Economia e Finanza
Sblocca-cantieri, irritazione del Quirinale per i ritardi. Ore concitate a Palazzo Chigi per chiudere almeno sul decreto sblocca cantieri. Sembrava fatta ma ancora ieri erano alle prese con due aspetti problematici: uno sul codice appalti e l’altro sulla normativa che riguarda la rigenerazione urbana. Insomma, due altri intoppi che ritardano ulteriormente l’iter di un provvedimento che in teoria dovrebbe essere d’urgenza ma che in realtà è in stand by da 27 giorni dal via libera. Dunque, il traguardo sfugge ancora e per questo non approda sulla scrivania del capo dello Stato per la firma visto che attende la “bollinatura” della Ragioneria. E infatti dal Colle è trapelato il disappunto per i tempi che ormai sono da record. E non è affatto escluso che il Quirinale possa richiedere una seconda delibera del testo. Chi ha fatto i conti con il calendario, ha notato che mai era successo che un decreto andasse oltre le tre settimane di attesa. E l’ipotesi della richiesta del Colle comincia a preoccupare il Governo. Perchè in pratica il Consiglio dei ministri dovrebbe riunirsi per approvare un nuovo testo, archiviando quello che è in ballo da 27 giorni. Un passaggio che metterebbe in carico alla maggioranza la responsabilità del ritardo imponendo il via libera su quello che è ormai un “nuovo” Dl. È vero che ieri il ministro Di Maio si è voluto impegnare in una rapida approvazione ma non è tutto scontato. «Mi dicevano da Roma che entro oggi i decreti sblocca cantieri e crescita dovrebbero andare in Gazzetta». E poi ha aggiunto che alcune norme avrebbero bisogno di una «limatura» e in particolare quella che riguarda i risparmiatori «sulla quale mettiamo 1,5 miliardi e quindi deve essere perfetta». Una previsione su cui – però – da Palazzo Chigi erano più prudenti. Mentre confermavano l’approdo più veloce per il decreto sblocca cantieri, molto più cauti erano sui tempi del provvedimento sulla crescita dove restano aspetti non secondari da approfondire. I due decreti sono il cuore della strategia del governo di rilancio della crescita economica dopo la forte flessione che ha connotato la fine del 2018 e il passaggio al 2019. Così sono stati annunciati, come urgenti, prima ancora di essere approvati. Così sono collegati al Def. Urgente è la crescita. Quei due decreti dovevano (e devono) essere il segnale forte all’Europa, all’economia reale, ai mercati, alle agenzie di rating che l’Italia vuole giocare sul serio la partita decisiva della crescita.
Reddito di cittadinanza, approvate solo 487mila domande. Accolte 487.677 domande di reddito e pensione di cittadinanza, circa un terzo degli 1,3 milioni di nuclei familiari di beneficiari preventivati dal governo. Per giunta, tra le 680.965 istanze lavorate dall’Inps, poco più di un quarto delle richieste (177.422) è stata respinta, mentre per circa 16mila è necessaria un’ulteriore attività istruttoria. Un sistema di controlli ancora parziale che, in attesa di completare le convenzioni con le diverse amministrazioni coinvolte, fa affidamento su verifiche a campione successive all’erogazione delle risorse, sul possesso dei requisiti richiesti per l’accesso al sussidio. La macchina del reddito e della pensione di cittadinanza è partita, anticipata da un ampio battage di dichiarazioni trionfalistiche del governo, con il vicepremier, Luigi Di Maio, che si è spinto fino ad annunciare «abbiamo abolito la povertà», ma in fase di avvio fa registrare un numero di richieste (806mila) molto al di sotto delle attese. Ne restano in lavorazione circa 125mila, di cui 45mila – assicura l’Inps – verranno definite entro la settimana. Non è ancora noto quante di queste richieste accettate si tradurranno in pensioni e quante in reddito di cittadinanza. A ciò si aggiunga il fortissimo ritardo nella definizione delle politiche attive del lavoro, in capo all’Anpal, per offrire opportunità occupazionali a chi si rivolge ai centri per l’impiego. Di fatto il navigator non esiste più. Spazzato via assieme agli anglicismi, portati dal suo ideatore – l’italo-americano Mimmo Parisi, ora presidente Anpal – dal lontano Mississippi. Domani Stato e Regioni sigleranno la sofferta intesa per i 3 mila laureati, selezionati da Anpal Servizi e contrattualizzati con co.co.co biennali. E allora verrà fuori. I tutor dei beneficiari del reddito di cittadinanza declassati a “assistenti tecnici”. Il “case management” rimpiazzato dalla consolidata presa in carico. La “working alliance” e l'”empowerment” sostituiti dalla personalizzazione delle politiche attive. Le Regioni hanno riportato la barra delle politiche di attivazione dei disoccupati là dove la Costituzione le colloca: sul territorio. E allora cosa ne sarà della seconda fase del reddito di cittadinanza? La super piattaforma informatica, il patto per il lavoro e quello per l’inclusione sociale, le tre offerte congrue, gli incentivi perle imprese che assumono chi prende il sussidio, i controlli su requisiti e lavoro nero? Zero. Per ora nulla del complesso meccanismo di attuazione del reddito è in campo.
Politica interna
Porti chiusi, lite Lega-M5S. La Sea Watch 3 come il caso Diciotti. Una nuova inchiesta per sequestro di persona come nell’agosto scorso. Allora riguardava 177 migranti tenuti per giorni al largo di Lampedusa. Oggi i 47 profughi bloccati per una settimana a gennaio sulla nave Ong davanti al porto di Siracusa. E — oggi come allora — figurano indagati il premier Giuseppe Conte, i due vicepremier Matteo Salvini e Luigi Di Maio e il ministro delle Infrastrutture, Danilo Toninelli. Per tutti, il procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro, ha già presentato richiesta di archiviazione al Tribunale dei ministri, che dovrà decidere entro i prossimi 90 giorni. «Finché faccio il ministro dell’Interno, i porti restano e resteranno chiusi», taglia corto Matteo Salvini. Il 24 gennaio scorso il Tribunale dei ministri di Catania chiese l’autorizzazione a procedere contro il ministro della Lega. Autorizzazione negata dal Senato il 20 marzo. Il clima, però, nel governo gialloverde oggi è molto cambiato.«Sono indagato anch’io — ha detto ieri il vicepremier M55 Luigi Di Maio —. Ma non mi sento Napoleone…». Un’altra stoccata a Salvini, dopo l’intervista al Corriere in cui definiva la chiusura dei porti una soluzione «solo temporanea». I due sono ormai ai ferri corti. Salvini sente di avere «tutti contro» e quasi non gli dispiace, convinto com’è che avere tanti nemici gli porterà tanti voti il 26 maggio. Ma se un Varoufalds che da sinistra lo paragona a Hitler e Mussolini può fargli persino gioco, un Di Maio che lo sbeffeggia sulla Sea Watch e lo accosta a Napoleone, lo fa solo arrabbiare. I collaboratori hanno finito gli aggettivi per descrivere quanto sia nero l’umore del ministro, c’è chi lo definisce «irritato» e chi «molto piccato» e c’è chi, per spiegare tanta furia, mette in fila i colpi sotto la cintura che gli alleati gli avrebbero assestato. L’ultimo ieri, con il guanto di sfida sulla «chiusura solo occasionale dei porti» italiani lanciato da Di Maio sulla prima pagina del Corriere. Una «botta» arrivata dopo l’affondo della ministra Trenta, che invitava Salvini ad «avere testa, anziché la testa dura». Parole che hanno contribuito a gonfiare l’onda della furia salviniana. «Mi arrivano più attacchi dai miei alleati di governo che dal Pd — si è sfogato con i suoi — Stanno esagerando, hanno alzato troppo i toni». E così ieri sera è stato lui ad alzarli, fino a minacciare il passo indietro («sceglietevi un altro ministro») e mettere sulla bilancia la «stima, la fiducia e l’affetto di milioni di italiani». Dietro il consueto gioco delle parti ora si vede la ruggine che «sporca» il rapporto tra i due vice, da «gemelli» del governo a fratelli coltelli. “Parlare di un Salvini accerchiato quando i sondaggi lo danno sopra il 30 per cento fa sorridere – nota Massimo Franco sul Corriere della Sera – La sfida ingaggiata contro di lui dall’alleato di governo, tuttavia, è un segno di resistenza ai suoi piani di espansione”.
Europarlamentarie M5S, voti dimezzati e tanti no. Per i falchi del Movimento e per una parte dei candidati doveva essere un voto «politico» sulla leadership di Luigi Di Maio. II terzo turno delle Europarlamentarie Cinque Stelle, quello dedicato alla ratifica della selezione delle capilista indicate dal leader M55, non è una sfida all’Ok Corral a colpi di clic ma poco ci manca. Alla fine prevale nel braccio di ferro il vicepremier: le sue scelte vengono approvate dalla base (che sul blog si è lamentata per i problemi con il voto e della opportunità politica di indicare i capilista). Ma l’esito del voto fotografa una situazione fragile. I votanti sono passati dai 37mila del primo turno ai 32mila del secondo fino ad arrivare ai 20mila del terzo (nel complesso 12.909 i voti favorevoli e 7.632 quelli contrari). Le attese della vigilia, all’interno del Movimento, erano per una affluenza intorno ai 25 mila clic. Un dimezzamento quasi rispetto alla prima consultazione che ha rischiato di avere ripercussioni anche sulla ratifica di qualche capolista. All’interno del Movimento il clima è infuocato. A partire dagli attivisti. « Il livello di tensione è tra i più alti degli ultimi mesi», dice un pentastellato. Ma Di Maio decide di testare il placet alle sue decisioni. Già di prima mattina chiarisce in un post la sua linea: «I capilista, secondo il regolamento, devo sceglierli io come capo politico e ho deciso di mettere a disposizione il posto di capilista nelle 5 circoscrizioni in tutta Italia per eccellenze di vari ambiti del nostro Paese». L’esito gli dà ragione, ma apre nuovi fronti, che probabilmente sfoceranno nel dibattito sulla scelta della nuova struttura dei Cinque Stelle. E intanto si complica sempre più la vicenda romana. Dovrebbe difenderla, ma non cita neanche il suo nome. Luigi Di Maio aspetta più di 48 ore prima di rompere il silenzio sugli attacchi di Matteo Salvini alla sindaca di Roma Virginia Raggi. La lascia sola, a fare video con le molliche di pane per tentare di spiegare al segretario leghista che cosa significhi per il governo ridiscutere il debito della capitale. E quando finalmente, da Dubai, si rassegna a rispondere a una domanda sull’offensiva dell’alleato, il vicepremier M5S riesce a non pronunciare mai il nome di colei in cui nessuno, nel Movimento, sembra riporre più alcuna fiducia. «Quando la Lega è un po’ in difficoltà come in questo periodo, per via dei sondaggi, rimette in mezzo Roma. La usa». Nessuna rivendicazione di quanto fatto. Nessuna promessa concreta. Una cosa è certa, confermata anche all’interno del cerchio ristretto del capo: «Nessuno nei 5 stelle ha mai pensato che Raggi possa essere ricandidata. E non solo per il limite dei due mandati, che dovrebbe cadere per chi ha fatto il primo da consigliere comunale». La bocciatura è politica.
Politica estera
Libia, l’Italia intensifica gli sforzi diplomatici. Una soluzione politica che non veda vincitori ma neppure vinti. L’Italia lavora per una dignitosa “exit strategy” che consenta al generale Khalifa Haftar di ritirarsi senza essere umiliato. Unica via per evitare una guerra civile tra le “due Libie” e scongiurare l’insorgere di nuove forme di terrorismo proprio quello che l’azione militare dell’esercito di Bengasi avrebbe voluto debellare. L’Italia continua nel frattempo a svolgere il suo ruolo di facilitatore parlando con tutti e cercando una sponda importante negli Stati Uniti, gli unici che possono indurre a più miti consigli sia l’Arabia Saudita sia l’Egitto, grandi sponsor di Haftar. Solo così si potrà riportare sul giusto binario la road map delle Nazioni Unite e riavviare il processo elettorale evitando una spaccatura irreversibile del Paese tra Tripoli e Bengasi. È questa, in sintesi, la strategia di Giuseppe Conte che ha incontrato ieri a Roma il vicepremier del Qatar, Mohammed Al Thani e il vicepresidente del Consiglio presidenziale di Tripoli, Ahmed Maitig. Mentre la guerra continua e miete vittime le Nazioni Unite guardano con preoccupazione all’evolversi della situazione. «Khalifa Haftar non sta compiendo un’operazione anti-terrorismo, ma un colpo di Stato», dice l’inviato speciale dell’Onu in Libia, Ghassan Salamè. E íl premier Conte aggiunge: «Chi pensava che un’opzione militare potesse favorire una soluzione alla stabilità della Libia, viene smentito. Le soluzioni di forza affidate all’uso delle armi non portano mai a soluzioni sostenibile. Il dialogo politico si rivela ancora una volta l’unica opzione sostenibile». Al di là del Mediterraneo, l’Italia è percepita come l’attore europeo principale nella complicata partita libica. Anche perchè è quello che, a conti fatti, ha «più da perdere» se la situazione attorno a Tripoli dovesse ulteriormente precipitare. Se l’offensiva del generale Haftar proseguisse scatenando una guerra civile fuori controllo. Lo dicono chiaramente sia il vicepremier del Qatar, sia Maitig .Entrambi gli interlocutori sostengono che il blitz di Haftar non starebbe andando a buon fine, che il generale sarebbe in difficoltà. A maggior ragione occorre riprendere le file del dialogo politico, possibilmente riaprire in tempi rapidi la conferenza di pace delle Nazioni unite sull’emergenza libica. All’Italia viene chiesto di esercitare pressioni sulla comunità internazionale, in particolare Germania e Gran Bretagna. Per far capire tutti insieme alla Francia – che ha tenuto una linea ambigua – che l’escalation non porterebbe a nulla di buono.
Il rogo di Notre Dame. AIle 19 e 51 il momento senza ritorno: la guglia che dal Trecento si inerpicava a 93 metri di altezza si spezza, incandescente dopo oltre ora di fuoco. Crolla. I parigini e i tanti turisti che hanno assistito fino a quel punto in silenzio si lasciano sfuggire un «oh» di incredulità e dolore. E il segno che il dramma sta succedendo davvero, un lamento che esprime dispiacere infinito e quel senso di impotenza che ha fatto pensare a tutti «ma perché non arrivano gli elicotteri? Dove sono i Canadair? Che fanno i pompieri?», quando ancora si sperava che l’incendio potesse essere circoscritto. Cinquecento vigili del fuoco combatteranno ancora nella notte per salvare Notre Dame ma alle 19 e 51 il mondo intero comprende che sta accadendo l’irreparabile. La catastrofe di Parigi lascia una lunga scia di domande, a partire da quelle sulle cause, le cui tracce potrebbero essere state distrutte proprio dal crollo del tetto. In una cattedrale gotica, patrimonio dell’umanità, sembra scontato che, quando si apre un cantiere, quando si eseguono delicati interventi di restauro, ci sia un sistema di vigilanza e di prevenzione anti incendio tra i più sofisticati e meticolosi. In una città come Parigi che convive, giorno dopo giorno, anche con l’allarme terrorismo, Notre Dame sarebbe dovuta essere uno dei luoghi più sicuri del Pianeta. Eppure, in poche ore la Cattedrale è stata distrutta dal fuoco, in poche decine di minuti le fiamme si sono diffuse in tutta l’area, partendo probabilmente dalla zona sottostante il tetto dove erano in corso i lavori, senza che si riuscisse a intervenire tempestivamente per limitare i danni. L’allarme, secondo le notizie diffuse dal portavoce di Notre Dame, è scattato alle 18.50, quando non c’erano più turisti e visitatori all’interno. I primi vigili del fuoco sono arrivati poco dopo le 19, ma malgrado il loro coraggio sono apparsi come esseri minuscoli al fianco di Gulliver di fronte all’altezza del rogo e delle fiamme. Le torri della cattedrale sono alte settanta metri, le scale dei mezzi di soccorso sono meno della metà. La sconfitta era già scritta. Osserva l’ingegnere Guido Parisi, direttore centrale emergenza dei nostri Vigili del fuoco: «In un cantiere di questo tipo un sistema anti incendio normalmente è previsto. I mezzi dei colleghi francesi erano ovviamente più bassi rispetto al punto in cui è partito il fuoco. E teniamo conto di un altro dato: siamo in una zona centrale vicino alla Senna, è anche improbo muoversi con mezzi pesanti». L’incendio di ieri, nota Aldo Cazzullo sul Corrieere della Seera, “segna il culmine di una crisi dell’identità francese. Il rogo è scoppiato a causa dell’incuria, e al di là dell’abnegazione dei pompieri i soccorsi sono apparsi fin da subito inadeguati”.