una descrizione drammatica, ma fattuale, dei mali del Paese, il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco chiude le sue Considerazioni finali con una fulminante citazione del filosofo Ludwig Wittgenstein: «Le parole sono azioni», annota. Lo spread intanto pesa sulla crescita: 100 punti costano lo 0,7% del Pil in tre anni. Anche questo è al centro delle parole di Visco. Per la crescita serve uno sforzo corale, la politica dia chiarezza, ha detto il governatore di Bankitalia: aumenti di spesa e tagli alle entrate siano sostenibili. Tra i nodi denunciati il ritardo sul digitale e l’invecchiamento della popolazione. Le banche sono ancora vulnerabili senza crescita e con spread alto. L’Istat intanto rivede al ribasso il Pil: nel 1° trimestre +0,1%, la crescita acquisita è pari a zero. Nelle accorate parole del governatore trovano spazio alcune pfressanti raccomandazioni. «Saremmo più poveri se facessimo della Ue un avversario. Spesa e tagli alle entrate siano sostenibili». L’Europa è fondamentale per la crescita economica dell’Italia. Se diventasse un avversario la prospettiva sarebbe di impoverimento, ed è un errore addossare all’Europa le colpe dei problemi nazionali.» I destini dell’Unione e il ruolo che deve giocare il nostro Paese sono i temi forti che il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha voluto scegliere per chiudere le sue Considerazioni finali, lette ieri in occasione della presentazione della 125esima Relazione annuale. Visco ha parlato in un contesto per molti versi simile a quello di un anno fa, con uno spread Btp-Bund che viaggia attorno a quota 290 punti base e un’economia in piena stagnazione.
Lo spread a quota 290. Atene si avvicina. Il brusco risveglio dopo gli annunci di nuove manovre in deficit e la lettera di censura di Bruxelles, si chiama “sindrome greca”. Per la prima volta da una quindicina di anni, i Btp quinquennali si trovano a dover offrire un rendimento superiore a quello dei corrispondenti titoli greci. In altre parole, gli investitori li considerano più rischiosi, e per acquistarli pretendono di conseguenza un tasso maggiore. Sui Buoni decennali, i tassi greci continuano ad essere superiori ai nostri, ma la differenza (ossia lo spread) si è ridotta a una manciata di punti: meno di venti. Con il risultato che adesso, con uno spread tra Btp e Bund tedeschi a che ieri ha sfondato i 290 punti siamo molto più vicini ad Atene che a Madrid o a Lisbona. Una vicinanza che trasforma di nuovo il nostro Paese in un “sorvegliato speciale”. E che evoca fasi della nostra storia recente in cui piazzare titoli pubblici. Il punto è che i titoli di Stato italiani sono considerati rischiosi. Dunque in una fase di «flight to quality» vengono venduti. Ieri poi ci si è messo il dibattito sui mini-BoT a creare ulteriore incertezza,. Così un tuono in Messico è diventato pioggia in Italia: unico Paese in Europa che ieri ha visto salire i rendimenti dei titoli di Stato decennali. Sono scesi quelli tedeschi, francesi, spagnoli, portoghesi, irlandesi e greti. I nostri si sono mossi in controtendenza Uniti venduti. Non senza conseguenze: le tensioni sullo spread e le incertezze sulla domandahanno indotto il Mef a rinviare all’autunno l’asta del BTp Italia II sorpasso greco Eppure il fatto che i rendimenti dei titoli greci quinquennali siano per la prima volta da oltre 11 anni più bassi di quelli italiani suona davvero come una nota stonata.
Politica Interna
La lettera all’Ue. La “lettera della discordia” doveva rassicurare la commissione europea e i mercati sulla possibilità dell’Italia di non far crescere ulteriormente il debito e di rimettere in riga i conti. Ma lo psicodramma di ieri sulla missiva preparata dal ministro dell’Economia per rispondere ai richiami di Bruxelles, sconfessata dai 5 stelle e cambiata dal premier Giuseppe Conte, è destinato a sortire l’effetto contrario. Tanto che lo spread ha già sfiorato la soglia psicologica dei 300 punti, chiudendo a 287. Nel primo pomeriggio le agenzie di stampa diffondono un testo rivolto ai commissari che, insieme alle rassicurazioni su un «disavanzo per l’anno in corso che potrebbe essere minore di quanto prospettato», contiene una bomba finale: c’è la flat tax chiesta dalla Lega, ma non in deficit. Bensì finanziata da «tagli alle nuove politiche in materia di welfare», che qualche riga prima sono identificate come «reddito di cittadinanza e quota 100». Sembra la risposta di Giovanni Tria alle dichiarazioni fatte filtrare poco prima dal Movimento: «La proposta della Lega di finanziare in deficit la flat tax ci trova favorevoli — avevano fatto sapere Di Maio e compagni, con quella che sembrava una provocazione — a maggior ragione se, come apprendiamo, Tria già condivide questa idea: ben venga il regime fiscale al 15% per i redditi fino ai 65.000 euro». Interpretando i possibili risparmi come l’annuncio di tagli in arrivo, il leader del M5S ha accusato Tria di aver condiviso la risposta solo con la Lega e ha sollecitato un vertice di maggioranza immediato. Con qualche ritardo è arrivata la smentita di Tria, e poco dopo quella di Palazzo Chigi, durissima, con la minaccia di azioni giudiziarie per la diffusione di «notizie false». Anche se la lettera inviata alla Ue, alla fine, non differisce molto dalla bozza. Cambia il passaggio sulla spesa per il Reddito e Quota 100, che non vengono menzionati. Nella lettera per l’Ue, però, il ministro dell’Economia scrive tutt’altro. Il passaggio incriminato è questo: «Il Parlamento ha invitato il governo a riformare l’imposta sul reddito delle persone fisiche, riducendo il numero degli scaglioni e la pressione fiscale gravante sulla classe media. Si effettuerà anche una revisione di detrazioni ed esenzioni fiscali». Ma soprattutto: «Riteniamo che sarà possibile ridurre le proiezioni di spesa per le nuove politiche in materia di welfare nel periodo 2020-2022». I 5 stelle dicono di essere stati tenuti all’oscuro.
Il caso Palamara. Nelle carte dell’inchiesta della Procura di Perugia sul mercato delle nomine al Csm ballano due nuovi nomi. Due consiglieri togati, entrambi della corrente Magistratura indipendente. Sono Corrado Cartoni, giudice del tribunale di Roma, e Antonio Lepre, pubblico ministero della Procura di Paola. Il primo, componente della terza commissione del Consiglio (competente per l’accesso e la mobilità). Il secondo, appartenente alla quinta, quella che conferisce gli incarichi direttivi e semidirettivi. Entrambi — come documenta l’informativa con i pedinamenti e le intercettazioni telefoniche condotte dal Gico della Guardia di Finanza — in almeno tre occasioni, in questo mese di maggio appena trascorso, hanno partecipato alle riunioni “carbonare” tra Luca Palamara, ex presidente della Anm indagato per corruzione e kingmaker del Grande Gioco che doveva riscrivere la geografia degli uffici giudiziari chiave del Paese, e i suoi interlocutori nel palazzo della politica: il magistrato ex sottosegretario alla giustizia e oggi parlamentare del Pd, Cosimo Ferri, gran Visir della corrente Magistratura Indipendente (di cui è stato segretario), e l’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio con Matteo Renzi e già ministro Luca Lotti. Di fronte all’ampliarsi dell’inchiesta si muovono anche le istituzioni, per i primi passi dopo lo scandalo sulle nomine del Consiglio superiore della magistratura. Si muove il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, che ha attivato gli ispettori, il cui compito è di svolgere «accertamenti, valutazioni e proposte». La questione viene considerata delicatissima perché coinvolge le nomine del Consiglio superiore della magistratura e c’è il rischio di sovrapposizione tra istituzioni e di collidere con l’indipendenza dell’autogoverno della magistratura. Per questo motivo il ministro della Giustizia ha tenuto a far sapere che «si riserva di assumere ogni opportuna iniziativa quando il quadro sarà più chiaro, nel pieno rispetto dell’autonomia della magistratura che ha aperto un’inchiesta». Il Csm stesso si è mosso. Essendo indagato uno dei suoi eletti, il consigliere Luigi Spina, capogruppo della corrente di maggioranza Unicost, si è riunito l’ufficio di presidenza, il suo vertice collegiale. Prima che potesse succedere alcunché, il consigliere Spina, «in considerazione degli eventi che recentemente lo hanno coinvolto», ha annunciato una autosospensione dai lavori.
Politica Estera
Minacce Usa al Messico. È una mossa estrema, senza precedenti nella storia recente. Donald Trump annuncia che a partire dal 10 giugno verrà imposto un dazio pari al 5% su tutte le merci importate dal Messico «fino a quando i messicani non fermeranno i migranti illegali che entrano nel nostro Paese». La misura punitiva salirà del 5% il 10 luglio, poi di un altro 5% ogni mese fino al tetto del 25% raggiungibile il 10 ottobre se alla frontiera non sarà cambiato nulla. Una mossa che potrebbe essere un suicidio economico. Infatti, l’anno scorso gli Stati Uniti hanno importato dal Messico beni per 346,5 miliardi di dollari. Prendiamo questo numero come riferimento: vuol dire che se il governo messicano non fermasse l’afflusso di migranti – ma cosa vuol dire “fermare i migranti”? Come si misura in pratica? – allora gli americani dovrebbero prepararsi a pagare tra ottobre 2019 e ottobre 2020 una maggiorazione di prezzo di 86 miliardi di dollari per comprare gli stessi beni. Oppure dovranno trovare altri fornitori, ma in alcuni casi non è così facile.La decisione di Trump ha colto di sorpresa il governo messicano. Le prime reazioni sono state molto dure, del tipo: non accettiamo provocazioni. Poi però il presidente Andrés Manuel López Obrador ha scritto una lettera che comincia in modo polemico e termina con l’invito al dialogo: «Non credo nella legge del taglione, nell’occhio per occhio, dente per dente, perché alla fine saremmo tutti sdentati e guerci… gli esseri umani non lasciano le loro case per piacere, ma per necessità… le propongo di ricevere il ministro degli Esteri Marcelo Ebrard per trovare un accordo a beneficio delle nostre due nazioni». II ministro Ebrard è subito partito per la capitale americana: comincia un’altra complicata trattativa. La crisi è gestita dal ministro a interim della Sicurezza, Kevin McAleenan e dal capo dello staff della Casa Bianca, Mick Mulvaney.
Kim giustizia i suoi collaboratori. Kim Jong-un ha ripreso a far lanciare missili (tre a inizio maggio) e forse anche a dare lavoro ai plotoni d’esecuzione per punire cinque alti funzionari sleali o inefficienti nella trattativa con gli Stati Uniti. Dopo il nulla di fatto dell’ultimo vertice con Donald Trump, Kim Jong-un avrebbe ordinato l’esecuzione dell’inviato speciale di Pyongyang per i rapporti con gli Stati Uniti. Per il momento né il governo coreano né quello americano confermano la versione. Resta comunque una notizia verosimile: in passato Kim non ha esitato a uccidere lo zio e il nulla di fatto del secondo summit con Trump è stato un duro colpo per la sua politica del dialogo. Stando a quel che scrive il più diffuso giornale della Corea del Sud, lo scorso marzo Kim Hyok-chol – già ambasciatore in Spagna e incaricato di guidare i negoziati sul nucleare in vista dell’ultimo vertice con gli Usa – sarebbe finito davanti a un plotone di esecuzione insieme ad altri quattro funzionari del ministero degli Esteri. Secondo la fonte anonima del giornale di Seul, Kim Hyok-chol è stato accusato di spionaggio «per aver riferito male sullo stato dei negoziati, senza cogliere le intenzioni degli Stati Uniti». In questa purga al vertice del potere di Pyongyang sarebbe finito anche KimYong-chol: già braccio destro del leader nord-coreano e durante i colloqui interlocutore del segretario di Stato Mike Pompeo. Secondo il Chosun Ilbo, Kim Hyokchol sarebbe stato mandato a «rieducarsi» in un campo di lavoro nella remota provincia di Jagang, non lontano dal confine con la Cina. Già nelle scorse settimane erano iniziate a circolare speculazioni su una possibile purga al vertice del potere di Pyongyang, dopo che i due alti papaveri non hanno seguito Kim a Vladivostok per l’incontro con Vladimir Putin.