Politica interna
Il raid razzista scuote l’Italia. Si mette un tricolore sulle spalle e grida «viva l’Italia», dopo aver coperto di vergogna patria e bandiera. Poi fa il saluto fascista e si inginocchia davanti ai carabinieri che lo arrestano. È mezzogiorno e quaranta, e a Macerata finisce questa mattinata che sembra Charlottesville o qualche altro angolo d’inferno spalancato dai suprematisti nelle terre del Ku Klux Klan. Finisce come in un rito certo pensato e farneticato persino nella toponomastica, sulle scale del Monumento ai Caduti, in piazza della Vittoria. C’è chi faticherà a chiamarlo terrorismo, ma di sicuro è terrore, ed è terrore bianco. Due ore zigzagando per le stradine del centro sulla sua Alfa 147, inseguito dai carabinieri, sparando almeno nove volte dal finestrino contro i neri sui marciapiedi, vestito come un nipote di Rambo, pelato come uno skinhead, palestrato e tosi pieno d’odio da essere cacciato perfino dalla sua palestra, una cupa caricatura se non si lasciasse dietro sei feriti di cui uno grave, cinque ragazzi e una donna, tutti immigrati dall’Africa profonda, Mali, Nigeria, Ghana, Gambia, bersagli con una colpa comune: il colore della pelle. Salvini ribatte alle accuse di alimentare il razzismo: «Se c’è qualcuno che ha colpa è il governo che ha fatto entrare centinaia di migliaia di clandestini senza alcun controllo. L’immigrazione se non è gestita porta al caos, alla rabbia e allo scontro sociale. Lo ripetiamo da anni. Io fino al 5 marzo non sono nemmeno al governo. Non vedo l’ora di andarci per riportare sicurezza in Italia. Detto questo chiunque spari è un delinquente, qualunque sia il suo colore». Antonio Polito scrive sul Corriere della Sera: “Sappiamo benissimo che la felpa di Salvini non è l’orbace, ma il leader leghista deve sapere altrettanto bene che per lui non ci potrà mai essere nessuno spazio al governo di una grande nazione europea finché rimarrà la benché minima ambiguità sul tema del razzismo, nel suo movimento e in chi ci gira intomo”. E Massimo Gianni, su Repubblica sottolinea che “stavolta nessuno può parlare di una “ragazzata goliardica”, come sempre fanno gli apprendisti stregoni del nuovo razzismo di Palazzo e gli opinionisti alle vongole che sdottoreggiano nei salotti televisivi. Questo è “terrorismo razziale”, punto e basta”.
M5S, epurati in rivolta. Quindici giorni dopo la pubblicazione delle liste i 5 Stelle forniscono anche i risultati delle parlamentarle che le hanno determinate. Superate le “questioni di privacy” opposte solo ieri l’altro da Davide Casaleggio, ecco i numeri della competizione sul web che ha coinvolto circa 40 mila iscritti. Le primatiste sono Paola Taverna e Carla Ruocco, che nei grandi collegi laziali prendono per la Camera e per il Senato rispettivamente 2136 e 1691 voti mentre il candidato premier Luigi Di Maio finisce terzo su scala nazionale, racimolando 490 voti nella sua circoscrizione napoletana che contava oltre 2 mila militanti (con la possibilità per ciascun elettore di esprimere tre preferenze). Fra gli esterni, il presidente Abusdef Elio Lannutti con 405 clic batte il giornalista Gianluigi Paragone (300) e il comandante Gregorio De Falco, l’anti-Schettino, a quota 262. E c’è chi, come Antonino Lesina Calà (in corsa nella circoscrizione Nord e Centro America), ottiene un posto in lista grazie al colpo di mouse di soli nove attivisti. Ma è un verdetto finalmente ufficiale che non placa le polemiche. La pubblicazione on line dell’esito delle parlamentarie arriva nelle stesse ore in cui, da Palermo, di Maio ufficializza il “passo indietro” di Emanuele Dessì, che con 144 voti alle parlamentarie aveva conquistato una candidatura in posizione eleggibile nel Lazio. «Ho sentito Dessì e mi ha detto che rinuncia», afferma l’aspirante premier parlando dell’attivista amico degli Spada che vive in una casa popolare pagando un canone da sette euro al mese. Di Maio non chiarisce in cosa consista la rinuncia a liste già depositate e Dessi annuncia di aver depositato dal notaio l’impegno a dimettersi una volta eletto. Intanto esplode il nuovo caso del candidato M5S alla Camera in Veneto Raphael Raduzzi, che su Facebook sfoggia una cartolina filonazista come immagine di copertina del suo profilo. Una chioccia, bianca e sorridente, mostra sul petto la scritta «notre mère l’Europe» (L’Europa, nostra madre).
Politica estera
Erdogan a Roma. C’è tutta la prorompenza del personaggio, e della Turchia di oggi, nello sbarco romano stasera di Recep Tayyip Erdogan. Una visita chiesta per telefono al Pontefice cattolico con il quale, pure, di recente erano volate parole forti quando il Papa aveva per la prima volta pronunciato in pubblico il termine «genocidio armeno». Incontro perciò inatteso, quasi improvviso. Ma la decisione americana di spostare l’ambasciata a Gerusalemme quale capitale di Israele ha mosso il Sultano che in modo fulmineo e da politico abile qual è, ha intravisto un nuovo fronte dove compattare dietro di sé l’intero mondo musulmano. E il Pontefice, uomo del dialogo, può ascoltarlo e forse anche spendersi in Occidente per riequilibrare il caso Gerusalemme (nel comunicato turco, chiamata con il nome arabo di Al Quds). La visita di Erdogan è criticata dall’opposizione curda e armena. «L’esercito e l’aviazione turca stanno seguendo un metodo sistematico: stanno bombardando i nostri villaggi, le case, stanno mettendo nel mirino i civili. Nel cantone di Afrin stanno operando una pulizia etnica di tutti noi curdi con uno scopo: ripulire la zona dalla popolazione prima ancora che dai nostri combattenti. Per questo ci aspettiamo che Papa Francesco parli chiaramente al presidente turco Erdogan. Gli dica che lo sterminio della popolazione curda deve cessare!» dice Asia Abdullah co-presidente del Movimento per una società democratica, che è la coalizione politica che coordina i diversi partiti curdi, un partito armeno, uno yazida e uno arabo.
Trump rivede la dottrina nucleare Missili con mini testate sui sottomarini. Nuova spallata di Donald Trump alla architettura dottrinale di Barack Obama. E questa volta a finire nel tritacarne del 45 presidente americano è la politica militare in fatto di arsenali nucleari. Con la «Revisione della Posizione Nucleare» («Nuclear Posture Review»), la prima dal 2010, il Pentagono ha illustrato come si prepara a fronteggiare le minacce atomiche nei prossimi decenni. L’obiettivo della Difesa Usa è non solo contrastare i pericoli che arrivano dalla Corea del Nord, ma anche avere un deterrente in più verso Russia e Cina. Due Paesi che, nell’ambito della dottrina Trump, vengono esplicitamente considerati come una potenziale minaccia, al pari dell’Iran. A levare i veli alla nuova strategia sono i vertici del Pentagono, al termine di una puntuale revisione del Nuclear Plan varato nel 2010 da Barack Obama. E la risposta di Mosca, che si dice «profondamente delusa», non si è fatta attendere: «Siamo pronti a reagire di fronte all’impressionante grado di ostilità e all’orientamento anti-russo di questo documento». Clima da Guerra fredda che comporta un rischio di escalation, con il Cremlino che minaccia a sua volta l’adozione di «tutte le misure necessarie per garantire la sicurezza dalla Russia». Riarmo non significa più testate ma più denaro, più tecnologia e più strategie sull’uso di ciò che esiste. Sono 19.500 le testate nel mondo, il 93% delle quali quasi equamente divise fra americani e russi. Dal culmine della Guerra fredda, questi ultimi hanno ridotto dell’85% i loro arsenali nei quali tuttavia ancora esistono 1550 testate attive per ciascuno, la gran parte delle quali caricate su missili balistici intercontinentali e con la potenza di distruggere l’intera area metropolitana di New York o di Mosca L’idea di Trump sarebbe di ridurre la potenza di alcune per renderle utilizzabili.
Economia e finanza
Flop anagrafe e certificati. L’agenda digitale al palo «Sull’agenda digitale l’l’Italia ha cambiato passo, ma deve fare di più», certifica l’ultimo rapporto dell’Osservatorio School of management del Politecnico di Milano. II nostro Paese, infatti, nonostante gli sforzi fatti negli ultimi anni, è ancora lontano dal resto d’Europa. Impietosi i dati elaborati dalla Commissione europea che ci collocano al 25esimo posto su 28 paesi in quanto a innovazione digitale. Anche per il Polimi, che utilizza un ventaglio più ampio di parametri (ben 188), siamo 25esimi su 28 paesi per gli sforzi fatti nell’attuazione dell’agenda digitale e 24esimi per risultati raggiunti. Non solo siamo in ritardo, ma secondo l’ultimo rapporto della Commissione parlamentare di inchiesta sul livello di digitalizzazione della nostra Pa e sugli investimenti in nuove tecnologie, scontiamo anche il fortissimo deficit di competenze tecniche dei dirigenti pubblici, fatto che rende particolarmente squilibrato il rapporto coi fornitori. Nei contratti manca «ciò che sarebbe ragionevole attendersi», col risultato che i 5,6 miliardi spesi dalla Pa tra il 2013 ed il 2015 non sempre sono stati investiti nel modo migliore. «Siamo in ritardo perché abbiamo cominciato tardi», ammette Stefano Quintarelli, presidente del Comitato di indirizzo dell’Agenzia Italia digitale. Ma la rivoluzione, assicura, è dietro l’angolo: «Quando tutte le pubbliche amministrazioni saranno in grado di mettere a disposizione dati vivi attraverso apposite interfacce, le cosiddette Api (Application programming interfaces), potranno entrare in campo anche soggetti privati e offrire servizi in più, in tempi più rapidi e seguendo l’evoluzione delle tecnologie».
Grandi opere: pagamenti in ritardo e pochi lavori. Potrebbe essere uno dei settori più trainanti del Paese. Migliaia di posti di lavoro, tra diretti e indotto. Potrebbe contribuire all’innalzamento del Prodotto interno lordo. Oltre a spingere lo sviluppo economico, migliorare la qualità della vita di ognuno e rendere il Paese più moderno. Invece le grandi opere in Italia sono ferme. Da anni gli investimenti sono pochissimi o quasi nulli (dal 2000 meno del 2% del Pil). E nessun grande progetto si intravede all’orizzonte. Eppure le aziende italiane hanno un know how tra i migliori del mondo, riconosciuto e richiesto ovunque. Tranne che in Italia. «E un settore abbandonato, che sta scomparendo», denunciano gli addetti ai lavori. Una crisi che colpisce tutti, big inclusi. E di appena qualche settimana fa la richiesta di concordato preventivo della Condotte spa che ha debiti per quasi due miliardi di euro a fronte di un patrimonio di 214 milioni di euro. Situazione difficile anche per il gruppo Astaldi che sta valutando una ricapitalizzazione di almeno 400milioni di euro; in Borsa ne vale 280. E pure Trevi spa cerca nuovi capitali per far fronte ad un indebitamento di almeno 600 milioni di euro. Le cause? La mancanza di una seria programmazione di interventi, prima di tutto. Alberto Bombassei sottolinea sul Sole 24 Ore che “esiste uno scollamento tra il tessuto sociale del Paese e il mondo della produzione. Troppo spesso l’industria ha dovuto camminare su terreni impervi senza un sostegno adeguato di regole, senza percorsi capaci formare i giovani e accompagnarli nel mondo del lavoro, di fornire alle imprese un sostegno concreto nella ricerca applicata”.