“Finalmente ora, a cose fatte, si avverte quale significato può avere l’esito del voto in Lombardia e in Veneto, e come sia stato sottovalutato negli ambienti anche più avvertiti della politica italiana, a cominciare dal Pd”. E’ questo l’incipit di un commento che Biagio de Giovanni ha affilato alle colonne del Mattino del 24 ottobre (“Se la destra rimette la politica al centro”). E via così. Il filosofo, ex eurodeputato del Pci, lamenta in sostanza che è stato lasciato un rilevante spazio vuoto e in politica quando questo accade c’è sempre qualcuno che, prima o poi, va a occuparlo. E così han fatto Maroni e Zaia. Come dargli torto?
Tuttavia più grave, molto più grave, a me pare l’azione che “gli ambienti più avvertiti della politica, a cominciare dal Pd” compiono a favore della costruzione di quel vuoto. Lo stesso De Giovanni, c’è da scommettere, due mesi fa non avrebbe speso un rigo sulla vicenda perché l’intellighenzia di sinistra è da sempre refrattaria a prendere in seria considerazione le spinte che vengono dal basso. Per formazione crociana, sono molto più propensi a considerare le spinte che vengono dall’alto, dalle elites ben formate ed educate, se non dal mondo dello spirito o dall’iperuranio. E’ questa una caratteristica distintiva della sinistra meridionale, illuminista e illuminato, che sogna il ritorno del primato della politica, che sorvola con ali pindariche dispiegate il popolo basso, vomitandogli addosso il sarcasmo.
La cartina al tornasole c’è. Esponenti di lungo corso di questa tipologia hanno trascurato il tema del referendum di Maroni e Zaia, considerandolo poco più che un diversivo, non altrettanto han fatto con la Giornata della Memoria voluta dal Consiglio regionale pugliese nell’estate scorsa. Non c’è partita. La decisione di ricordare ogni 13 febbraio l’uccisione di civili, da parte dell’esercito italiano, negli anni della repressione del brigantaggio, ha registrato una reazione inversamente proporzionale al tentativo di fuga autonomistica di Maroni e Zaia.
Perché? Perché anche solo il ricordo di una vicenda che risale a 156 anni fa e non è ancora capace di innestare un progetto politico, ha destato scalpore molto più di una che, agganciandosi al caso Catalogna, bene o male riguarda il presente ed il futuro dell’Europa. Ancora. Perché al Nord sono tutti uniti nella lotta, sindaci leghisti e del Pd, mentre nel Sud se appena appena si parla del “passato borbonico” si assiste a una isterica corsa a smarcarsi ed è tutto un prendere le distanze delle anime belle della sinistra accademica?
SINDROME DI STOCCOLMA
Qualcuno dice: vai alla voce “sindrome di Stoccolma”, ossia quella particolare condizione psicologica che porta la “vittima” a manifestare sentimenti positivi (gratitudine o addirittura innamoramento) verso il proprio “carnefice”.Forse è esagerato, ma certo la corale reprimenda contro “il mito di un Sud impoverito dalla annessione piemontese”, lo spregio verso le“ossessioni vittimiste dei piagnoni meridionali”, la disapprovazione per chi “sogna un passato che non può più tornare”, sono un segnale di un orientamento quanto meno opinabile, che fa tutt’uno con la pretesa che la nascita della nazione italiana debba essere preceduta dalla rescissione delle radici storiche del Meridione. E mentre qui al Sud, uomini del Sud, tendono a negare alle genti del Mezzogiornol’orgoglio di sentirsi “popolo”, e continuano a ridurre il Sud al rango di espressione geografica conficcata nella morchia del familismo amorale, è dal Nord che viene un’altra lezione di civismo, coi tanti milioni di lombardo-veneti – sindaci del Pd in testa – andati a votare per spezzare i vincoli con il resto del Paese, almeno dal punto di vista fiscale (per ora).
Si calpesta il “genio” di un popolo intero e proprio dal popolo che subisce l’ignominia viene il rigetto. Si traduce anche con il rubricare come stucchevole ogni cosa che, oltre a sapere di borbonico, sa di napoletano sanguigno. Si dimentica che proprio là dove c’è l’anima più popolare, c’è il meglio: il pentagramma dei sensi – la musica, la cucina, la vista dei panorami – e un dialetto/lingua (estremo retaggio identitario), tanta roba che attrae i turisti da tutto il mondo non meno che panorami e monumenti. I quali, diciamo pure, sono simili dappertutto, da Firenze a San Pietroburgo, ma se qui, a Napoli, acquisiscono il crisma della unicità, è perché è unico quel popolo e la musica, la cucina, il dialetto, entro cui l’immagine di Napoli trova sempre nuovo smalto.
Per questo è risibile ogni tentativo di sminuire questo fenomeno. E persino dannoso, perché lo“smarrimento del valore” è una componente patogena della questione meridionale. Il vero male oscuro del Sud è aver smarrito la propria autentica vocazione, l’immagine coerente della sua esistenza, l’idea plausibile del ruolo da svolgere nel mondo di oggi e di domani. Risorse e incentivi, quand’anche profusi con generosità, non possono surrogare il bisogno di una ragione per cui vivere, di una corrente spirituale che colga i miti fondativi di un popolo, anche quelli che la ragione non conosce o disconosce. Siamo figli dei Borbone non meno che di Genovesi e di Eleonora Pimentel Fonseca. Siamo figli della filosofia, non meno che della mistica e della superstizione.
IL BACIO ALLA TECA
Si è parlato molto del bacio alla teca del sangue di San Gennaro e di Luigi Di Maio usurpatore di una saga che non gli appartiene. Giova ricordare l’analogo episodio che vide protagonista Antonio Bassolino. Gesti esemplari che, come tanti, non si riescono a capire e a condividere, come quello che lo vide sulla scala dei pompieri rendere omaggio alla Immacolata, in cima all’obelisco di piazza del Gesù. Fu invece proprio grazie a tali segnali che il Rinascimento napoletano divenne un fenomeno corale, non chiuso nei circuiti della Napoli dei salotti, ma fermento che legittimò, assieme all’apertura per l’arte contemporanea, il rispetto dei miti e dei riti arcaici. Una legittimazione senza la quale non avrebbe lasciato alcun segno e alcun rimpianto in una città che da sempre si fa governare solo da chi non pretende solo di amministrarla.