Economia e Finanza
Def, per centrare gli obiettivi misure extra da 47 miliardi. Il Def approvato martedì riporta le lancette della finanza pubblica a ottobre, quando è scoppiato lo scontro con Bruxelles. Con due incognite in più. Il percorso di discesa del deficit, dal 2,4% di quest’anno all’ 1,8% del 2021, è identico alla strada tracciata in autunno. Ma il punto di partenza del debito è più alto di 2,8 punti di Pil rispetto al piano della Nadef 2018. E soprattutto i numeri sono agganciati a una serie di misure extra che fra quest’anno e il prossimo devono portare la bellezza di 46,6 miliardi alla causa di deficit e debito. Senza questi aiuti, tutti i parametri punterebbero decisamente in alto aprendo rischi ulteriori per l’accoglienza dei nostri conti pubblici in Europa e soprattutto sui mercati. I primi 18 miliardi servono subito. Nei prossimi mesi, per rispettare obiettivi e programmi appena ribaditi dal consiglio dei ministri, il Tesoro dovrebbe “privatizzare” 18 miliardi vendendo le quote che ha nelle partecipate pubbliche. Discussioni più o meno informali si sono concentrate per ora su un pacchetto da 10 miliardi. Che rimane però del tutto ipotetico. Intanto il premier Conte da Bruxelles nega che l’Europa arriverà a bocciare i conti dell’Italia. Non considera neanche la domanda su una procedura di infrazione, anzi rilancia prendendosela con la filosofia del rigore: «Sarebbe un errore ritrarsi in una logica di austerità che porterebbe conseguenze ancora più pesanti». Eppure, il paziente sembra malato. «Se guardiamo agli ultimi dati disponibili – nega il capo dell’esecutivo – nel primo trimestre dell’anno l’Italia sta mostrando una performance promettente». «Dobbiamo perseguire con una politica che, in un quadro di sostenibilità finanziaria, preveda incentivi, semplificazioni, misure di sostegno alle imprese e all’occupazione. Fin qui abbiamo seminato, ora dobbiamo raccogliere i frutti». Certo, qualcosa ammette. Ammette ad esempio che in un mercato chiave per l’Italia come quello dell’industria dell’auto la guerra dei dazi potrebbe danneggiare ulteriormente il quadro. «Il settore rischia di risentirne fortemente». Per il resto vuole, deve, è costretto a mostrarsi ottimista. I numeri del governo che tagliano a 0,2% la crescita «non sono una sorpresa» per Mario Draghi che si dice però convinto che «l’Italia sa» come stimolare la crescita, anche se «è molto importante» che lo faccia «senza causare un aumento dei tassi» perché provocherebbe «una contrazione» del Pil. Anche il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia ha commentato ieri le stime dell’Esecutivo nel Def: «Un bagno di realismo, in particolare sul 2019. Con il Def il governo ha indicato che la crescita italiana sarà dello 0,1%, noi avevamo detto piatta. Il punto non è di chi è la colpa, ma come reagire». «Un segnale positivo – continua Boccia – che questo governo prenda atto del realismo dei dati e cominci a capire che contratto di govemo e crescita vanno insieme. Poi da qui a vedere cosa emerge con il decreto crescita e lo sblocca cantieri è tutto da vedere».
Industria, produzione avanti a febbraio. La crescita è dello 0,8%. Continua a crescere a febbraio la produzione industriale italiana, che segna la seconda variazione congiunturale positiva dopo quattro mesi consecutivi di cali che avevano contraddistinto la parte finale del 2018. Su base mensile la crescita è dello 0,8% mentre rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente il progresso è dello 0,9%. Pochino, in effetti, anche se si tratta pur sempre della prima crescita tendenziale visibile dallo scorso ottobre. In grado di spostare verso l’alto le previsioni sul Pil italiano del primo trimestre, allontanando il rischio del terzo segno meno consecutivo grazie a un contributo dell’industria che potrebbe tomare positivo. Progresso della manifattura che sarebbe stato decisamente superiore senza il freno dell’auto, ancora una volta in calo pesante: la produzione italiana di autoveicoli a febbraio è infatti diminuita del 10% rispetto allo stesso mese del 2018. Nella media dei primi due mesi dell’anno la flessione tendenziale è del 13,8%. Anche se nella media d’anno per l’intera economia resta difficile poter andare oltre lo 0,2% – spiega il senior economist di Intesa Sanpaolo Paolo Mameli – questo dato migliora le prospettive per il Pil italiano nel l° trimestre, che potrebbe tornare in territorio lievemente espansivo proprio grazie ad un’industria avviata a realizzare su base trimestrale il miglior risultato dall’estate del 2017. Tesi analoga da parte di Prometeia, che ipotizza per l’industria il primo trimestre in crescita dopo quattro consecutivi in calo. «Il momento peggiore – aggiunge Stefania Tomasini, capo economista per l’Italia – sembra sia stato superato e la recessione dovrebbe essere alle nostre spalle, anche grazie a qualche segnale positivo dalla domanda estera, dove il punto di minimo potrebbe essere stato superato». Per Dario di Vico, sulle colonne del Corriere della Sera, iI dato su febbraio è significativo perché dovrebbe avere conseguenze sul Pil del primo trimestre’19, che a questo punto non dovrebbe portare il segno negativo ma fermarsi a quota +0,1%. Va ricordato come l’Italia sia in recessione tecnica dopo due trimestri negativi (gli ultimi del ’18) e una soluzione di continuità non può che essere vista con favore perché evita il tris. Nel merito del risultato della produzione di febbraio è interessante capire quali settori abbiano fatto da driver. Usando i dati destagionalizzati colpisce la performance del farmaceutico da sempre esposto a forti variazioni e considerato «erratico». Brilla anche il settore tessile-abbigliamento (+5,5%) e in questo caso le associazioni di rappresentanza segnalano i buoni risultati del lusso che finisce per tirare tutto il comparto. In questa breve rassegna non va sottaciuto il risultato dei mezzi di trasporto (+2,6%) che rappresenta forse la maggiore sorpresa vista sia la contrazione della domanda sia la transizione che attraversa l’automotive.
Politica interna
La Lega: con i 5 Stelle i nostri piani rischiano. In fondo tutti la pensano come Zaia, secondo cui la Lega si trova davanti al pallone posizionato sul dischetto del rigore. In politica certi momenti rappresentano «una grande chance» o possono rivelarsi una «grande débâcle». Dipende dalle scelte. Ed è vero che toccherà a Salvini scegliere, ma i dirigenti del Carroccio martedì sera gli hanno detto di non aver paura a tirare il calcio di rigore. Se la Lega optasse per la prosecuzione dell’esperienza gialloverde, sarebbe bene calcolare fin da oggi l’incombenza della prossima, difficile legge di Stabilita, sapendo che «adesso siamo sulla cresta dell’onda», ma che «c’è il rischio di non portare a compimento i nostri obiettivi». E la politica non resterebbe ferma a guardare, «in politica i vuoti si riempiono». Il sottosegretario alla presidenza sa che le opposizioni stanno facendo il tifo perché l’esecutivo vada avanti. Il loro obiettivo è duplice: lasciare che le attuali forze di maggioranza — chiamate a fronteggiare la crisi economica — si logorino; e intanto lavorare alla riorganizzazione del sistema. «II sistema — secondo Giorgetti — ha bisogno di tempo». Se Salvini decidesse per il voto anticipato, prenderebbe tutti d’anticipo e tutti rimarrebbero incastrati negli schemi attuali. Altrimenti, dalla scomposizione del quadro politico «emergerebbe qualcosa di nuovo, qualcuno nuovo». Salvini comprende il ragionamento, ma invita a non fasciarsi la testa, ad aspettare il voto di maggio. Ha ben chiaro che la visione dei grillini è «diametralmente opposta alla nostra» su molti temi di governo, ma davanti al pallone non sembra propenso a calciare. Almeno così fa mostra di pensarla, anche quando Zaia gli ha ricordato — per esempio — gli impegni presi «con i cittadini che abbiamo chiamato a votare al referendum per le autonomie regionali»: «Se non realizzassimo quanto abbiamo promesso, la pagheremmo in termini di consensi». ll ragionamento del governatore veneto cozza con la contabilità del capo del Carroccio, preoccupato che la corsa ai voti del Nord possa compromettere la raccolta al Sud. Claudio Cerasa scrive oggi sul Foglio che la distanza politica tra Luigi Di Maio e Matteo Salvini esiste su un numero significativo di dossier, e i due vicepremier convocati ieri mattina a Palazzo Chigi da Conte non perdono occasione di farlo notare ogni giorno a favore di telecamera. Ma il motivo per cui alla fine dei conti il leader del M5s e il leader della Lega continuano a intendersela alla grande è insieme la ragione della stabilità del governo e la ragione dell’instabilità dell’Italia: aver trasformato il cambiamento non in un miglioramento del presente ma in una demolizione di tutto quello fatto prima del loro arrivo. Se c’è un elemento che contraddistingue l’intesa perfetta raggiunta dai due vicepremier quell’elemento è legato alla consapevolezza di entrambi di aver costruito buona parte del proprio consenso sulla base di un principio truffaldino: per essere credibili, noi populisti, dobbiamo dimostrare di essere in grado di passare con una ruspa su tutto ciò che l’Italia ha fatto negli ultimi anni.
Beppe Grillo: “Meglio noi fanciullini che le carogne”. Una critica alla Lega, sì. Ma soprattutto, la riapparizione “politica” di Beppe Grillo è una grande assoluzione, di se stesso e dei suoi ragazzi del Movimento. Meglio essere dei «fanciullini» tipo quelli della poesia di Pascoli che delle «carogne». Noi saremo pure dei «terrapiattisti» ma senza di noi vi beccate direttamente i leghisti, o i negazionisti. Grillo stavolta scrive sul suo nuovo blog parole critiche sulla Lega, ma non si può dire siano feroci, come tante altre volte è stato con altri bersagli, ai quali gridava «morti viventi», «zombi», «ebeti», «vecchie puttane» e varie gentilezze di questo tipo. Invece a Salvini il massimo che osa dire è: «Il nostro alleato coinvolge negazionisti di ogni genere, e la gente sembra starci». Però il Movimento fu congegnato da Gianroberto Casaleggio per surfare sul mood dominante del popolo, e quindi è impensabile che si distanzi davvero dal mood della «gente» (e se «la gente sembra starci», per ora è tutto). Più severo, semmai, Grillo lo è con Zingaretti, avendo fiutato l’apertura di un canale Pd-Movimento dopo la telefonata tra il premier Giuseppe Conte e il neosegretario del Pd di qualche tempo fa: Zingaretti è «un diversamente parlante che cerca di stringere dentro allo stesso calderone pugni chiusi ed ex funzionari di Confindustria», Bersani e D’Alema, e Carlo Calenda. Messaggio chiaro: non si inciuci col Pd. Una cosa è certa, Grillo non si staccherà mai dai «suoi ragazzi», per quanto fallimentari. E ora il M5S è alle prese pure con il gossip. Ieri mattina, quando Di Maio ha visto capeggiare sulle pagine del Giornale, di Chi e del Tempo le foto in costume un pochino, ma proprio un pochino, sexy della compagna Virginia Saba, è andato su tutte le furie. «Ne farò una questione mondiale», ha imprecato con il guru dell’informazione 5stelle Rocco Casalino. Poi il vicepremier ha inviato un giudizio sprezzante su Whatsapp ad uno dei direttori incriminati, colpevole di un commento inequivocabilmente e innocentemente satirico che collegava con una battuta la foto di lady Di Maio a Giulia Sarti, la parlamentare grillina vittima del caso delle porno-foto sul web: «Questa non è satira, è uno schifo. Mettere in mezzo la Sarti come quelle merde delle Iene è veramente di pessimo gusto». A proposito della Sarti la parlamentare, che si è autosospesa dal Movimento in una intervista al Messaggero dice «Io so di non essere una ladra, e lo ripeto all’infinito. Perché nessuno si va a leggere bene le carte dell’inchiesta? Perché?».
Politica estera
Brexit. La Ue verso un rinvio lungo. Theresa May aveva chiesto una proroga al 30 giugno prossimo per superare la scadenza di domani e poi uscire «il più presto possibile». May, però, non aveva potuto garantire di superare I contrasti nel Parlamento di Londra ed evitare una traumatica Brexit «senza accordo» con prevedibili conseguenze negative anche per i 27 Paesi membri. All’una di notte, quando il presidente del Consiglio Ue, il polacco Donald Tusk, le ha proposto ottobre, ha chiesto una pausa di riflessione anche sulle condizioni. La linea dell’Europa l’ha data, come al solito, la cancelliera tedesca Angela Merkel, entrata nel summit a Bruxelles dichiarando sicura: «Nessun dubbio che troveremo un accordo». La sua idea di proroga lunga include l’obbligo per May di organizzare le elezioni europee a fine maggio. Le regole comunitarie non sembrano consentire a un Paese, pur in uscita, di non essere rappresentato nella Camera Ue. «Per me è molto importante che il Regno Unito dica che si prepara per le elezioni europee, questo garantisce il funzionamento delle istituzioni europee», ha dichiarato Merkel, sostenendo lo slittamento lungo con possibilità di anticipare appena May riuscisse a ottenere l’approvazione a Londra del testo concordato con Bruxelles dopo una lunga e difficile trattativa. II timore britannico è che il voto Ue di fatto diventi un secondo referendum sulla Brexit. La Francia avrebbe spinto per il rinvio solo fino a ottobre con revisione a giugno, per evitare, a novembre, la nomina di un commissario del Regno Unito nella nuova Commissione Ue. «Siamo favorevoli ad una proroga, ovviamente non può essere di un mese o due, ma più lunga», è la posizione del premier Giuseppe Conte, che intende tutelare l’ampia comunità italiana nel Regno Unito e l’ingente interscambio commerciale italo-britannico. Londra si è già detta pronta ad organizzare le elezioni europee sul territorio britannico. Non mancano però i timori di alcuni governi, sopratutto di quelli a guida popolare o liberale. Serpeggia la paura che la partecipazione inglese al voto posso comportare il successo dei laburisti inglesi e in ultima analisi del partito socialista europeo, scombussolando le carte almeno temporaneamente, in attesa che poi il Regno Unito esca dall’Unione insieme ai deputati appena eletti.
Israele, la vittoria di Netanyahu. «Con la vittoria di Bibi credo che avremo una chance migliore per il processo di pace tra palestinesi e israeliani». Il commento rilasciato da Donald Trump sulla vittoria elettorale del premier israeliano ha del paradossale. Che il presidente americano fosse un tifoso del premier israeliano – “un amico” ha ribadito ieri – lo si sapeva da tempo. Ma accostare il nome di Netanyahu e al processo di pace suona come un ossimoro. Sostenere poi che i laburisti, da sempre i più favorevoli e aperti alla Road map, siano peggio, va contro ogni logica. Durante i suoi dieci anni al Governo Netanyahu ha agito in modo che il processo venisse compromesso e comunque rinviato. Nel 2011, quando il presidente Obama espresse il desiderio che venisse ripreso, Bibi si limitò a dire: «Non accadrà. Farò in modo che non accadrà». Obama rimase attonito. La sospensione ufficiale arrivò tre anni dopo. La pietra tombale di un processo di pace agonizzante, se non già morto, da diversi anni è arrivata però tre giorni prima del voto. Quando Netanyahu ha annunciato che, se avesse vinto, avrebbe annesso tutti gli insediamenti della Cisgiordania ad Israele (dove vivono 400mila persone), anche quelli più isolati. Netanyahu ha vinto. Per la quinta volta. La quarta di fila. Il suo partito conservatore, il Likud, ha ottenuto 35 seggi, esattamente come “Blu e bianco”, il partito di centro-sinistra di Benny Gantz, 59 anni, il suo rivale. Ma per governare ci vuole la maggioranza della Knesset, il Parlamento di Gerusalemme. Almeno 61 seggi. Grazie all’alleanza con i partiti di destra che lo sostengono, Netanyahu ha ottenuto 65 seggi. La débâcle accusata dai partiti di sinistra – i laburisti hanno raccolto solo 6 seggi, Meretz 4 – ha privato Gantz dei numeri necessari. La domanda è cosa accadrà al processo di pace tra israeliani e palestinesi. Intervistato da Repubblica David Grossman spiega: «Bibi ha un potere sulla gente che è molto difficile spiegare in modo razionale. È un ottimo politico, ma il segreto non è quello: ha trovato il modo di rispondere alle paure più irrazionali e profonde dei sionisti. L’intensità della manipolazione che ha messo in atto sulla società israeliana negli ultimi anni è difficilmente spiegabile per chi non ha assistito al suo sviluppo: è entrato nella testa del Paese e tutta la vita del Paese oggi si svolge nella sua testa. E’ come se l’intero Israele fosse soggetto alle sue priorità, alle sue ansie, alla sua visione del mondo: e nessuna altra visione trova spazio nel dibattito. Abbiamo accettato che facesse lui le regole del gioco, senza troppa opposizione: ed ecco il risultato».