Politica interna
Lo ius soli cade in Senato: manca il numero legale. Termina la corsa dello ius soli in questa legislatura. Non sono bastate le promesse “solenni” del governo, le rassicurazioni della maggioranza, i digiuni a staffetta di politici e esponenti della società civile e tantomeno la spinta degli ottocentomila potenziali nuovi italiani che sono già qui, in mezzo a noi, ma per la legge restano invisibili, cittadini di serie B. Lo lus soli è saltato, come ormai era chiaro da settimane, e nel modo peggiore: un’aula semideserta, un finale sciatto e oltraggioso per una legge di grande portata la cui mancata approvazione rimarrà una macchia in una legislatura che pure ha segnato passi avanti sul fronte dei diritti. Assenti all’appello tutti i 35 senatori M5S, quelli di Gal, Ala e Lega, quasi tutta Forza Italia, 29 senatori Pd e 3 di Mdp. Un finale amaro, per chi ci credeva, ma in larga parte prevedibile. Tra i favorevoli alla legge per la cittadinanza c’erano Pd e sinistra. Ma anche il Pd è finito sul banco degli imputati, accusato da sinistra di aver perso tempo e di non averci creduto davvero. Che i numeri in Senato non ci fossero, era noto a tutti. Lo aveva spiegato anche Luigi Zanda, presidente dei dem, mentre chiedeva al governo di porre la fiducia. Il tentativo finale è così naufragato, per la gioia di Calderoli: «Colpito e affondato. Morto e sepolto. Per me è una grande vittoria, perché sono stato io in questi due anni e mezzo, con le mie decine di migliaia di emendamenti a bloccare in Commissione e poi in Aula questa assurda e inutile proposta di legge».
Corridoi umanitari, la strada che apre agli ingressi legali. Sono arrivati che era già buio, a bordo di due C130 dell’aeronautica militare, accolti dal ministro dell’Interno Marco Minniti e dal presidente della Cei Gualtiero Bassetta. Donne. anziani, bambini, in tutto 162 migranti provenienti dai centri di detenzione in Libia e che l’Italia ha accolto due giorni fa inaugurando il primo “corridoio umanitario” nel nostro paese per rifugiati in condizioni di vulnerabilità. I corridoi umanitari sono uno strumento attraverso il quale persone in fuga dai loro paesi, rifugiate nei campi profighi o trattenute nei centri di detenzione temporanea, possono essere trasferite legalmente in paesi terzi con lo status di rifugiati ed essere assistiti e integrati. I 162 migranti africani arrivati due giorni fa dalla Libia in Italia, grazie ad un accordo tra governo italiano, Libia, Unhcr e la Conferenza Episcopale, saranno adesso inseriti nel sistema “Spray” e gestiti dalla rete di accoglienza della Get. Sono migranti dei quali viene accertata dall’Unhcr la condizione di rifugiati. Non si tratta cioè di migranti economici. ma di persone che secondo gli accordi internazionali, arrivano nei paesi che li accolgono già con uno status definito e dunque con il diritto di poter accedere a sostegni economici e percorsi di integrazione. II ministro dell’Interno, Marco Minniti ha affermato: «Sei mesi fa, quando l’Italia ha visto approdare in un solo giorno 26 navi cariche di migranti, nessuno ci avrebbe creduto. Invece, dopo aver contenuto i flussi, abbiamo messo in piedi il primo corridoio umanitario della storia, dalla Libia a un Paese europeo. Nel 2018 fino a 10mila profughi potranno raggiungere senza rischi l’Europa attraverso corridoi umanitari, mentre stando agli obiettivi dell’Oim 30mila saranno i migranti senza diritto all’asilo che potranno tornare a casa con rimpatri volontari. Con la cooperazione delle autorità libiche, abbiamo costruito un nuovo modello di gestione dall’altra parte del Mediterraneo».
Politica estera
La Commissione Ue apre al piano Prodi: “Cambiare per fermare i nazionalismi”. «Continuare così come oggi non funziona». Frans Timmermans, primo vicepresidente della Commissione europea, ha appena finito di leggere il piano sociale con cui Romano Prodi propone di rimettere l’Unione in carreggiata, una strategia da 150 miliardi di euro che investa in salute, istruzione e infrastrutture. «L’Europa ha bisogno di progetti ambiziosi e realistici», dice, perché, così com’è, «non sarà mai in grado di affrontare le sfide della globalizzazione». Prodi, assicura, «ci dà delle idee da sviluppare e su cui lavorare. Se non ci diamo la capacità di agire per convincere i cittadini che siamo capaci di far fronte alle sfide insieme, di dare la protezione e l’ottimismo che ci mancano oggi, saranno i vari nazionalismi ad affermarsi po’ dappertutto». Niente progresso, dunque. Anzi. Il numero due di Jean-Claude Juncker ritiene che non solo l’Europa senza riforme non saprà muoversi degnamente sullo scacchiere internazionale, ma prevede che possa finire per essere «in conflitto con se stessa». Bocciatura secca invece quella di Daniel Gros, economista tedesco a capo del Centre for European Policy Studies di Bruxelles: «Sono molto d’accordo sulla necessità di aumentare l’investimento sociale. Non sono d’accordo che debba essere l’Europa a occuparsene». Anche perché «se un Comune ha bisogno di soldi, oggi i finanziamenti sul mercato ci sono. Non c’è bisogno di un social bond europeo».
La questione catalana. Le notizie economiche arrivate da Barcellona dopo il referendum del 1 ottobre sull’indipendenza catalana sono tutte cattive. Tremila imprese, comprendendo le banche locali, hanno trasferito la loro sede fuori dalla Catalogna e gli investimenti esteri sono crollati verticalmente. Molti osservatori pensavano quindi che le elezioni di giovedi scorso avrebbero segnato una flessione nel voto degli indipendentisti rispetto al referendum e avrebbero con questo facilitato il dialogo fra Barcellona e Madrid. Le cose sono andate diversamente: i catalani non hanno votato col portafoglio ma col cuore, avendo ben presente che il cuore può essere non solo sede dell’amore ma anche dell’odio. Le elezioni hanno perciò confermato i rapporti di forza del passato: gli indipendentisti escono con una grande forza in termini di voti (47,5%) e con la maggioranza di seggi nel parlamento regionale (70 su 135), anche per effetto di una legge elettorale che premia l’elettorato rurale nei confronti di quello di Barcellona. In Spagna tutti sanno che né l’unilateralismo indipendentista né la strenua difesa dello status quo possono portare risultati. Se i principali attori in scena non cambieranno copione, la questione catalana non farà che incancrenirsi, finendo per danneggiare oltre il tollerabile la pacifica convivenza, a Barcellona e nel resto del Paese. Il problema è che, fino ad ora, i due fronti contrapposti hanno tratto vantaggio dal muro-contro-muro. E tutto lascia pensare che così continuerà ad essere, salvo che qualcuno, nei rispettivi blocchi, osi l’inaudito: dare ragione alle terze forze, quelle che da tempo propongono la soluzione federale.
Economia e Finanza
Statali, contratto in extremis. In busta paga 85 euro medi. Dopo otto anni di attesa e una sentenza della Corte costituzionale che aveva bocciato il blocco deciso nel 2010 dal governo Berlusconi, è stato firmato il nuovo contratto degli statali. Non riguarda tutti i dipendenti pubblici, che sono circa 3 milioni. Ma solo i 250mila che fanno parte delle cosiddette funzioni centrali, come i ministeri. Gli altri devono aspettare ancora. Il vero nodo da sciogliere erano i soldi. L’aumento sullo stipendio base sarà compreso fra i 63 e 117 euro lordi al mese. Per una media di 85 euro, come da impegni presi dal governo Renzi con i sindacati, pochi giorni prima del referendum di un anno fa. Previsto un meccanismo per evitare che, proprio a causa degli aumenti in busta paga, qualcuno possa perdere il bonus da 80 euro, garantito solo al di sotto di una certa soglia di reddito. E’ soddisfatta la segretaria della Cisl Annamaria Furlan dopo la firma dell’accordo: «Abbiamo chiuso un buon accordo, importantissimo e innovativo. Adesso serve proseguire sulla strada del confronto e della contrattazione. Mi auguro che il prossimo governo possa continuare questo lavoro che in un anno ci ha permesso di portare a casa tanti buoni risultati».
Lo sprint finale sulle misure. «L’Italia merita fiducia». Annuncia così il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, via Twitter, il via libera definitivo alla legge di Bilancio approvata ieri in Senato con 140 voti favorevoli e 97 contrari. Una manovra che arriva poco prima di Natale, in accelerazione per la fine della legislatura e le imminenti elezioni con lo scioglimento delle Camere prima di Capodanno. Il governo ha incassato la fiducia del Senato, l’ultima della legislatura, poi è arrivato il voto effettivo sul testo che ora, dopo la pubblicazione in Gazzetta ufficiale, sarà legge. Come di consueto, quello che era stato annunciato dal governo come un provvedimento «snello», è stato preso d’assalto nel corso dell’iter parlamentare dove è lievitato fino ad arrivare a un valore di 27 miliardi lordi, circa 21 netti. Di questi 5,5 sono quelli destinati alla crescita mentre la quota più consistente è stata assorbita dalla sterilizzazione delle clausole di salvaguardia che da sole valgono 15,7 miliardi. Nella legge di Bilancio ci sono misure che toccano quasi tutte le fasi della vita. Si parte con il bonus bebè, si prosegue con gli incentivi per l’assunzione dei giovani, considerati tali fino a 35 anni. Poi ci sono le nuove regole sugli sconti sulle tasse per chi ha i figli a carico, i ragazzi a basso reddito che magari hanno appena iniziato a lavorare. E ancora il reddito di inclusione per le famiglie in difficoltà. Oppure il fondo per i caregivers, le persone che si prendono cura a tempo di un parente anziano o infermo, anche se mancano le regole per distribuire quei soldi. Fino alle regole più generose per l’Ape social, il meccanismo che consente di andare in pensione prima del previsto senza per questo subire una riduzione dell’assegno Inps.