Politica interna
Cyberspionaggio su Renzi e Draghi. Nella rete anche Monti, Ravasi e l’ex capo della Guardia di Finanza. Il gip: sicurezza nazionale a rischio. È diviso in «cartelle» l’immenso archivio segreto di Giulio Occhionero, l’ingegnere nucleare che per almeno cinque anni ha spiato le più alte istituzioni italiane: politici, massoni, affari. E contiene migliaia di documenti e email con nomi e fatti riguardanti la vita pubblica e privata delle vittime. Era perfetto il «malware» – dispositivo di intrusione informatica – utilizzato, perché gli consentiva di «ricevere regolarmente sul proprio personal computer tutti i dati carpiti dai computer delle vittime, inviandoli poi a un server» da lui stesso creato. Compreso l’account personale di Matteo Renzi, grazie al quale sono entrati nel suo cellulare. Ed è questo a rendere inquietante l’intera vicenda. La «falla» nel sistema e la sicurezza nazionale. Perché per almeno due anni Occhionero e sua sorella hanno potuto leggere e copiare le comunicazioni riservate del presidente del Consiglio, senza che scattasse alcun allarme. E negli ultimi quattro anni hanno captato i file dei vertici di forze dell’ordine, servizi segreti, Bankitalia, di parlamentari e manager di Stato senza che nessuno se ne accorgesse. Una «falla» nel sistema, una «alterazione, con grave rischio per la sicurezza nazionale, visto che si tratta di spionaggio politico e militare», come specifica il giudice. E adesso si sta cercando di scoprire la «rete» che ha utilizzato queste notizie segrete, mandanti e referenti di una raccolta di dati «sensibili» che in Italia non ha precedenti. Cyberspionaggio sconfitto da indagini tradizionali: ebbene sì, può sembrare paradossale – anzi,lo è decisamente – eppure nell’inchiesta della Procura di Roma contro la centrale di spionaggio informatico ai danni dipolitici, istituzioni, imprenditori, smantellata dalla Polizia postale, è andata proprio così. Nessun virus intrusivo è stato usato dagli investigatori, ma soltanto i tradizionali strumenti di indagine, come intercettazioni telefoniche e telematiche. E un’efficace cooperazione internazionale di polizia. E stata, beninteso, una precisa strategia investigativa di fronte a un’attività «degna di un servizio segreto straniero», che sarebbe stata sicuramente in grado di riconoscere agenti intrusori esterni in dotazione alle Forze dell’ordine. Resta il fatto, però, che quegli agenti intrusori (come i Trojan) non si sarebbero potuti neppure utilizzare se il Parlamento avesse già approvato in via definitiva la riforma del processo penale, che ne limita il ricorso da parte dei magistrati soltanto per i reati più gravi di mafia e di terrorismo. Al paradosso, quindi, si aggiunge un altro paradosso.
Grillo con Farage Tre eurodeputati pronti a lasciare. Ancora insieme, raccogliendo i cocci. I Cinque Stelle continueranno a far parte del gruppo Efdd al Parlamento europeo. Una giornata convulsa, quella dei pentastellati, che non comincia sotto i migliori auspici. A Bruxelles la riunione degli eurodeputati M5S si trasforma in un confronto più che acceso. Volano accuse, prese di posizione. I malumori sono altissimi, si rincorrono voci di strappi clamorosi. Tre parlamentari del Movimento – tra cui Dario Tamburrano che su Facebook scrive un post durissimo – minacciano un possibile addio (con lo scoglio della penale da 250mila euro prevista dal codice di comportamento). Il triumvirato che in questi ultimi mesi ha deciso la linea, quello composto da David Borrelli, Fabio Massimo Castaldo e Laura Ferrara viene preso d’assalto. Nel mirino c’è soprattutto Borrelli (assente alla riunione), l’uomo della trattativa con Alde, il braccio destro di Davide Casaleggio (finito anche lui sulla graticola dei falchi) a Bruxelles. I deputati chiedono che non sia più lui a dettare linea e condizioni, vogliono un ridimensionamento. Qualcuno (anche tra gli attivisti sui social) medita addirittura di chiedere le dimissioni o il recall, ossia la possibilità su richiesta della base di sostituire un deputato. Nel gioco degli equilibri interni salgono le quotazioni di Piemicola Pedicini, ma è soprattutto il plenipotenziario di Grillo in Europa, Filippo Pittarello, il capo del personale, che pare beneficiare della vicenda. Parallelamente in mattinata si svolgono trattative con lo Ukip per evitare di finire nel gruppo dei non iscritti e diventare irrilevanti in Europa. E non è un caso che sia proprio il nucleo guidato da Pittarello e Cristina Belotti (ex dipendente della Casaleggio associati, da anni a Bruxelles, etichettata dal blog come capo della comunicazione europea) quello a cui tocca presenziare nel summit via Skype con gli inglesi e i vertici del Movimento. E chissà come andrà a finire con Nigel Farage, che a quanto pare riprenderà il M5s nel gruppo Ukip al Parlamento europeo, “ma solo dopo aver rinegoziato la loro posizione”, perché finora tutti i politici tradizionali che si sono cimentati nella trattativa politica con Beppe Grillo pensando di saperla più lunga di lui, o persino di poterlo utilizzare per i propri scopi, sono rimasti stritolati. Infatti se Grillo pasticcia a Bruxelles e non riesce a far entrare il M5s nel gruppo dei liberali, gli basta urlare “complotto”, “è l’establishment”, dice “vaffanculo” e questo spiega ogni cosa. Il discorso protestatario di Grillo, imperniato sulla continua denigrazione dello status quo, su richiami a valori prevalentemente procedurali (democrazia diretta) o comportamentali (onestà, trasparenza) ha in effetti conquistato quote crescenti di elettori alienati dalla politica, soprattutto giovani. Ma alle prime prove importanti di governo (Roma) e di coalizione con altri partiti (Parlamento europeo) è subito cascato l’asino. L’ambiguità ideologica e l’improvvisazione programmatica si sono rivelate un grande handicap.
Politica estera
Gentiloni da Hollande, asse sulla crescita Apertura a Mosca. In cima alla scalinata dell’Eliseo François Hollande osserva il nuovo capo del governo italiano, Paolo Gentiloni, che sale verso di lui: una scena rituale che però nel caso dei capi di governo italiani assume una coloritura particolare. Hollande sta infatti per concludere il suo mandato, ma in cinque anni ha già visto salire quegli scalini da quattro presidenti del Consiglio diversi. L’ultimo di loro, Paolo Gentiloni, ha voluto iniziare il suo tour europeo di «accreditamento» nelle quattro capitali più importanti – Berlino, Londra, Madrid e Parigi – proprio dalla Francia. E Hollande, ormai politicamente «scarico» dopo l’annuncio di non volersi ripresentare, ci ha tenuto ad «apprezzare» questa scelta. L’incontro a due è un segno di rispetto nei confronti del presidente del Consiglio italiano, anche perché Hollande da fine aprile tornerà ad essere un comune cittadino e non può assumere impegni stringenti. Ma su alcuni dossier strategici l’approccio francese è destinato a restare sostanzialmente invariato, chiunque sia l’inquilino dell’Eliseo. Dare un nuovo impulso all’Europa, orientandola sempre più verso «il lavoro, la crescita, lo sviluppo». È questo l’impegno comune che si sono assunti il presidente francese François Hollande e il capo del Governo italiano Paolo Gentiloni. «A marzo – ha detto Hollande al termine dell’incontro – saremo in Italia per il 60 anniversario dei Trattati di Roma. Dobbiamo cogliere questa occasione per trasformarla in un momento importante, una nuova tappa, della costruzione dell’Europa. Un’Europa a tre dimensioni: quella della sicurezza delle frontiere e di una corretta gestione dei flussi migratori, con l’umanità necessaria nei confronti di chi ha diritto a chiedere asilo e l’altrettanto necessaria fermezza rispetto a chi questo diritto non lo ha; quella della difesa, per costruire un sistema europeo più efficiente, efficace e coordinato, soprattutto nel campo dell’intelligence; quella della crescita e dell’occupazione». «Francia e Italia – ha detto Gentiloni raccogliendo il testimone – sono impegnate a rilanciare l’Europa in una delle fasi più difficili, dopo la Brexit e il disordine nella regione. Il capitolo più importante è senz’altro quello della crescita e del lavoro. Non esiste un futuro all’altezza della sua tradizione per un’Unione europea ossessionata dalle regole di bilancio e non invece concentrata su lavoro, crescita e sviluppo». Ringraziando Hollande per il «sostegno all’Italia nella presidenza di turno del G-7», il premier italiano ha spiegato che «in quel ruolo cercheremo di mettere sul binario giusto i rapporti con la Russia, fermi nei nostri princìpi, leali con i nostri alleati e non disponibili al rilancio di logiche da guerra fredda». Parole che Mosca ha mostrato di apprezzare.
L’arrivederci di Obama: guiderà l’opposizione. Non dimenticheremo Barack Obama. E non solo perché i suoi otto anni si concludono con un bilancio controverso ma importante, un consenso insolitamente alto, una popolarità e un affetto straordinari, testimoniati dal commovente addio della sua Chicago. Alle tante ragioni che rendono storica la sua presidenza, se n’è aggiunta un’altra Donald Trump “costringe” il suo predecessore a non ritirarsi completamente. Obama è obbligato dagli eventi ad avere una seconda vita politica, come guida dell’opposizione, cosa che non accadde a quasi nessuno dei suoi predecessori (con l’eccezione di Ted Roosevelt, oltre un secolo fa). Dal suo quartiere di Chicago, dove persino la poltrona del barbiere abituale è diventata un pezzo da museo, Barack Obama pronuncia il suo ultimo discorso da presidente. Un bilancio combattivo e, nello stesso tempo, secondo le anticipazioni diffuse nella giornata di ieri, uno schema programmatico per il futuro del partito democratico. Tra le parole più ricorrenti: «speranza», «impegno», «giovani», «eguaglianza». Obama arriva al traguardo con un tasso di «approvazione popolare» pari al 58% dietro solo a Bill Clinton (61%) e a Ronald Reagan (63%). Il miliardario newyorkese, invece, entra nello Studio Ovale, dopo aver preso complessivamente 2,2 milioni di voti meno di Hillary Clinton e al cospetto di una parte del Paese apertamente ostile. Obama, in prima battuta, si rivolge proprio a questi cittadini delusi, inquieti, depressi. La storia degli Stati Uniti d’America, dice, si sviluppa su orizzonti ampi: è un lungo cammino che offre sempre opportunità di miglioramenti, di cambiamenti, di «speranza», appunto. Il presidente non rinuncia al confronto a distanza con Trump. Lo fa, però, appellandosi ai «valori» fondanti dell’America, non all’attualità politica. Insiste sulla «diversità» di origini, di fede, di opinioni: è questo che rende speciale la democrazia più forte del mondo. Il discorso di commiato di Barack Obama è stato ben più di un’occasione cerimoniale. «La mia carriera è stata guidata dalla nozione che quando la gente comune è coinvolta, partecipa, si unisce in uno sforzo collettivo, le cose cambiano per il meglio», ha detto prima ancora di salire sul palco in un tripudio di folla, alle nove di sera americane. A redigere l’intervento ha lavorato fino all’ultimo, tanto delicato e difficile era trovare i toni e l’equilibrio. Perché è stato un discorso che ha voluto difendere un’eredità politica e personale profonda rivolto non soltanto all’altra America, che non ha votato Trump, ma a tuttigli americani, chiunque avessero scelto. Con l’aspirazione di risanare ferite e spaccature lasciate dal successo di Trump, che ha vinto la Casa Bianca e perso il voto popolare. Ma offrendo allo stesso tempo un orizzonte ideale progressista e aperto, facendo leva su abilità oratoria, autorevolezza intellettuale e popolarità nonostante la cocente sconfitta del suo partito democratico alle urne.
Economia e Finanza
Piano Mps, pronto il decreto sulle garanzie per la liquidità. II ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, è pronto a firmare il decreto che concede la garanzia dello Stato alle nuove emissioni del Monte dei Paschi di Siena tese a ricostituire la liquidità, che si è decisamente ridotta, fino a scendere a circa 7 miliardi di euro a fine anno, nelle more dell’aumento di capitale sul mercato, poi fallito. Il provvedimento potrebbe arrivare già entro la settimana, mentre giovedì 19 gennaio si riunirà il consiglio di amministrazione della banca senese per dare il via alla prima emissione obbligazionaria. Governo e Monte dei Paschi, quindi, stringono i tempi sul «piano B». Ad aprire ufficialmente le danze sul terreno reso disponibile dal decreto di Natale, che ora sta avviando il proprio iter in Senato, è stato ieri l’incontro all’Economia fra il ministro Pier Carlo Padoan nei vertici della banca, l’ad Marco Morelli e il presidente Alessandro Falciai. La road map prevede la prima tappa operativa in settimana, quando dovrebbe arrivare il decreto di Via XX Settembre che apre la garanzia pubblica sulle emissioni di liquidità: con il decreto in mano, Rocca Salimbeni potrà avviare dalla prossima settimana il programma di emissioni da 15 miliardi, con un primo bond da 1,5-2 miliardi. Anche sul piano industriale il calendario prova a essere rapido, e punta aportare i documenti a Bce e Commissione entro gennaio. Il presupposto è che non si parte da zero,ma dal piano presentato e approvato per tentare l’operazione di mercato, ora da correggere e integrare per adeguarlo al nuovo contesto che vede il Tesoro destinato a diventare temporaneamente il primo azionista di Siena. Proprio questo è uno degli aspetti più delicati che andranno discussi a Francoforte ma soprattutto a Bruxelles,cui spetta l’ultima parola sui tempi di permanenza dello Stato nel capitale: il Tesoro punterebbe a un limite massimo di 4-5 anni, possibile che la Commissione chieda di fare prima. L’ingresso dello Stato nel capitale del Monte dei Paschi di Siena è una faccenda molto europea perchè è la prima ricapitalizzazione precauzionale, un’eccezione consentita dalla direttiva Brrd entrata in vigore in Europa il primo gennaio 2016. Sebbene la nuova normativa europea sulla risoluzione e risanamento delle banche sia stata disegnata e intesa per risolvere “caso per caso”, in realtà il Monte è considerato un “caso di scuola”. Spetta ora all’Italia, infatti, tirare perla prima voltala linea di demarcazione – tutt’altro che ovvia-tra il bail-in che si applica per le banche in dissesto, e l’intervento finanziario straordinario pubblico consentito post burden sharing a sostegno di una banca in bonis che deve far fronte a una carenza di capitale emersa dopo una prova di stress: eccezione concessa solo per evitare o rimediare a una grave perturbazione dell’economia e per preservare la stabilità finanziaria. L’incontro ieri al Tesoro con i vertici del Montepaschi, dunque, è l’avvio di processo che verrà monitorato da vicino, tra i tanti, non solo dalle associazioni dei consumatori e dai partiti di protesta ma anche dalla comunità degli investitori istituzionali internazionali, alle prese con il “repricing”, la rimodulazione del rapporto tra rischio e rendimento dei senior bond e delle obbligazioni subordinate.
Art. 18, voucher e appalti, la Consulta decide. I referendum farebbero girare all’indietro le lancette della normativa sul rapporto di lavoro, ma anche della stessa fiducia degli imprenditori. E’successo con la sentenza sulla perequazione (“indicizzazione”) delle pensioni e poi ancora sulla questione dell’adeguamento delle retribuzioni dei pubblici dipendenti. Ma questa volta la posta in gioco è ancora più alta. I referendum propongono il ritorno al passato, che non è quello prossimo, ma quello remoto. Addirittura al tempo precedente lo Statuto dei lavoratori che è del 1970, laddove si propone di estendere l’applicazione della “reintegra” (sul posto di lavoro) del lavoratore licenziato in modo illegittimo, nelle imprese sopra i 5 addetti. Se passasse una ipotesi del genere il famoso “nanismo” delle imprese italiane che spesso viene indicato come una delle cause della scarsa crescita della produttività e del lento processo di innovazione, sarebbe ulteriormente incentivato. Le imprese non tenderebbero a rimanere sotto i 15 dipendenti come hanno cercato di fare fino a poco tempo fa, ma addirittura sotto i 5 dipendenti, per evitare il pericolo potenziale della “reintegra”. Sul piano giuridico, molto è stato detto a proposito della “ammissibilità” dei quesiti (che è appunto l’oggetto della sentenza della Corte). Sull’art. 18 in particolare si è espressa con valide motivazioni la Avvocatura dello Stato. E numerosi studiosi di diritto del lavoro ritengono che il metodo del “taglia e cuci” applicato dai proponenti del quesito sul testo delle norme attuali, sia di fatto la proposizione di una nuova norma e non più l’abrogazione della norma in vigore. E pertanto si tratterebbe di un referendum propositivo (non abrogativo) che non è previsto dall’attuale carta costituzionale. In mattinata la Corte costituzionale decide sulla legittimità dei tre quesiti referendari sul lavoro promossi dalla Cgil: un eventuale semaforo verde della Consulta aprirà la strada alle urne (tra aprile e giugno, se nel frattempo non verranno indette elezioni politiche anticipate), e il quesito, soggetto al voto popolare, passerebbe in caso di maggioranza dei voti favorevoli e superamento del quorum (partecipazione del 50% +1 degli aventi diritto). In punto di stretto diritto, i tre quesiti referendari oggi al vaglio dei giudici costituzionoli apporterebbero modifiche rilevanti al Jobs act, e più in generale all’attuale legislazione lavoristica. A cominciare da una vera e propria”rivoluzione” in materia di licenziamenti: attualmente, dal 7 marzo 2015, per gli assunti a tempo indeterminato, nella nuova veste del contratto a tutele crescenti, in caso di recesso ingiustificato da parte del datore di lavoro, è prevista, prevalentemente, una sanzione economica che cresce con l’anzianità di servizio, e varia da un minimo di quattro fino a un massimo di 24 mensilità. Per i “vecchi assunti”, cioè dipendenti a tempo indeterminato prima del 7 marzo 2015, è, invece, in vigore la disciplina dell’articolo 18 rivisto nel 2012 dalla legge Fornero.