di Antonio Troise –
Una generazione perduta, bruciata da cinque anni di recessione e di politiche sbagliate. Un’intera generazione che salterà, a piè pari, l’appuntamento con il mercato del lavoro o che, nel migliore dei casi, sarà condannata ad una vita precaria. L’ultimo bollettino di guerra diffuso dall’Istat sul fronte della disoccupazione giovanile non fa che confermare una fotografia che è sotto gli occhi di tutti. Tanto che perfino l’allarme suona scontato, quasi rituale. Eppure, mai come questa volta, sarebbe sbagliato archiviare la pratica relegandola sotto la voce: missioni impossibili. No, quella dei giovani è la vera emergenza sociale del Paese. Non affrontare il problema significherebbe non solo rassegnarsi al declino ma non credere più nel proprio futuro.
Nel gergo degli economisti si chiamano Neet, acronimo che sta per “Not in Employement, Education or Training”. Tradotto in italiano, sono i giovani che non studiano e non lavorano. In molti casi (ma non sempre) portano sulle spalle il paracadute sociale offerto dalle famiglie. In questo caso si trasformano nei cosiddetti “bamboccioni”, attaccati al portafoglio di mamma e papà anche da trentenni. Ma la realtà, al di là delle sigle e delle etichette, è molto più complessa. Analizzando i dati degli ultimi cinque anni emerge, in maniera netta, che a pagare il prezzo più alto della crisi sono stati proprio i ragazzi fra i 15 e i 24 anni. In questa fascia di età il tasso di disoccupazione è triplicato. Nel 2013, ci fa sapere l’istituto di statistica, almeno 690mila giovani hanno cercato un lavoro e non l’hanno trovato. Ma a questi bisogna aggiungere gli scoraggiati, quelli che non si sono neanche affacciati sul mercato del lavoro, convinti di trovare tante porte chiuse in faccia più che risposte concrete. Fra il 2007 e il 2012 i Neet (ormai sappiano che cosa significa) sono aumentati di 525mila unità. Complessivamente, sempre nello stesso arco temporale, i disoccupati fra i 15 e i 34 anni si sono attestati sulla cifra-monstre di 3,4 milioni. Come a dire: per un giovane su due (una percentuale che non paragoni in Europa) il lavoro si è trasformato in un miraggio.
Di chi è la colpa? La recessione ha sicuramente pesato. Ma scaricare tutte le responsabilità sulla grande crisi dell’economia globalizzata è sbagliato. La verità è che nessun Paese europeo, e in particolare l’Italia, è riuscito ad attrezzarsi per affrontare questa enorme piaga sociale. Si è andati avanti in ordine sparso, ognuno con le sue ricette, che tante volte hanno avuto effetti devastanti. L’ultimo esempio, per restare in casa nostra, è la riforma voluta dell’ex ministro, Elsa Fornero che, accoppiata all’allungamento dell’età pensionabile, ha di fatto peggiorato la situazione.
Il neopremier, Matteo Renzi, ha definito “allucinanti” i numeri dell’Istat e, nel suo programma ha messo al primo posto proprio il lavoro. Vedremo cosa saprà fare. In ogni caso si dovrà partire da due punti fermi. L’occupazione non si può creare per decreto, presuppone che il Paese torni a crescere, anche attraverso politiche industriali ad hoc. Scorciatoie non sono praticabili. Ma, nel frattempo, è occorre anche pensare ad un sistema di formazione che consenta ai giovani disoccupati di uscire dal cono d’ombra dei “Neet” e di acquisire quelle competenze necessarie per entrare in un mercato del lavoro completamente diverso da quello lasciato in eredità dai genitori. Le nuove professioni nate con Internet, ad esempio, rappresentano altrettante occasioni da cogliere ma solo per figure professionali che, al momento, poche università e nessuna scuola sono in grado di formare. Il “Job Acts” promesso da Renzi, così come la Young Guarantee varata dall’Ue (l’impegno a trovare un’occupazione entro sei mesi dalla fine degli studi) sono, per ora, scatole vuote da riempire con misure concrete e investimenti. Sapendo, però, fin da ora che non affrontare l’emergenza giovani rappresenta una grave ipoteca sul futuro del Paese.
Fonte: L’Arena