Politica Interna
Verso le elezioni: Gentiloni sceglie Roma 1. Ipotesi Bonino a Milano. A un mese e mezzo dalle elezioni del 4 marzo, si delineano le candidature nei collegi. Su 232 collegi, il Nazareno può mettere la mano sul fuoco soltanto su 28. E spera in altri 14. Quasi tutti lungo la dorsale appenninica, con uno spruzzo di rosso nel cuore delle grandi città. Nel resto del Nord, poco o nulla. In province e periferie, lo stesso. Al Sud, il deserto. La fotografia di questo affanno è tutta negli appunti che passano di mano tra i big renziani. E di cui si discute in queste ore nel partito. Si punta sui ministri. Che magari non serviranno a strappare molti collegi, ma aumenteranno comunque il bottino di voti utili nel proporzionale. Intanto il premier Paolo Gentiloni ha annunciato la decisione di sfidare, per il Pd, gli avversari nel collegio uninominale di Roma 1. Su Facebook, infatti, ha annunciato la decisione di sfidare gli avversari nel collegio di Roma 1, alla Camera: «Mi candido al centro di Roma, in una delle aree più belle e amate del mondo». La scelta è il frutto di una strategia messa faticosamente a punto con Renzi, nel tentativo di trainare un Pd in affanno e convincere anche i ministri più riluttanti a infilarsi l’elmetto, per combattere una difficile battaglia all’uninominale. Spunta l’ipotesi Emma Bonino a Milano. Tra i ministri Lorenzo Lotti a Empoli, Graziano Delrio a Reggio Emilia, Pier Carlo Padoan nel Lazio, ma solo nel proporzionale. Come Marco Minniti nelle Marche o nel Lazio. Matteo Renzi ribadisce che un voto alla destra allontanerebbe l’Italia dell’Europa: «La scelta del 4 marzo avrà la stessa importanza di quella del 1948». E da Skytg24 ringrazia Gentiloni: «Forza Paolo!», assicurando di non essere geloso della popolarità del premier: «La gelosia, l’invidia sono sentimenti profondamente fuori dalla mia dimensione personale».
M5S, passa la linea Di Maio “Sì a un governo di scopo”. Ora che è stato sdoganato anche il “dimaismo”, in tanti tra i 5 stelle ci scherzano su, arruolandosi in quella che ancora non è una corrente, ma piuttosto la marcia verso un obiettivo preciso: andare al governo, ora o mai più. Un governo, dirà da oggi Luigi Di Maio che, come compromesso tra le ali più moderate e intransigenti, sarà definito un governo programmatico, un governo di scopo: «Sono 5 anni che diciamo tutti e sempre la stessa cosa: “alleanze” è un termine della vecchia politica che abbiamo sempre rifiutato perché evoca inciuci, noi abbiamo un’altra concezione della politica, che mette al centro i punti del programma. Per chiarire una volta per tutte: faremo convergenze programmatiche e non alleanze». II racconto della politica ama i dualismi. E l’ultimo è una semplice derivazione di una battuta di Beppe Grillo che ancora pesa sui destini del M5S. Anche se forse oggi un po’ meno di ieri, visto che molti, semplici attivisti, candidati ancora sconosciuti e parlamentari, riuniti nell’ex distilleria Aurum di Pescara, dove va in scena la scuola Rousseau targata Davide Casaleggio, la pensano come Di Maio: con questa legge elettorale al governo si può andare solo con una maggioranza condivisa con altri partiti su uno specifico programma. La linea di Di Maio prevale nel cuore dei 5 Stelle. Danilo Toninelli conferma: «Il nostro sarà un governo programmatico, su punti ben precisi». Punti che però in alcuni casi – reddito di cittadinanza – possono andar bene a LeU, in altri – vedi sull’immigrazione – alla Lega. Come conciliarsi con due partiti cose lontani. Semplice: «Tutto dipenderà dalla consistenza numerica in Parlamento nostra e degli altri» spiega.
Politica Estera
Germania, Spd al voto. Il giovane Kuhnert lancia la sfida a Schulz. A Bonn, in riva al Reno, va in scena oggi una pièce ad alto contenuto drammatico, il cui esito avrà comunque conseguenze globali. In gioco sono non solo il futuro del partito socialdemocratico, ma la stabilità politica della quarta economia del pianeta, il potere di Angela Merkel e in ultima analisi il destino dell’Europa, le sue prospettive di rilancio e integrazione. Seicento delegati della Spd sono chiamati in congresso straordinario ad esprimersi su un solo punto in agenda: approvare o respingere il documento di 28 pagine, negoziato dalla leadership socialdemocratica con la Cdu-Csu della cancelliera, che apre la strada a trattative formali per un nuovo governo di Grosse Koalition. Non è per nulla scontato che Martin Schulz, il leader del partito, ottenga la maggioranza necessaria per andare avanti. Sostenuto da gran parte del gruppo dirigente e dai deputati al Bundestag, l’accordo è contestato in modo diffuso nelle federazioni, che hanno scelto i delegati. A guidare la «rivolta degli schiavi» è il «new kid on the block» della politica tedesca. In soli due mesi Kevin Kühnert è diventato il principale ostacolo sulla strada che porta a un nuovo governo di centrosinistra sotto la guida di Angela Merkel. Kühnert è capo degli Jusos, i giovani socialdemocratici e si batte come un forsennato per tenere la Spd fuori da una Grosse Koalition. Un voto contrario oggi aprirebbe due scenari: un governo di minoranza, con l’Spd che torna all’opposizione, oppure elezioni lampo come minacciato dalla cancelliera Angela Merkel ma soluzione vista male del presidente della Repubblica Frank-Walter Steinmeier. «L’Spd si trova davanti a un bivio: il suicidio o la morte certa», ha sintetizzato con tono macabro un politologo tedesco.
Shutdown. Lo scontro democratici-Trump lascia l’America senza soldi. È shutdown: letteralmente lo Stato chiude. Uno schiaffo al presidente-imprenditore. Nel giorno esatto del primo anniversario dall’Inauguration Day di Donald Trump, la sua Amministrazione federale resta a corto di fondi. Intanto molte città americane vedono sfilare imponenti manifestazioni di protesta. La paralisi del governo nasce dal fallito accordo bipartisan sulla legge di bilancio: in mancanza dell’autorizzazione parlamentare a rifinanziare le attività correnti, cominciano a essere sospesi i pagamenti di stipendi ad alcune categorie di dipendenti pubblici, e certi servizi chiudono. La Casa Bianca e i repubblicani scommettono che i democratici pagheranno il prezzo della crisi, perché hanno messo la difesa degli immigrati illegali davanti agli interessi degli americani. L’opposizione invece è convinta che il braccio di ferro danneggerà il presidente, e le prospettive del suo partito in vista delle elezioni midterm di novembre, perché dimostra la loro incapacità di governare nonostante controllino tutte le leve di Washington. Non è la prima volta (ci sono stati altri shutdown da Reagan a Clinton a Obama), però questa paralisi colpisce il presidente-businessman, colui che si vantava di essere un maestro insuperabile nel negoziare accordi. Tra le vittime dello shutdown rischia di figurare una promessa forte che Trump fece ai suoi elettori: quella di «aggiustare Washington», cioè ripulire la capitale, sanare tutti i vizi del ceto politico. In queste ore invece l’immagine è quella di un presidente impantanato in una crisi molto tipica della “vecchia politica”.
Economia e Finanza
Economia reale e industria a bassa priorità per i partiti. Nei programmi dei partiti «pesano» i temi quali famiglia, pensioni, fisco. Ma scende decisamente la priorità per l’economia reale e per i settori dell’industria. Differenti le ricette per abbattere il debito pubblico: dalla flat tax del Centrodestra, al M5S che incrementa il deficit. Il Pd propone la pensione di garanzia ai giovani. Quello che sembra però mancare è l’attenzione in senso più ampio alla «fabbrica», alle condizioni di competitività della manifattura e delle piccole imprese. Il tema della produttività è indicativo: in Italia continua a ristagnare, nonostante un’iniziale ripartenza del mercato del lavoro. Anche Mario Monti si è espresso aull’argomento: “L’attuale campagna elettorale sta battendo ogni record, per l’irrealismo delle proposte. Le cause sono probabilmente due. Queste sono le prime elezioni italiane dell’era del Fake. L’assuefazione alle fake news ha aperto la strada a fenomeni collegati: i fake programs, particolarmente immaginativi per partiti nuovi, che non possono per ora attrarre sulla base di comprovate capacità di governo, e le fake histories, con le quali viceversa partiti che hanno governato in anni recenti o recentissimi cercano di riscrivere gli episodi meno felici di quelle fasi. Altra ragione, che contribuisce a spiegare il fiorire di proposte poco responsabili sulla finanza pubblica, è la perdurante accondiscendenza monetaria della Banca Centrale Europea. Qualche anno fa questa ha svolto una funzione essenziale per superare la crisi finanziaria della zona euro e favorire la ripresa economica. Il protrarsi del quantitative easing ha peraltro causato, con il finanziamento facile del settore pubblico e i tassi di interesse molto bassi, un effetto anestetico, un artificiale offuscamento delle reali condizioni della finanza pubblica e dell’economia. Si sono così attenuati gli stimoli a completare il risanamento finanziario e le riforme strutturali.”
Le mini-multinazionali corrono in Borsa, tre volte più veloci delle blue-chip. Oltre ottantatré miliardi di capitalizzazione. E’ il “guadagno”, a Piazza Affari, delle mid cap dal luglio 2012. Cioè dal momento di maggiore crisi del listino italiano. Si tratta di una rimonta che, dall’angolo visuale della performance del paniere di riferimento, assume un valore segnaletico ancora più significativo. Il Ftse mid cap, infatti, è salito del 180,5%. Un balzo notevole. Certo: l’incremento della capitalizzazione delle blue chip nostrane, nello stesso periodo, è stato di 279 miliardi. Ma il rialzo del Ftse Mib si ferma a quota 65,5%. In altre parole: le medie imprese italiane hanno sorpassato le sorelle maggiori. Un trend solo di lungo periodo? Tutt’altro. Analizzando archi temporali più brevi la dinamica è confermata. Dal 2015 il Ftse mid cap è aumentato del 76,5% mentre il paniere delle grandi capitalizzazioni è cresciuto del 24,3%. Quel Ftse Mib che, nell’ultimo anno, ha concretizzato un incremento del 22,07% rispetto al 34,1% delle mid cap. A fronte di un simile contesto la domanda è: perché questi andamenti? In primis, ha inciso l’effetto Pir. I Piani individuali di risparmio devono indirizzare il 21% dei loro investimenti su strumenti finanziari di società italiane che siano delle Pmi. E questo meccanismo che ha costituito il volano per le small e mid cap. Un flusso di liquidità che, da una parte, ha spinto le quotazioni delle aziende in oggetto; ma, dall’altra, induce alcuni esperti a rimarcare il rischio boomerang. Esplode anche il fenomeno dei minibond in Italia, dove nel 2017 si sono registrate oltre 300 emissioni, con una raccolta di oltre 14 miliardi di euro. Parliamo di quello strumento grazie al quale le pmi possono andare a caccia di liquidità per finanziare i propri piani di sviluppo. Uno strumento che, a giudicare dagli ultimi dati del Barometro minibond, si va sempre più diffondendo.