Economia e Finanza
Salvini: flat tax da 30 miliardi – La Ue è pronta ad aprire una procedura sul debito italiano. Matteo Salvini detta l’agenda di Goveemo. Dalla flat tax da 30 miliardi, al decreto sicurezza bis, alla Tav. Lo fa dal Viminale, la sede del ministero dell’Interno, nelle stesse ore in cui il premier Giuseppe Conte è impegnato a Bruxelles per il vertice dei capi di Stato e di Governo. Un messaggio subliminale, che sottolinea il nuovo ruolo del leader della Lega dopo il 34% conquistato domenica scorsa, di cui i destinatari sono sì Conte e l’alleato M5s ma anche (se non soprattutto) gli osservatori internazionali. «Spero che non ci sia nessuno in Europa che mandi “letterine”», ha avvertito Salvini con riferimento alla missiva in arrivo da Bruxelles (probabilmente oggi), in cui la Commissione chiede al Governo spiegazioni sul mancato rispetto degli impegni, a partire dall’aumento del debito. Anzi, il leader della Lega rilancia la flat tax quale perno della prossima legge di Bilancio:«30 miliardi di euro per ridurre le tasse», anticipa, confermando poi di non voler sentir parlare di aumento dell’Iva. Su come e dove reperire le risorse, il vicepremier si tiene sul vago. «I tecnici sono al lavoro, documenteremo tutto cenetesimo per centesimo», dice affatto preoccupato per uno sforamento del deficit e neppure per lo spread, tornato ieri a sfiorare i 290 punti base rispetto al Bund (a raffreddare durante la giornata l’andamento dello spread, che ha chiuso a quota 284,3, ha concorso l’intervento del commissario Ue agli Affari economici e monetari, Pierre Moscovici, che ha spiegato di «non prediligere» come soluzione le sanzioni). Intanto però la Commissione europea è pronta ad aprire una procedura sul debito italiano che toglierà sovranità in politica economica al Paese nei prossimi anni. In sostanza è questo che il capo dell’esecutivo comunitario, Jean-Claude Juncker, ha comunicato ieri al premier Giuseppe Conte a margine del vertice Ue di Bruxelles dedicato alle nomine. Oggi i commissari europei nella loro consueta riunione settimanale parleranno del caso Italia, ma secondo le aspettative della vigilia nessuno di loro prenderà le parti di Roma. Così al termine della seduta da Bruxelles partirà la lettera Ue che darà al governo appena 48 ore per giustificare il mancato rispetto delle regole europee, l’aumento costante di deficit e debito con un buco di 11 miliardi tra il 2018 e il 2019. Un rischio per la tenuta dell’intera eurozona. Sembra di rivivere lo stesso film dello scorso autunno, quando l’Italia attaccava l’Europa, lo spread saliva sui mercati e la tenuta del debito vacillava.
Fusione Fca-Renault, Elkann prova a rassicurare Nissan. Il piano per la fusione tra Fiat Chrysler Automobiles e Renault, che potrebbe cambiare il panorama mondiale dell’industria dell’auto, è stato messo a punto in una serie di incontri segreti nelle residenze private del presidente di Fca, John Elkann, e del presidente della casa del Diamante, Jean-Dominique Senard, rispettivamente a Torino e Parigi. Lo rivela il Financial Times, spiegando che gli incontri sono diventati più frequenti e urgenti nelle ultime due settimane quando ci sarebbe stata l’accelerazione per un passaggio dall’ipotesi di alleanza a quella di una vera e propria fusione. Poco prima i giapponesi di Nissan avevano respinto la proposta di fondersi proprio con Renault. Così Elkann ha messo in piedi una squadra che lavorava sotto il nome in codice “Fermi” al progetto “Newton” per mettere insieme un accordo con “Rutherford”. Tùtti riferimenti a fisici famosi, in onore del compianto Sergio Marchionne, grande appassionato di fisica, oltre che di filosofia. Il fattore Nissan Mitsubishi complica, ma forse al tempo stesso può spingere verso il «matrimonio tra uguali» che stanno cercando di celebrare Fiat Chrysler e Renault. Elkann ha mandato una dichiarazione scritta a Nikkei (il quotidiano finanziario di Tokyo) in cui propone di allargare l’intesa alle due case giapponesi partner di Renault. «Ho un grande rispetto per Nissan e Mitsubishi, i loro prodotti e il loro business», spiega il presidente di Fca ai giapponesi. «La fusione che abbiamo proposto a Renault apre la possibilità di costruire un’alleanza globale. Lo scopo è di creare benefici comuni, abbracciando Nissan e Mitsubishi come partner rispettati e di valore in questo periodo di trasformazione senza precedenti dell’industria automobilistica». Così l’italiano cerca di parlare al cuore dei giapponesi, che si sono sentiti i soci di minoranza nel patto con i francesi. I vertici di Renault, Nissan e Mitsubishi si riuniscono oggi a Yokohama e discuteranno della nuova situazione. I giapponesi potrebbero sfilarsi, riprendendo la loro autonomia, ma sono anche tentati a scommettere nella nascita del colosso mondiale da 15 milioni di vetture all’anno.
Politica interna
M5S, la leadership di Di Maio è nel mirino. II Movimento 5 Stelle rischia di scoppiare, con l’improvvisa ricostituzione di una fitta trama di gruppuscoli interni, un intreccio incandescente di recriminazioni di corrente, divergenze politiche e asti personali. Obiettivo, la leadership di Luigi Di Maio. Che all’assemblea di stasera rischia il processo assieme ai suoi «pretoriani». L’offensiva è particolarmente virulenta al Senato, dove due dei senatori più ascoltati da Di Maio danno ampi segnali di disagio. Primo Di Nicola si dimette da vicecapogruppo con questa motivazione: «Mettere a disposizione gli incarichi è l’unico modo per favorire una discussione democratica». II tutto al plurale: il riferimento a Di Maio pare plastico. A seguire ecco Paragone, molto vicino a Di Battista: «Quattro incarichi sono troppi, serve un leader h24». Segnale che il Senato è pronto a chiedere il conto. Una reazione così violenta sorprende lo stato maggiore. La riunione al Mise di lunedì ha fatto infuriare tutti: «Ma come, noi chiediamo condivisione e lui riunisce i suoi fedelissimi di sempre?». In un’adunata (quasi sediziosa) alla Camera, sono in molti a ribellarsi. Chiuso al ministero dello Sviluppo economico come fosse un fortino assediato, Luigi Di Maio ha un unico terrore: che questa volta gli attacchi contro di lui non siano isolati, com’è stato finora. Che ci sia una regia e che il primo dei congiurati sia colui che un tempo chiamava fratello: Alessandro Di Battista. Per questo sta pensando di anticipare le mosse di chi vuole logorarlo. All’assemblea congiunta di stasera, il leader M5S potrebbe presentarsi dimissionario: «Chiederò il voto sulla piattaforma Rousseau. Io non mi faccio processare. Devono essere gli iscritti a dirmi se restare o no alla guida del Movimento». A mandare la situazione fuori controllo, ieri pomeriggio, è stata la dichiarazione di Gianluigi Paragone sulla necessità di un leader a tempo pieno. L’ex conduttore della Gabbia parla della necessità di una «sala macchine M5S operativa h24». Si chiama fuori da quella che sarà di fatto una segreteria politica, ma le sue parole sono considerate un messaggio che arriva direttamente da Di Battista. Secondo Marcello Sorgi, sulla Stampa, la levata di scudi del fronte movimentista grillino che chiede le dimissioni di Di Maio, a nome di Ruocco, Fattori, Lombardi, Taverna e Paragone, per citare chi si è esposto di più, non deve trarre in inganno. Ai vertici dei 5 stelle la decisione di andare avanti con il governo giallo-verde è presa, così come quella di lasciare che lo sfogatoio per la sconfitta del 26 maggio si esaurisca nell’assembkea convocata per oggi, e poi archiviare in tutta fretta la pratica delle elezioni europee. Al momento non c’è altra strada che restare al governo. Aprire una crisi significherebbe accollarsi la responsabilità di nuove elezioni anticipate, che Salvini rivincerebbe, mentre il Movimento prenderebbe un’altra batosta. Non rimane che prendere tempo, rintuzzando le punture di spillo di Salvini e le richieste più inaccettabili per i 5 stelle, come quella di perdonare in caso di condanna il sottosegretario Rixi.
Pd, Zingaretti punta sulla carta Sala. Il Pd cerca di riorganizzarsi. Ma sul come ci sono diverse scuole di pensiero. Zingaretti ritiene di poterlo fare continuando sulla strada già intrapresa e giocando la carta di Beppe Sala candidato premier. Carlo Calenda si muove in un’altra direzione per cercare di coinvolgere moderati. I due finora non sono entrati in rotta di collisione, ma non si sa che cosa riserverà il futuro. E poi c’è Renzi. Che cosa farà? Asseconderà il progetto di un partito libdem di Calenda? Finora non si è sbilanciato. A qualche fedelissimo che, a disagio con il nuovo corso zingarettiano, lo invitava a rompere gli indugi e a muoversi, ha risposto così: «Calma, ora dobbiamo stare fermi, ma è chiaro che nel futuro sarà necessario costruire un nuovo progetto». Dunque, nessuno strappo adesso. E ieri, nella sua diretta Facebook, l’ex premier ha invitato pure i suoi a non fare polemiche e a evitare le divisioni, anche se ha aggiunto una frase che ha instillato dubbi e sospetti a più di un pd di rito zingarettiano. «Dobbiamo lealtà non alla Ditta ma al Paese». Quindi ha commentato, cosa che aveva evitato di fare il giorno prima, il risultato elettorale del Pd: «È stato un buon pareggio. Eravamo secondi nel 2018, siamo secondi adesso. Esagerava chi dava il Pd per morto l’anno scorso, esagera chi usa toni trionfalistici oggi». Renzi come tutti è appeso all’evoluzione del quadro politico, ma tanto per dare una dimostrazione di forza chiama a raccolta il 12 luglio a Milano i suoi Comitati civici, in una giornata contro «questo governo e le fake news». Perché «in questa vittoria di Salvini c’è una cosa positiva, cresce la voglia di lottare e di battersi. E noi siamo pronti a lottare con i Comitati civici e con i nostri amministratori e con chi è impegnato nel Pd per restituire all’Italia il gusto di sorridere». A questo primo appuntamento dei Comitati «ne vedremo delle belle», promette Renzi lanciando anche la decima edizione della Leopolda dal 18 al 20 ottobre come «un’edizione speciale per tantissimi motivi». Insomma, una chiamata alle armi, che in qualche modo lancia la suggestione di una sua forza politica autonoma (lui non ne fa cenno ma tant’è), che potrebbe essere creata in tandem o in concorrenza con quella che ha in animo di costruire Carlo Calenda come costola dei Dem. Entrambi concorrono sulla stessa platea potenziale e quindi vincerà chi si muoverà per primo. Ed entrambi hanno il problema di non poter mollare a cuor leggero il Pd: il primo perché ne è stato segretario e il secondo perché appena eletto come europarlamentare. Ma tutto dipenderà da cosa succederà nel governo.
Politica estera
Nomine Ue: duello tra Francia e Germania sul presidente della Commissione. II Grande Gioco è iniziato con un duello Macron contro Merkel, lei insiste sul candidato del Ppe Manfred Weber, lui vuole far contare i suoi voti, ora necessari per una nuova maggioranza, quindi sarebbe meglio Margrethe Vestager o un terzo nome. E iniziato con uno scontro fra Parigi e Berlino iI primo appuntamento per decidere il futuro governo della Ue. Per la prima volta in oltre venti anni le elezioni di domenica hanno infranto il duopolio dei popolari e dei socialisti, che insieme non hanno più la maggioranza: Macron si è inserito nel vuoto, è divenuto necessario con i suoi liberali, vuole trattare da un rapporto di forza. Secondo esponenti diplomatici, la discussione di ieri sera si è concentrata soprattutto sul metodo e in parte anche sulla necessità di preparare il terreno a una probabile uscita di scena onorevole della candidatura Weber, che ancora ieri la canceiliera ha dovuto appoggiare soprattutto per difendere la sua posizione negoziale. Ma questo è solo l’antipasto e riguarda la figura apicale della futura Commissione: ieri sera alla cena informale dei capi di Stato e di governo si è iniziato a discutere anche delle altre cariche, compreso il rinnovo del Parlamento e della Bce, oltre che della guida del Consiglio europeo. È apparso defilato, fuori dalla girandola di incontri e bilaterali che si sono susseguiti prima della cena, iI nostro premier Giuseppe Conte, che ha comunque ribadito che «l’Italia è un grande Paese ed ha le chance ed è determinata ad avere il ruolo che merita». Conte entra indebolito in questa fase della ripartizione di onori e oneri europei. Certo, non è il solo, tra i dirigenti europei, a riflettere incertezze e interrogativi emersi per più di un Paese membro con l’esito del voto per l’assemblea di Strasburgo. Tuttavia il presidente del Consiglio rischia di trovarsi stretto in un angolo particolarmente scomodo: oltre che dell’ipoteca posta sul suo governo dalla brutale redistribuzione di azioni da un socio all’altro, Conte si deve far carico degli effetti collaterali del braccio di ferro di Salvini con l’Ue. Quella prova di forza ha un prezzo evidente in Italia, come dimostrato dalla seria impennata dello spread, ma ha un prezzo alto anche in Europa perché, almeno in questa forma, alimenta diffidenza e riserve generalizzate verso di noi, da Est a Ovest. È un fatto che il Governo giallo- verde a trazione sovranista è rimasto fuori dalle trattative tra Ppe, SeD e Alde per l’individuazione del candidato alla presidenza della Commissione che dovrà essere designato dal Consiglio del 20 giugno per presentare il suo programma al nuovo Parlamento europeo che si insedierà il 2 luglio.
Israele verso le elezioni anticipate Bibi ed Evet — i soprannomi che tra loro non usano più — si conoscono da 31 anni, da quando Avigdor Liberman ha chiesto di diventare assistente volontario per quel giovane viceministro degli Esteri. Il buttafuori immigrato dall’ex Unione Sovietica e diventato leader di partito già dimostrava l’intuito politico: allora aveva scommesso su Benjamin Netanyahu, ancora in corsa per conquistare il titolo di primo ministro più longevo di Israele, adesso scommette di poterlo mandare a casa. O almeno di costringerlo a sudare fino all’ultima goccia e all’ultimo minuto possibile per riuscire a formare la coalizione, dopo la vittoria del 9 aprile. Netanyahu esaurisce stasera a mezzanotte i 28 giorni (più l’estensione di 14) concessi per riuscire a chiudere le trattative. Liberman ha ormai proclamato di non voler tornare sulla poltrona di ministro della Difesa e ha accusato l’ex alleato di voler creare un governo «sottoposto alla legge ebraica», perché il dissidio nascerebbe dalle norme per costringere gli ultraortodossi a prestare il servizio militare, i partiti religiosi si oppongono. Senza Liberman e senza maggioranza, il premier ha dato ordine ai deputati del suo Likud di mettere sul tavolo la dissoluzione del Parlamento, in prima votazione è già stata approvata, le altre due sono attese per oggi. Israele tornerebbe alle elezioni nel giro di pochi mesi, la data prevista è tra la fine di agosto e la prima metà di settembre. Per dimostrare di essere pronto a riaprire la campagna Netanyahu ha ieri stretto un patto con Moshe Kahlon e la sua formazione, correranno insieme. Le ragioni per cui Lieberman ha deciso di far fuori il suo vecchio capo – iniziò la sua carriera come assistente volontario di Netanyahu 30 anni fa – sono complesse. Lieberman, – in passato sfuggito ad accuse di riciclaggio e frode – non è un difensore dello stato di diritto o dei valori democratici liberali. Ma secondo i suoi calcoli il tempo per Netanyahu sta per scadere e se vuole salvarsi questo è il momento di saltare dalla nave. Lieberman ha il più acuto istinto politico nella Knesset. E ha concluso che anche se Netanyahu riuscisse a formare una coalizione di governo, e forse persino a far approvare una qualche forma di legge sull’immunità, alla fine cadrà.