Economia e Finanza
Inps. Da giugno pensioni ridotte. L’Inps sta cambiando pelle. In tre mesi, l’Istituto che gestisce pensioni e assistenza per 40 milioni di italiani – un gigante da 800 miliardi, oltre un terzo del Pil – si è trasformato in agenzia del governo. Fin quasi ad assomigliare a un comitato elettorale. Incaricato non solo di spingere le misure bandiera di Lega e M5S – quota 100 e reddito di cittadinanza – anche a scapito di tutte le altre prestazioni e a colpi di deroghe mai viste, incentivi monetari ai dipendenti a fare presto, sconti sui documenti da presentare. Ma pure di trascinare i provvedimenti più scomodi, come il taglio delle pensioni alte e il conguaglio su quelle da 1.500 euro lorde, ai primi di giugno, scavallate le elezioni europee. Le pensioni non sono a rischio. Ma agli sportelli Inps è un caos continuo. Gli stessi dipendenti si sentono smarriti, non in grado di rispondere a utenti spazientiti. Le pensioni in pagamento a giugno saranno più leggere. Le ragioni sono due: 1) scatta il recupero per i mesi di gennaio, febbraio e marzo delle minori rivalutazioni all’inflazione per gli assegni superiori a tre volte il minimo (1.522 euro lordi al mese) applicate a partire da aprile; 2) parte il taglio «di solidarietà» sulle pensioni superiori ai 100mila euro lordi a calcolo retributivo o misto. Secondo le previsioni governative i risparmi previsti dal governo, al netto delle fiscalità, grazie al taglio sulle pensioni più elevate saranno appena superiori ai 415 milioni di euro in termini cumulati, mentre le nuove rivalutazioni all’inflazione su sei scaglioni diversi per il triennio 2019-2021 garantirebbero risparmi per 2,2 miliardi. Critico il sindacato dei pensionati della Cgil: «Il governo ci beffa e si riprende 100 milioni di euro dopo le europee» attacca il segretario generale Ivan Pedretti. Che ieri ha rilanciato la manifestazione unitaria dei pensionati indetta da Spi-Cgil, FnpCisl e Uilp-Uil, per sabato primo giugno a Roma in piazza San Giovanni, «anche per denunciare questo ennesimo danno nei loro confronti».
Crescita zero. La crescita italiana nel 2019 sarà pari a zero. Preoccupa inoltre il rapporto tra il debito pubblico e la ricchezza del Paese, al punto da rendere l’Italia «vulnerabile rispetto alle variazioni dei tassi di interesse, limitando le scelte politiche per stimolare la crescita e perseguire obiettivi sociali». A concorrere alla debolezza dell’economia italiana è la disoccupazione, che ha «smesso di diminuire e resta alta». L’elenco di valutazioni è contenuto nell’Economic Outlook dell’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo, che sebbene rialzi le stime del Prodotto interno lordo resta più pessimista rispetto alle previsioni del governo e delle altre istituzioni che misurano la salute dell’economia italiana. Un quadro che suggerisce «un piano di riforma a medio termine per stimolare la crescita e ridurre il rapporto debito-Pil, come prerequisito per migliorare la credibilità fiscale e ridurre il premio sui prestiti pubblici». Tra le richieste figura quella di rendere la spesa pubblica più efficiente, «con una tassazione dei redditi personali più giusto e progressivo». E anche se il quadro mondiale pare meno problematico rispetto a qualche mese fa e il punto di minimo del ciclo, soprattutto grazie alla Cina, pare superato, rischi e incertezze continuano a incidere pesantemente sulle scelte delle imprese, con effetti già palesi in termini di compressione della domanda interna. «Sei consumi al momento tengono – sottolinea il capo economista di Intesa Sanpaolo Gregorio De Felice – la vera sfida oggi è quella di rilanciare gli investimenti, per allargare la base produttiva ma anche per rilanciare la nostra produttività». Accelerare pare in effetti necessario, perché dopo il calo di tre punti stimato per l’anno in corso, anche prendendo per buone le ipotesi contenute nel Def, la crescita composta degli investimenti nei prossimi tre anni sarà appena del 5,3%, «del tutto inadeguata – aggiunge De Felice – a colmare il gap accumulato nel tempo nei confronti della Germania».
Politica interna
Dl Sicurezza, Salvini sfida il Quirinale. Si sta verificando ciò che il Quirinale maggiormente temeva: è in atto, cioè, un tentativo di trascinare il capo dello Stato nella rissa tra M5S e Lega. Lo tirano per la giacca Conte e Di Maio, che sperano di farsene scudo contro Salvini; il quale invece preme perché l’uomo del Colle si tolga di torno. I primi vorrebbero una mano da Mattarella a stoppare il decreto sicurezza bis, negandone la promulgazione fino al 26 maggio; il secondo si aspetta una firma fulminea perché il decreto gli serve come trofeo da esibire domenica, giorno delle elezioni. Salvini insiste: «II decreto sicurezza bis è stato corretto e dunque si può approvare prima del voto di domenica». Cioè oggi, o domani. A Palazzo Chigi però non sono affatto convinti dell’analisi, tanto che ieri Giuseppe Conte ha avuto contatti con il Quirinale proprio per discutere anche del decreto, un provvedimento che nonostante le modifiche dell’ultima ora sarebbe comunque al centro di notevoli dubbi, giuridici e di merito. Il duello a distanza fra Salvini e Di Maio prosegue come nei giorni scorsi. Di Maio fa un riferimento alla prima carica dello Stato per dire che è opportuno andare a dopo le Europee: «L’unica questione è che ci sono sul decreto sicurezza bis delle osservazioni del Quirinale, del presidente Mattarella, ed è lui che firma le leggi. Quindi è giusto che ci siano interlocuzioni per risolvere tutti i dubbi del Colle». Ma al contempo attacca anche la Lega: «L’attacco a Conte è stato ingiusto, non si può minacciare una crisi ogni giorno. Domenica la Lega chiede voti per le Europee o per aprire la crisi di governo?». Una versione che da Salvini viene duramente contestata, per il vicepremier leghista il decreto è pronto per il via libera in Cdm già oggi. «Io ho fatto i compiti a casa. Sono 17 articoli, limati ieri notte. II decreto è pronto, io sono pronto. Hanno chiesto di fare le ultime verifiche. Io mercoledì ci sono, giovedì ci sono… II decreto non serve a me ma al Paese».
Stabilità governo Lega-M5S. Prima ancora di entrare in crisi in Parlamento, il governo sta entrando in crisi nel Paese. La sfiducia ha le sembianze di un diagramma che a Palazzo Chigi conoscono e che da marzo segnala la picchiata negli indici di gradimento per il premier e i suoi due vice. Poco importa se Salvini sopravanza Conte e stacca Di Maio, il trend colpisce l’esecutivo nella sua interezza e riguarda singolarmente i tre protagonisti di una narrazione che non convince più l’opinione pubblica. Ed è vero che domenica si conteranno i voti, che molto probabilmente il blocco giallo-verde si confermerà maggioranza, ma – come dice Giorgetti – l’onda lunga di un mood negativo si disvelerà «più avanti». Se questo è lo stato delle cose, è chiaro che il fixing delle Europee potrebbe essere la rappresentazione di un quadro politico già superato. Con un ulteriore fattore di rischio che i vertici di M5S e Lega tengono in considerazione, e cioè che la fine della «luna di miele» con l’elettorato si possa manifestare in modo dirompente in autunno, proprio in coincidenza con il difficile tornante della Finanziaria: una mossa falsa comprometterebbe il «tesoretto» di consensi conquistati dai due partiti il prossimo 26 maggio. Ma Matteo Salvini – nell’ultima diretta Facebook – afferma: «Il governo non cade. Va avanti. Va avanti per quattro anni e lo farà perché ha lavorato bene. Il governo dura fino al marzo 2023. Il voto di domenica è quello per cambiare l’Europa, e con il governo c’entra niente. Il governo è partito nel marzo 2018 con la Lega al 17 e i 5 Stelle al 30% e molto probabilmente con il voto di domenica vedremo che le proporzioni si sono invertite. Ma a me non importa, io sono davvero per il lavoro di squadra … Io con Di Maio ho lavorato bene. E sono convinto che da lunedì torneremo a lavorare come abbiamo sempre fatto. E come i provvedimenti approvati dimostrano».
Politica estera
L’Europa alle urne. In Italia le elezioni europee sono potenzialmente in grado di far saltare il governo che si regge sulla sempre più fragile coalizione Lega-M5S, acerrimi nemici in queste settimane di campagna Ue. Non esistono altri Paesi in una situazione simile. Ma altrove, in Europa, i problemi non mancano. E così il voto in programma da domani a domenica potrebbe riscrivere gli equilibri politici in molti Paesi, fare da test per le imminenti consultazioni nazionali o comunque lanciare un avvertimento ai rispettivi partiti di governo. 374 milioni di europei sono pronti a recarsi alle urne per il voto continentale più importante di sempre. In gioco la stessa identità dell’Unione, con lo scontro storico tra europeisti e sovranisti, tra sostenitori della democrazia liberale e chi invece la vorrebbe smantellare insieme alle istituzioni Ue. Ad aprire le danze, domani, gli olandesi, che potranno recarsi ai seggi dalle 7.30. Mezz’ora dopo apriranno i battenti per i britannici, con gli altri Paesi che seguiranno fino a domenica, giorno del voto in Italia, ultimo Paese a chiudere le urne alle 23. All’alba di lunedì sapremo qual e l’Europa del futuro e chi saranno i 751 deputati pronti a insediarsi il 2 luglio a Strasburgo. In corsa le famiglie politiche del Continente, a partire dal Partito popolare europeo, destinato a perdere voti rispetto al 2014 ma a confermarsi partito di maggioranza relativa. Il centrodestra moderato, da noi Forza Italia, va forte in Germania, dove la Cdu di Merkel si giocherà la palma di prima forza di Strasburgo con la Lega di Salvini, e nell’Europa centro-orientale. Voti che serviranno a Manfred Weber, capolista del Ppe, a reclamare la presidenza della Commissione Ue nel dopo Juncker. Sempre che i leader glielo permetteranno, visto che i governi appaiono pronti ad affrontare Strasburgo e spazzare l’innovazione dei candidati di punta dei partiti politici Ue che premia il rapporto diretto con i cittadini e il ruolo dell’Europarlamento. Probabili secondi i Socialisti e Democratici (Pse) il cui portabandiera è Frans Timmermans, autore di una brillante campagna elettorale. Nel centrosinistra è il Pd ad aspirare al ruolo di primo partito. Buoni risultati sono attesi anche in Spagna, Portogallo e Austria. Terza forza saranno i Liberali di Verhofstadt (Aide) sommati a Macron e Ciudadanos.
Brexit. Theresa May per la prima volta ha ammesso l’ipotesi di un secondo referendum sulla Brexit. È l’ultima, disperata carta per far passare in cambio il suo accordo in Parlamento: sinora la premier non aveva mai ceduto su questo punto. Eppure il suo “rischiatutto” non sembra aver funzionato. Anzi, ha scatenato l’effetto opposto. Almeno cinquanta dei colleghi conservatori, tra cui molti ribelli che di recente si erano riavvicinati alla premier britannica, già ieri sera giuravano che non voteranno mai questo azzardo. L’ipotesi di un secondo referendum sulla Brexit, che secondo la strategia della premier sarebbe messo ai voti in Parlamento addirittura prima del suo accordo con l’Ue ad esso legato, ha spaventato una gran fetta del suo partito, da sempre contraria. Non solo: molti tories si sono infuriati anche per una seconda apertura di May alle opposizioni, e cioè un’unione doganale temporanea con l’Ue fino a quando non si risolverà la vicenda del confine irlandese. Sacrilegio per gli euroscettici conservatori e non solo: “Mani legate, saremo schiavi di Bruxelles”, eccetera. La mazzata finale a May gliel’ha data Jeremy Corbyn, che quando c’è da essere politicamente sanguinario dà il meglio di sé. L’apertura di May sul secondo referendum sulla Brexit, dopo settimane di inutili negoziati bipartisan, avrebbe del resto un secondo fine avvelenato: dilaniare i laburisti, da tempo spaccati sulla possibilità di una nuova consultazione popolare, mettendoli di fronte al bivio del secondo referendum sul nuovo piano Brexit di May, una volta approvato. E il voto europeo nel Regno Unito – che restituirà un panorama politico molto frammento – avrà una chiara valenza in chiave Brexit: Nigel Farage è certamente tra gli osservati speciali, ma gli occhi sono puntati sui partiti pro-Remain. E sul prevedibile crollo dei conservatori. Ora che anche Theresa May ha aperto a un secondo referendum sulla Brexit, il voto europeo – dal tasso di partecipazione fino ai risultati dei partiti – potrebbe dire molto sulla strada che i britannici intendono percorrere a tre anni di distanza dalla consultazione in cui hanno chiesto di uscire dall’Ue.