Antonio Troise
Checco Zalone, ha fatto solo un errore nel suo “Quo Vado”, il film campione di incassi che prende in giro l’ossessione degli italiani per il posto fisso. L’errore è stato quello di ambientare le scene principali in un piccolo paesino della Puglia, fra le scartoffie e le scrivanie di un inutile ufficio pubblico. Un errore, tutto sommato, perdonabile: il comico sarà stato condizionato dalle sue radici baresi. Ma, certo, non dai dati ufficiali dell’Istat. Che raccontano un’Italia molto diversa da quella andata in scena sul set del comico barese. Probabilmente, se avesse letto i dati del “censimento permanente delle istituzioni pubbliche” del 2016 (l’unico attualmente disponibile), avrebbe ambientato il suo film in qualche piccolo Paese in provincia di Mestre o di Bergamo. E magari averebbe chiamato il suo protagonista Cazzaniga, Brambilla o magari Zambon. Tutti figli del profondo Nord, diventata la vera terra del “posto fisso”, smentendo anni di luoghi comuni e di slogan contro i terroni. E, invece, c’è poco da fare: anche i più convinti anti-meridionalisti devono rassegnarsi. E se proprio non vogliono chiedere scusa, almeno ad oggi in più dovrebbero utilizzare altri argomenti per continuare a puntare l’indice contro il Sud degli sprechi e dell’assistenza. Sul versante del pubblico impiego la situazione è, neanche a dirlo, capovolta. Impossibile? Macchè. Se mettiamo in fila i dati ufficiali, quelli con il bollino dell’Istat, scopriamo che fra il 2011 e il 2015, vale a dire negli anni più pesanti della recessione, il Centro-Nord ha continuato a ingrossare le fila del suo esercito degli statali, circa 26mila in più. Mentre nel Mezzogiorno, invece, la cura dimagrante ha espulso dagli uffici pubblici oltre 14mila unità. Numeri che capovolgono l’opinione comune di un Sud “avviluppato all’impiego pubblico”, sentenziano gli esperti della Svimez, l’associazione guidata da Adriano Giannola. E, la situazione diventa ancora più evidente se consideriamo un altro dato, cioè il numero dei dipendenti pubblici in rapporto alla popolazione. Il record, ovviamente, spetta di diritto al Centro, dove la differenza la fa Roma Capitale: qui troviamo 5 lavoratori in carico allo Stato ogni cento abitanti.
Ma nel ricco Nord-Est, dove non ci sono ministeri ma c’è la capitale “produttiva” del Paese, il rapporto è inferiore di appena un punto decimale. 4,9 dipendenti ogni cento abitanti. Nel Sud, invece, la quota scende a 4,5. E, in ogni caso, siamo al di sotto della media nazionale, che si attesta a quota 4,6. Numeretti che smontano, definitivamente, il luogo comune dell’esercito meridionale dei dipendenti pubblici.
Ma il dato più eclatante è un altro. Il travet di Stato, strenuamente impegnato nella difesa del posto fisso a tutti i costi, non parla più napoletano o calabrese. Ma, piuttosto, il milanese e il veneto, giusto per smentire un altro dei clichè più abusati nel Paese delle due Italie. Sempre fra il 2011 e il 2015, infatti, il taglio dei contratti a tempo indeterminato, nel Sud è stato quasi il il triplo rispetto al Centro-Nord: -5,8% contro l’1,7%. In termini assoluti, nel Mezzogiorno hanno detto addio al posto fisso quasi 26mila lavoratori, nel centro Nord solo 17mila. Il risultato è che da Napoli in giù, perfino chi aspira ad un posto nelle braccia di mamma-Stato si è rassegnato a un contratto a termine o precario. L’esempio più clamoroso, da questo punto di vista, è quello della Calabria. Qui i dipendenti pubblici con un rapporto di lavoro part time sono passati dai 250 del 2011 a 3.770 nel 2015. Una vera e propria impennata. Che cosa è successo? Molto probabilmente le regioni meridionali hanno deciso di anticipare, in qualche modo, la ricetta lanciata proprio nelle ultime settimane dal M5s: lavorare meno per lavorare tutti. Nel Sud ci si è mossi in anticipo, ma con una variante significativa: non solo è stato ridotto l’orario ma anche il salario. “Una sorta di condizione sociale delle risorse a disposizione – scrivono alla Svimez – volta a garantire occupazione al maggior numero di persone consentito dalla legge”.