Politica interna
Sisma e neve. L’emergenza non è ancora terminata, ma è già tempo di fare il conto dei danni. Perché dopo le tre scosse di mercoledì scorso e le bufere di neve che hanno travolto il Centro Italia, bisogna prevedere nuovi stanziamenti per fare fronte alle necessità della popolazione e soprattutto trattare con l’Unione europea che ha chiesto una correzione dei conti pubblici pari allo 0,2. La stima parla di oltre 10 miliardi di euro che sono indispensabili per affrontare le urgenze e poi la ricostruzione. Oltre 13 mila sfollati. Protezione civile, si cambia. E per forza. Come dice il premier Paolo Gentiloni, in tv a Che tempo che fa, «tra i cittadini si è diffusa la disperazione». Che le cose non andassero, è stato sempre più chiaro in queste settimane. I ministri ne hanno parlato tra loro e con Gentiloni a margine dell’ultimo Consiglio e poi in una serie di telefonate. Unanime la conclusione: così non va. Quando il direttore Fabrizio Curcio, subentrato nella poltrona che fu di Guido Bertolaso e Franco Gabrielli, dice che oggi la Protezione civile è «un sistema», tutti annuiscono ma allo stesso tempo s’arrabbiano. Perché la Protezione civile che serve dev’essere un’altra cosa e soprattutto deve avere una linea di comando chiara, decisa, efficiente. «Dobbiamo dare poteri straordinari, a chi si occupa di emergenza e ricostruzione, ovvero alla Protezione Civile e al commissario per la ricostruzione – annuncia dunque Gentiloni – . Nei prossimi 3-4 giorni ci concentriamo, e lo faremo con l’Anac e con il Parlamento, su quali possono essere questi poteri straordinari. Non possiamo avere strozzature burocratiche che ritardano, dobbiamo dare un segnale di accelerazione forte».
Governo Gentiloni e questione elettorale. Gentiloni a “Che tempo che fa” affronta le domande sulla prossima decisione della Consulta sulla legge elettorale e su quando si andrà a votare. E risponde senza indicare limiti temporali. Sul sistema di voto dice che il tema «è slegato dalla durata del governo». E lancia un appello ai partiti. «Mi auguro – dice – che tra le forze politiche ci sia un dialogo tempestivo che consenta di avere una legge elettorale per Camera e Senato che non sia troppo disarmonica». Perché, spiega, «questo è un requisito di efficienza del sistema democratico a prescindere dalla durata del governo». Gentiloni quindi «confida in un’intesa sulla legge elettorale». E su quanto resterà a Palazzo Chigi, aggiunge: «Non faccio l’indovino. Quanto durerà la legislatura non è cosa che decido io o decide il governo». Renzi boccia un pacchetto di nomine per stabilizzare il governo Gentiloni e la legislatura. Su questo pacchetto si consuma la prima, sotterranea, tensione tra il premiere il suo predecessore Matteo Renzi, che non ha intenzione di fornire strumenti di stabilità all’assetto attuale, visto che il suo obiettivo rimangono le elezioni anticipate a giugno. In seno all’oposizione invece, c’è una stanza della Casaleggio associati in cui si lavora da tempo allo scenario della svolta: un governo con la Lega. «Se dalla Consulta uscirà davvero una legge proporzionale – è il ragionamento che Davide Casaleggio ha consegnato ai fedelissimi – allora dopo il voto vedremo quali forze saranno disponibili ad appoggiare un esecutivo cinquestelle». L’erede dell’azienda di famiglia pensa proprio alla destra di Salvini e Meloni. Non a caso, costruisce da tempo nel “laboratorio” milanese un’agenda di governo sempre più compatibile con quella del Carroccio. Il resto lo faranno i risultati elettorali. «Con un impianto proporzionale nessuno avrà la maggioranza – è l’analisi che Luigi Di Maio ripete in privato – Noi però abbiamo ottime chance di arrivare primi, ottenendo l’incarico per giocarci la partita». Quella, clamorosa, di un governo con i lepenisti d’Italia.
Politica estera
Primarie socialiste in Francia. Scacco a Manuel Valls: l’ex premier socialista di François Hollande si è fatto soffiare il primo posto dall’«outsider» della gauche, Benoit Hamon, nel primo turno delle elezioni primarie della sinistra francese. Secondo i risultati parziali del voto, il candidato del reddito di cittadinanza, il socialista utopista che dal 2014 capeggia la fronda interna contro il governo «social-liberale» di Hollande, ha raccolto oltre il 35% delle preferenze. Uno schiaffo per Manuel Valls, fermo al 31,5%, e che ora dovrà tentare la rimonta nel ballottaggio di domenica. Il 49enne bretone Benoît Hamon ha colto un risultato un po’ alla Fillon: ha presentato la sua candidatura per primo, all’inizio pochi credevano nelle sue possibilità, poi si è mostrato convincente nei dibattiti televisivi e nei comizi, finendo per essere considerato una sorpresa possibile. L’ex ministro dell’Educazione nazionale vince nettamente il primo turno delle primarie della sinistra e diventa il grande favorito per il ballottaggio di domenica prossima, con un programma molto spostato a sinistra. La prima misura che Hamon prenderebbe da presidente della Repubblica sarebbe l’abolizione della riforma del lavoro, la legge El Khomri che provocò proteste di piazza e il ricorso di Valls all’articolo «49-3» in modo da farla entrare in vigore senza l’approvazione del Parlamento. Per Manuel Valls è il terzo schiaffo in una settimana, ed è quello che fa più male. L’ex ministro dell’Interno e poi premier socialista, l’uomo che al governo incarnava l’ordine e l’autorità, martedì scorso è stato umiliato da un 18enne estremista di destra che in Bretagna gli ha dato una manata sul viso all’uscita del municipio di Lamballe. Il giorno dopo, mentre Valls era ospite della radio pubblica, un ascoltatore è intervenuto per dirgli «lo schiaffo eravamo 66 milioni a volertelo dare». Ieri sera un nuovo colpo, l’unico legittimo perché dato degli elettori nelle urne.
I primi passi di Trump. Da oggi cominceranno a contare le scelte concrete. Donald Trump potrebbe firmare da subito una serie di ordini esecutivi, sostanzialmente decreti legge, su temi come l’immigrazione. Ma per il momento ci sono solo indiscrezioni o previsioni. I giornali più critici, come il New York Times, osservano che mai un presidente aveva iniziato il suo mandato con un’agenda così «confusa». C’è un po’ più di visibilità, invece, sulle prime mosse di politica estera. Trump ha parlato ieri al telefono con il premier israeliano Benjamin Netanyahu, che incontrerà a febbraio; venerdì 27 gennaio riceverà alla Casa Bianca la premier britannica Theresa May. Ogni dettaglio conta per decifrare i primi giorni di governo di Trump. «Ho avuto un colloquio telefonico molto buono con il premier di Israele», ha detto il presidente americano durante la cerimonia di giuramento del suo staff. Del quale da ieri fa parte a tutti gli effetti il genero Jared Kushner, dopo avere superato gli esami del caso. La conferma di Kushner, giovane finanziere ebreo-americano e marito della figlia prediletta Ivanka, è destinata a influenzare la politica americana in Medio Oriente visto che il suocero presidente ha già annunciato quale sarà una delle missioni di Kushner: lavorare a un nuovo piano di pace tra Israele e i palestinesi. I media israeliani ieri davano per imminente l’annuncio dello spostamento dell’ambasciata americana a Gerusalemme. Sarebbe la conferma di un allineamento totale di Trump sulle richieste di Netanyahu, ma sarebbe anche uno schiaffo verso il mondo arabo, legato allo status speciale di Gerusalemme che ne preclude il ruolo ufficiale come capitale dello Stato d’Israele. Su di un altro versante Donald Trump ha trascorso il primo giorno da presidente litigando con i media. Come faceva durante la campagna elettorale. Motivo: hanno detto che alla sua Inauguration sono venute poche persone, meno che a quella di Obama. Secondo Pierluigi Battista, è molto pericoloso, e controproducente, questo continuo, reiterato, e anche insensato stabilire una connessione tra la vittoria di Donald Trump e dei cosiddetti «populisti» d’Europa con quella del nazismo. Agitare il fantasma di Hitler per segnalare deliberatamente una deriva trumpiana verso il totalitarismo nazista è insieme una follia polemica, un’esagerazione retorica, una stupidaggine storica e un favore colossale ai nazisti veri.
Economia e finanza
Trattativa con la Ue. La flessibilità c’è stata, le riforme meno. Negli ultimi due anni l’Italia ha ottenuto da Bruxelles lo 0,5% del PII di deviazione rispetto agli impegni chiesti. Avrebbe, però, dovuto portare a termine una serie di interventi per cambiare volto al Paese. II programma nazionale di riforma 2016, invece, è stato attuato solo in parte. Giustizia, concorrenza, fisco aspettano ancora i cambiamenti. In porto, invece, la riforma della Pa, della Buona scuola, del Jobs act e gli interventi di revisione della spesa. Dai 18,8 miliardi di flessibilità per riforme, investimenti, migranti e sicurezza concessi nel 2015-2016 alla richiesta di una correzione da 3,4 miliardi sui conti del 2017. Nel passaggio dal governo Renzi al governo Gentiloni, Bruxelles ha cambiato linea nei confronti del nostro Paese? In realtà, la Commissione europea sta cercando a fatica una sintesi tra spinte politiche divergenti in Europa. Spinte che si manifestano in un anno che si inaugura con l’era Trump e che, passando dalle elezioni in Francia e Olanda, si chiuderà con il voto in Germania in autunno. Pesa l’incertezza sull’esito delle trattative sulla Brexit, e anche sulla durata del governo Gentiloni è arduo scommettere. Ecco allora che si torna a brandire l’arma del rigore, senza peraltro che sia chiara la rotta. Si oscilla – lo ha detto senza mezzi termini lo stesso Gentiloni – tra «una flessibilità a corrente alternata», troppo rigida sui decimali di deficit e ampia sulle politiche per i migranti.
Fisco, inflazione ed investimenti. Il decreto fiscale d’autunno e la legge di Bilancio hanno ulteriormente aumentato il coefficiente di difficoltà degli obblighi fiscali. Comunicazioni Iva, tassazione per cassa, rottamazione delle cartelle, Iri e ricadute fiscali dei nuovi bilanci sono solo alcune delle novità che presentano problemi applicativi tali da condizionarne il debutto. Tanto da aver innescato lo sciopero annunciato dai commercialisti per fine febbraio. Un’accelerazione a due cifre per le richieste di mutuo e la discreta ripresa delle domande di credito delle famiglie sono gli effetti della congiuntura che incoraggia le famiglie a varare progetti per l’acquisto di beni e servizi, ritornando a pensare all’abitazione e a rinegoziare il debito. Così nel 2016, tra nuovi mutui e surroghe, le richieste hanno visto un aumento di poco superiore al 13%, andando a consolidare un trend di crescita iniziato l’anno prima, supportato dai migliori prezzi d’acquisto degli immobili e dai tassi d’interesse giudicati accessibili dalle famiglie. In aumento (+7,4%) anche le istruttorie formali per i prestiti. È quanto rivela l’analisi del sistema informativo Eurisc, II sistema di informazioni creditizie di Crif, con oltre 80 milioni di posizioni. Per quanto riguarda la propensione delle famiglie al risparmio, le paure bancarie di fine 2016 hanno accentuato la tendenza all’accumulo finanziario, già tipica del Dna italiano: 83 miliardi di euro l’anno scorso hanno ingrossato i conti correnti nelle banche nazionali. Malgrado il tasso offerto dagli istituti sia ai minimi storici: uno striminzito 0,09% sulle giacenze libere. Eppure milioni di cittadini, imprese e le stesse banche seguitano a non immettere il denaro nel circuito produttivo.