Economia e finanza
Lettera alla Ue. Tria: deficit in calo al 2,3%. In attesa della replica di Bruxelles annunciata per mercoledì alla lettera inviata venerdì sera, dopo un duro scontro nella maggioranza, alla Commissione Ue dal ministro dell’Economia, Giovanni Tria, i tecnici del Governo cominciano a individuare i possibili serbatoi dai quali attingere le risorse necessarie per costruire la manovra autunnale da 30-35 miliardi. E continuano a escludere correzioni estive, in aggiunta al già previsto congelamento in via permanente per quest’anno dei 2 miliardi di tagli ai ministeri. Operazione complicata, soprattutto se il vagone della flat tax si aggiungerà a quelli già sui binari per comporre il lungo convoglio della legge di bilancio 2020 atteso a ottobre a un viaggio parlamentare tutto in salita: la sterilizzazione degli aumenti di Iva e accise da oltre 23 miliardi, il reperimento di 3-4 miliardi per le cosiddette spese indifferibili e la correzione minima per evitare un’ulteriore sfasatura del deficit strutturale. Tria conserva la sua flemma ma questa volta non è difficile capire che è davvero fuori di sé. Il ministro dell’Economia del Paese dal quarto debito pubblico più vasto al mondo è furibondo, preoccupato, insospettito. E determinato ad andare fino in fondo, anche a costo di coinvolgere la Procura di Roma e avviare un’inchiesta interna al ministero per capire chi sabota e rema contro. La fuga di notizie relative a un documento del Tesoro prima che fosse finalizzato è solo l’ultimo passaggio di una saga che non promette niente di buono. Il testo della lettera di risposta del governo alla Commissione europea sulla situazione dei conti, diffuso venerdì pomeriggio, non era nella versione finale. Era una bozza di lavoro annotata a mano dal ministro, un testo ad uso interno per arrivare a un messaggio che rassicurasse il più possibile Bruxelles. Doveva restare fra pochissime persone, invece lo hanno letto a migliaia.
Manovra: flat tax, Iva e deficit. II prossimo terreno di scontro tra Lega e 5 Stelle si annuncia sull’estensione della «pace fiscale» alle imprese. In mezzo rischia di trovarsi ancora una volta il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, marcato stretto dai due vice, il leghista Massimo Garavaglia, incaricato di portare avanti il progetto del «Capitano», e la grillina Laura Castelli cui spetta il compito di tenere alta la bandiera dell’opposizione del Movimento ai condoni (anche se, a dire il vero, nel decreto fiscale di ottobre si contano una decina di sanatorie). Al Ministero, già nelle rime riunioni, si è capito che sul cammino della prossima manovra, all’orizzonte, si profila questo scoglio. Del resto, è stato il leader della Lega, Matteo Salvini, ad annunciare: «Lavoriamo alla rottamazione delle cartelle, al saldo e stralcio esteso anche alle società, non solo alle persone fisiche. Così si incassano almeno 15 miliardi di euro». Una «caterva di miliardi», l’ha definita lo stesso vicepremier, che sarebbe preziosa in vista di una manovra 2020 che, a spanne, richiede coperture per una quarantina di miliardi. La Flat tax: la vogliono i leghisti, e ora anche i grillini, ma costringerà il governo a tentare in autunno l’impresa impossibile di una manovra da quasi 50 miliardi per il 2020. La “tassa piatta” infatti costa molto: l’ultima versione che si va consolidando è una flat tax “morbida”, si paga il 15 per cento sotto i 50 mila euro di reddito familiare e sopra questa soglia restano le vecchie aliquote Irpef. Questa misura costa secondo i leghisti 11-12 miliardi, secondo valutazioni indipendenti 17 miliardi. I 30 miliardi cui fece riferimento Salvini a Porta a porta subito dopo le elezioni comprendono anche circa 15 miliardi per la flat tax per le imprese di cui per ora si è persa traccia. È una operazione alla portata dei nostri conti pubblici? Sembra di no.
Politica Interna
Il richiamo del Presidente della Repubblica Mattarella per le celebrazioni del 2 giugno.Avendoli tutti davanti – alte cariche, grand commis, politici, ambasciatori – Sergio Mattarella non ha perso l’occasione per far pesare ciò che più lo preoccupa. L’ha detto col solito garbo e senza sgualcire la Festa della Repubblica che si è celebrata poco dopo nei giardini del Quirinale: ormai forse l’unico luogo dove tutti si sentono di casa e civilmente colloquiano tra loro sovranisti e anti, rappresentanti della famigerata “Casta” e populisti della più bell’acqua. Il presidente ha voluto ricordare che, «in ogni ambito, libertà e democrazia non sono compatibili con chi alimenta i conflitti, con chi punta a creare opposizioni dissennate tra le identità, con chi fomenta scontri, con la continua ricerca di un nemico da individuare, con chi limita il pluralismo». A cosa, e soprattutto a chi, Mattarella si riferisca, non serve troppa immaginazione per intuirlo. Suona drammatica la lettura del messaggio che Sergio Mattarella – preparandosi a ricevere le alte cariche dello Stato al Quirinale per un ricevimento dall’atmosfera quasi cupa – ha indirizzato ieri ai prefetti e, per estensione, a tutti gli attori della politica. Infatti, sentire un presidente esprimere auspici e concetti cosa elementari che dovrebbero essere interiorizzati da ogni uomo e donna, in una democrazia, sottintende una diagnosi molto dura e finora ignorata. Che cade giusto a un anno dall’insediamento di un governo dall’imprinting populista-sovranista in affanno davanti a una triplice crisi: sul contenimento dei conti pubblici, sui rapporti internazionali e sulla sua stessa tenuta (per tacere della questione morale, che adesso coinvolge persino la magistratura). E spiega, rivolto agli ambasciatori del Corpo diplomatico, che «le democrazie non sono compatibili con chi alimenta conflitti, con chi punta a creare opposizioni dissennate tra identità, con chi fomenta scontri con la continua ricerca di un nemico».
Csm: il giudice Spina si è dimesso; bufera anche su Cartone e Lepre. Le dimissioni del componente togato del Consiglio superiore della magistratura Luigi Spina, indagato per violazione di segreto e favoreggiamento nell’inchiesta per corruzione a carico del pubblico ministero romano Luca Palamara, apre una crisi istituzionale con pochi o nessun precedente nell’organo di autogoverno dei giudici. Anche perché alla vicenda penale se ne aggiunge un’altra, forse persino più grave e compromettente per l’immagine del Csm, che non riguarda solo Spina ma tocca almeno altri due consiglieri. Lo spettro ha una sua forte consistenza. E rischia di aumentare di volume giorno dopo giorno. È aumentato ulteriormente con la notizia che altri due consiglieri, entrambi di Magistratura Indipendente, Corrado Cartoni e Antonio Lepre, partecipavano agli incontri con Palamara, e i deputati Pd Luca Lotti e Cosimo Maria Ferri, quest’ultimo magistrato e da sempre leader super votato di Magistratura Indipendente, anche quando andò al Csm. Tre consiglieri su 16 togati coinvolti nell’inchiesta sono un brutto colpo. Palpabile è la preoccupazione, dal Quirinale in giù, di quel che potrebbe emergere da questa inchiesta. L’Anm chiede «presidi ancora più forti rispetto al rischio di condizionamento» nelle decisioni del Csm perle quali – sulle nomine dei procuratori di Roma, Perugia, Brescia, Torino e non solo – al momento sembra inevitabile una sospensione
Politica Estera
Cina. La rivolta di Piazza Tienanmen, 30 anni dopo. «Bisogna uccidere coloro che debbono essere uccisi, condannare coloro che debbono essere condannati», disse il vecchio rivoluzionario e vicepresidente Wang Zhen nella sala di una palazzina in stile imperiale di Zhongnanhai, a poche decine di metri da Piazza Tienanmen. La strage era già stata compiuta e i dirigenti del Partito stavano discutendo la linea. Tutto fu deciso dietro le mura che chiudono alla vista Zhongnanhai, il quartier generale del potere comunista, un tempo giardino imperiale accanto alla Città Proibita. Deng Xiaoping era lì con i compagni dirigenti quando a metà aprile del 1989 i primi gruppi di cittadini cominciarono ad affluire in Piazza Tienanmen per accumulare (sotto il Monumento per gli eroi del popolo) fiori e poesie in memoria di Hu Yaobang, l’ex segretario del Partito estromesso per liberalismo e morto per un attacco di cuore il 15 aprile. Fu da Zhongnanhai che fu dato l’ordine ai soldati di «ripulire» la piazza nella notte tra il 3 e il 4 giugno: la strage con mitragliatrici e carri armati. E fu ancora dietro quelle mura rosse che si riunirono tra il 19 e il 21 giugno i mandanti della repressione. Seguirono settimane di protesta culminate nell’occupazione della piazza simbolo del potere, nello sciopero della fame degli studenti e perfino in un burrascoso confronto (andato in onda in tv) tra Li Peng e il numero due del movimento, Wu’er Kaixi, accorso in pigiama dal suo letto d’ospedale nella Grande sala del popolo per interrompere il discorso del premier, al quale diede dell’ipocrita. A cadere sotto le pallottole dell’esercito chiamato a reprimere quella rivolta furono soprattutto cittadini comuni (le stime ufficiose dei morti variano tra 250 e oltre duemila) venuti a solidarizzare coi ragazzi, mentre tanti leader del movimento riuscirono a fuggire dal Paese grazie ad appoggi all’estero. Trent’anni dopo, la censura continua a cancellare ogni tentativo di commemorazione a Pechino.
Trump in visita a Londra da domani. Donald Trump ha fatto scoppiare una polemica ancora prima di arrivare in Gran Bretagna per la visita di Stato che inizia domani. Il presidente americano, incurante della regola diplomatica della non interferenza nella politica interna di un altro Paese, ha apertamente sostenuto la candidatura a premier dell’ex ministro degli Esteri Boris Johnson. «Penso che Boris farebbe un ottimo lavoro, sarebbe eccellente, mi piace e mi è sempre piaciuto» ha detto Tnunp in un’intervista. Un feeling ricambiato. Già l’anno scorso Boris aveva salutato come una «fantastica notizia» la visita di lavoro compiuta allora in Gran Bretagna da Trump; e in seguito era stato sorpreso a dire che The Donald avrebbe fatto molto meglio di Theresa May nei negoziati con l’Europa sulla Brexit. II disprezzo per l’attuale inquilina di Downing Street accomuna i due politici. Già l’anno scorso Trump si era lamentato che la May non avesse seguito i suoi consigli: e nell’intervista di ieri al Sun rincara la dose, dicendosi «sorpreso di quanto siano andati male» i negoziati sulla Brexit. E la colpa, a suo modo di vedere, ricade tutta sul governo di Londra, che «ha consentito all’Unione Europea di avere tutte le carte in mano»: «È molto difficile giocare bene quando una parte ha tutto il vantaggio – ha aggiunto – non hanno dato all’Unione Europea nulla da perdere».