Economia e Finanza
Accordo Italia e Cina. Il rischio che tutti paventano, da Washington a Bruxelles, è che la Cina faccia quello che vuole, anche a livello geopolitico, nei mercati in cui riesce a penetrare. Sta accadendo in Grecia, potrebbe accadere domani in Italia. Forse anche per questo nel testo del Memorandum fra Roma e Pechino, che dovrebbe essere firmato a villa Madama a fine mese in occasione della visita di Xi Jinping, ci sono almeno quattro caveat voluti esplicitamente dal nostro governo. Tutti e quattro aprono l’accordo e ne costituiscono la cornice: i principi della Carta delle Nazioni Unite, gli accordi di Parigi sui cambiamenti climatici sottoscritti anche dai cinesi, i principi europei sulla collaborazione con il gigante asiatico e quelli, sempre della Ue, della Strategia di Bruxelles per collegare il Vecchio continente alla Cina. Non è molto, ma non è nemmeno poco. Il premier Giuseppe Conte cerca di placare le differenze, di non alimentare polemiche, di tranquillizzare. In una intervista concessa alCorriere della Sera Conte difende l’accordo che sta prendendo corpo. Ma tenta anche di rassicurare tutti: Unione europea e Stati Uniti. In una parola, l’Occidente del quale l’Italia è parte integrante. La Nato resta «un pilastro fondamentale della nostra politica estera». Ma Conte vede la visita di Xi Jinping, presidente della Repubblica Popolare Cinese, come una grande opportunità per l’Italia. Conte cerca di placare le diffidenze. Il memorandum, ribadisce, ha contorni commerciali. Ed esclude che preluda a una penetrazione geopolitica della Cina: con l’Italia involontaria testa di ponte. «L’Italia fisserà con la Cina — attraverso un memorandum che, preciso subito, non ha la natura di accordo internazionale e non crea vincoli giuridici — una cornice di obiettivi, principi e modalità di collaborazione nell’ambito dell’iniziativa Belt and Road, un importante progetto di connettività euroasiatica cui il nostro Paese guarda con lo stesso interesse che nutriamo per altre iniziative di connettività tra i due continenti. Il testo, che abbiamo negoziato per molti mesi con la Cina, imposta la collaborazione in modo equilibrato e mutualmente vantaggioso, in pieno raccordo con l’Agenda 2030, l’Agenda 2020 di cooperazione Ue-Cina e la Strategia Ue per la connettività euroasiatica. Abbiamo preteso un pieno raccordo con le norme e le politiche Ue, più stringente rispetto ad accordi analoghi firmati da altri partner Ue con Pechino. Abbiamo inserito chiari riferimenti ai principi di sostenibilità economica, sociale, ambientale, di reciprocità, trasparenza e apertura cari all’Italia e all’Europa». E in merito ai segnali ricevuti dagli Stati Uniti ha assicurato che «con gli Stati Uniti il dialogo e l’aggiornamento sono costanti, anche su questo dossier. Per noi, quella di collaborare con la Cina sulla Belt and Road, è una scelta di natura squisitamente economico-commerciale, perfettamente compatibile con la nostra collocazione nell’Alleanza atlantica e nel Sistema integrato europeo».
Scontro Salvini-Di Maio. Slitta lo sblocca cantieri. Torna a surriscaldarsi la temperatura nel governo. Neanche il tempo di rifiatare sulla Tav e di rinviare, con un espediente semantico, il dossier a dopo le Europee, che si scatena la guerriglia sul decreto Sbloccacantieri. È bastato riaprire la campagna elettorale in Basilicata. Matteo Salvini ha fretta, vorrebbe che la norma per sturare l’imbuto cantieristico arrivasse già questa settimana al Consiglio dei ministri. Il provvedimento sarebbe pronto, secondo il capo della Lega, poco propenso ai velluti del buon alleato: «Serve un Paese con meno burocrazia e con più opere pubbliche. E su questo – dice esplicitamente – la penso in maniera diversa rispetto ai miei alleati. C’è bisogno di più strade, autostrade, ferrovie, porti, aeroporti. Solo con i no – dice dal palco di Policoro, in provincia di Matera – non si va da nessuna parte». Un pugno nello stomaco a Luigi Di Maio che prova a trattenersi, prima di reagire ruvidamente. «Non voglio commentare, siamo alleati di governo ed entrambi vogliamo che il governo vada avanti. E andrà avanti. Basta attacchi gratuiti al M5S, pensiamo a lavorare per il Paese». II botta e risposta si conclude con Salvini che ricorda 300 cantieri ancora fermi in Italia: «Io sono pronto a votare lo “sblocca-cantieri” e il nuovo codice degli appalti anche questa settimana in Cdm». Ma non c’è ancora nulla di pronto. In settimana il premier Giuseppe Conte, assieme ai ministri Maio e Danilo Toninelli, incontrerà Regioni, Anci e Ance per fare il punto sulle opere ferme. Forte dei consensi nei sondaggi la Lega vorrebbe costruire una specie di cordone sanitario attorno a Toninelli, intestandosi in modo sempre più chiaro la battaglia «modernizzatrice» per le infrastrutture. Intanto dal Sole 24 Ore si apprende i Patti per il Sud si sono rivelati un flop. Su oltre 32 miliardi di risorse programmate per il periodo 2014-2020, al 31 ottobre i pagamenti del Fondo erano fermi all’1,5%. La percentuale sale di poco, all’1,9%, per i Patti per lo Sviluppo. Nel complesso, tra risorse ripartite dal Cipe per diverse aree tematiche e risorse ancora da assegnare/programmare, il monitoraggio della Ragioneria indica per l’Fsc del periodo 2014-2020 una dotazione totale di 59,8 miliardi.
Politica interna
Tenuta del governo e regionali in Basilicata. Si fa attendere un’ora e quando il Palasassi è pieno per metà, Matteo Salvini fa il suo ingresso sulle note della Turandot: «All’alba vincerò…». Sono le sette di una sera gelida a Matera, comizio lampo, venti minuti scarsi per lanciarsi alla conquista della Basilicata e portare «la bella rivoluzione» anche agli italiani del Sud, gli stessi che i leader leghisti chiamavano «terroni». Sembra un secolo fa. Adesso la fila per il selfie dura più del discorso, mezz’ora di scatti, di baci e di sorrisi pianificati con meticolosa regia, così che nemmeno un sostenitore torni a casa deluso. Fuori, nel vento che piega gli alberi, uno sparuto drappello di giovani manifestanti chiede accoglienza per i migranti e Salvini ringrazia per l’assist: «Hanno provato a mettermi paura con un processo, ma i barconi tornano da dove sono partiti. Ne ho visti troppi di pseudoprofughi che la guerra la portano in Basilicata». Il voto al Senato sulla nave Diciotti è vicino e Salvini ci fa campagna sopra: «Non ho paura di nessuno». E quando anche il rito dei selfie è finito, c’è tempo per le domande sul governo. Se il centrodestra, con l’ex generale Vito Bardi, vince anche in Basilicata? «Non cambia nulla. E nulla cambierà se vinciamo anche le Europee, le planetarie e le marziane. Non chiederò ministri, rimpasti, sottosegretari. La crisi? Tutte balle. Voglio solo il rispetto del contratto». E vuole che Di Maio e compagni, con i quali sullo sviluppo la pensa «in maniera diversa», si rassegnino a sbloccare i cantieri: «C’è bisogno di andare avanti, non di tornare indietro». Matteo Salvini mette il dito nelle piaghe alla prima vera sfida nel Sud: “annettere” alla propria leadership anche la Basilicata, alle regionali del 24 marzo. «Soffia un gran vento, accidenti, è quello del cambiamento», riscalda la platea con, al suo fianco, il candidato governatore del centrodestra, il generale Vito Bardi, che col suo aplomb viene quasi trascinato dai colpi teatrali dello showman e ministro dell’Interno. Come quello di allontanare dal palco, microfoni e postazioni dei cronisti – «Io non sono qui per voi, allontanatevi» – e lanciarsi sugli spalti del palazzetto dello sport, il Palasassi, per andare a parlare schiacciato tra la gente. Poi tocca finalmente il cuore della questione: «Qui, lo dico con rispetto di tutti gli altri , la partita è a due. O noi o la solita monarchia. O noi, o la stessa trentennale gestione del potere degli amici degli amici e delle amanti dei nipoti e dei cugini», alludendo al candidato del centrosinistra, Carlo Trerotola. Per Salvini, con perfida noncuranza, esistono solo gli avversari del Pd, non cita minimamente gli sfidanti Cinque Stelle, che sono compagni di banco al governo, e che qui schierano Antonio Mattia.
Bonino boccia il listone con il Pd. Liste separate del Pd e di +Europa di Emma Bonino in vista delle europee. Ma per le politiche si costruirà un campo comune, una coalizione di centrosinistra. Per il neo segretario del Pd, Nicola Zingaretti il primo dossier caldo è quello sulle alleanze non solo per le europee, bensì con respiro più lungo, perché di una cosa Zingaretti è certo: «Si vota entro un anno». I venti di crisi politica e la situazione economica rendono le elezioni anticipate probabili. Il segretario dem ha visto i leader di +Europa, Bonino, Bruno Tabacci e il segretario Benedetto Della Vedova e ha preso atto che non vogliono il listone che il Pd, sulla traccia proposta da Carlo Calenda, aveva in mente. Niente da fare. Risparmiamoci i pasticci: è stato il ragionamento di Bonino, tanto il 26 maggio si va a votare con il proporzionale. Chi rischia di non superare la soglia del 4%, necessaria per eleggere propri europarlamentari, siamo noi e quel rischio ce lo assumiamo: ha rincarato Tabacci. Quindi «ci presenteremo alle europee con liste distinte anche per raccogliere un tipo di elettorato distinto», ha annunciato Della Vedova alla fine dell’incontro, ricordando che la distinzione sta anche nelle famiglie europee di riferimento, ovvero i liberaldemocratici di Alde per +Europa e i socialisti per il Pd. Deluso Calenda che vede franare il suo progetto: «Il fronte unitario di Siamo europei è morto e per responsabilità di +Europa, perché il Pd ha fatto la sua parte offrendo la pariteticità dei loghi sotto un ombrello comune. Da +Europa è stato fatto un grave errore. Peccato». L’idea della lista unica del “fronte europeista”, caldeggiata da Carlo Calenda, nota Stefano Folli su Repubblica, era in realtà tramontata già da qualche tempo, ammesso che non sia stata solo un’ipotesi mediatica, seppur generosa. In sintesi il nuovo segretario del Pd è pronto ad accogliere un certo numero di candidati indipendenti o provenienti da altre esperienze politiche o semplicemente dalla fatidica “società civile”. In particolare è determinato a sfruttare l’opportunità del voto europeo per cominciare a ricostruire una sinistra oggi disarticolata. Anzi, si direbbe che questa sia la sua priorità, testimoniata dal rapporto con Giuliano Pisapia e non solo. Non stupisce allora che tra Zingaretti e PiùEuropa ci sia stato un «incontrarsi per dirsi addio». O meglio, un incontrarsi per decidere che ognuno andrà per la sua strada. Emma Bonino e i suoi amici non hanno voglia di farsi inglobare nel Pd; e Zingaretti non può e non vuole dissolvere il partito che lo ha appena eletto suo capo in un’indistinta lista elettorale pro-Europa. Ci sono vari punti in comune tra lui, Emma Bonino e Carlo Calenda. Anzi, rispetto alla prospettiva europea, ciò che unisce queste persone provenienti da storie diverse è più di quello che le divide. Tuttavia non è sufficiente per creare un inedito cocktail politico.
Politica estera
Brexit, nuovo no all’intesa con la Ue. Il Parlamento di Westminster ha respinto per la seconda e decisiva volta l’accordo di recesso dall’Unione Europea concordato dal Governo di Theresa May. I deputati britannici ieri sera hanno votato 391 contro e 242 a favore, una netta sconfitta per il Governo con un margine di 149 voti. In gennaio l’accordo era stato respinto per 230 voti. Le concessioni ottenute in extremis dalla May lunedì sera a Strasburgo nell’incontro con il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker hanno convinto alcune decine di Tory moderati a votare a favore, ma non sono state sufficienti a convincere gli oltranzisti pro-Brexit. Dopo l’annuncio del risultato, la May ha dichiarato al Parlamento che la tabella di marcia verrà rispettata e oggi si terrà un voto sulla possibilità di escludere un’uscita senza accordo e domani un voto su un rinvio di Brexit oltre il 29 marzo. «In ogni caso, i voti dei prossimi due giorni non risolvono il problema», ha detto la May, che ha concesso ai deputati Tory un voto libero, secondo coscienza, sul “no deal”. La giornata di ieri era iniziata con un certo ottimismo. Il clima positivo è durato solo poche ore, fino a quando Geoffrey Cox, procuratore generale, ha dato l’atteso verdetto legale in Parlamento e ha confermato i timori dei Brexiter. Il rischio legale che la Gran Bretagna resti vincolata alla Ue contro la sua volontà «resta immutato», ha detto, anche se le concessioni ottenute dalla May «riducono il rischio». Da un punto di vista strettamente legale Londra non potrà mai uscire dal backstop senza il via libera della Ue, quindi i deputati dovranno fare una «scelta politica», ha dichiarato Cox invitandoli a votare a favore dell’accordo. Le parole di Cox sono risuonate come una campana a morto in Parlamento, uccidendo ogni speranza di approvazione. Pochi minuti dopo, il gruppo di euroscettici Tory ha dichiarato di «non poter sostenere» l’accordo su consiglio dei loro esperti legali. Il Dup, il partito unionista nordirlandese da cui la May dipende per avere una maggioranza in Parlamento, ha poi fatto altrettanto. Ora, almeno in teoria, tutto torna in gioco. Stasera stessa i deputati saranno chiamati a esprimersi sulla possibilità che la Gran Bretagna lasci la Ue alla data stabilita, il 29 marzo, senza nessun accordo. E il temuto no deal, lo scenario catastrofico che farebbe piombare nel caos la Gran Bretagna e infliggerebbe danni anche alle economie europee. E l’ipotesi di default, quella automatica, ma nessuno la vuole, tranne gli euroscettici duri e puri. Dunque è assai probabile che stasera il Parlamento britannico si esprima per escludere un no deal. Ma come? La strada la indica un nuovo voto che si terrà domani: i deputati dovranno dire sì o no a un’ipotesi di rinvio della Brexit. Difficile predirne l’esito, perché molti non vorranno assumersi la responsabilità di dilazionare la volontà del popolo, espressa nel referendum del 2016. Ma d’altra parte è l’unica maniera per evitare di cadere dal precipizio. C’è però un intoppo, e non è di poco conto. Sul rinvio della Brexit dovrà esserci l’accordo di tutti gli altri 27 Paesi della Ue. E lunedì Jean-Claude Junker, il presidente della Commissione, è stato chiaro: non ci saranno nuove opportunità, non ci saranno ulteriori negoziati fra Bruxelles e Londra. Nel caos ormai quotidiano del Regno Unito, May resiste anche se è sempre più sfiduciata e le richieste di dimissioni nel governo cresceranno. Mentre Corbyn insiste nel non volere chiedere un secondo referendum perché il suo primo pensiero è andare a elezioni anticipate e coronare il suo sogno a Downing Street, Intanto la sterlina crolla, il Paese è sempre più spaccato.
Scandalo nelle università Usa: mazzette per ammettere i figli dei vip. Essere ammessi a Yale, o a Georgetown, o a Stanford è il sogno di centinaia di migliaia di studenti liceali americani. Ma solo una minuscola percentuale riesce a superare gli esami di selezione con un voto abbastanza alto da entrare nelle liste dei possibili candidati. Ma se per decine di migliaia di ragazzi non c’è speranza, per tanti figli di ricchi e influenti genitori può sempre esserci la strada della frode. Lo ha dimostrato ieri il Ministero della Giustizia, nel rivelare una della più vaste truffe nella procedura di ammissione alle università Usa. Cinquanta persone sono state incriminate nell’ambito di un’inchiesta che ha abbracciato l’intero Paese. Al centro dello scandalo c’è un uomo, William Rick Singer, il “cervello”, il quale ha deciso di collaborare con la giustizia. L’Fbi ieri, al termine di una lunga indagine in tutti gli Stati Uniti, ha arrestato una cinquantina di persone — tra le quali genitori eccellenti come l’attrice di «Casalinghe disperate» Felicity Huffman — e incriminato molti altri tra i quali il finanziere William McGlashan, partner del gruppo Tpg. Il procuratore federale di Boston, Andrew Lelling, ha spiegato che gli agenti hanno scoperto una rete di ammissioni truccate nelle accademie più blasonate dietro pagamenti di decine di migliaia (ma in qualche caso anche milioni) di dollari che spazia dall’Atlantico al Pacifico e investe molti degli atenei più prestigiosi del Paese: da Stanford a Yale, dalla University of Texas alla Georgetown di Washington, passando per la University of California e il Boston College. Gli inquirenti non hanno messo (per ora) sotto accusa né studenti né le università perché dalle intercettazioni è emerso che i genitori si muovevano all’insaputa dei loro figli, mentre tutti i casi esaminati nelle accademie sono considerati episodi di corruzione individuale, avvenuta all’insaputa dell’ateneo, considerato, quindi, vittima del crimine.