‘Non mi piace pagare. E’ una rinuncia alla mia dignità d’imprenditore”. Le ragioni della sua eversiva normalità Libero Grassi, ucciso dalla mafia il 29 agosto del 1991, le riassume così in un’intervista a Michele Santoro nell’aprile dell’anno della sua morte. Denuncia Libero, ai magistrati, in tv, sui giornali, perchè la libertà la portava con sè ogni giorno, scolpita in quel nome che i genitori, convinti antifascisti, gli avevano dato in onore di Giacomo Matteotti. ”Io non sono pazzo a denunciare – aveva detto ancora durante la puntata di Samarcanda pochi mesi prima della sua condanna a morte -, io non pago perchè non voglio dividere le mie scelte con i mafiosi, perchè io ho fatto semplicemente il mio mestiere di mercante”. ‘Semplicemente’. Non pensava di essere un eroe Libero, solo un uomo qualunque, un ‘mercante’, un imprenditore, che dice no al pizzo, perchè risponde alle logiche di mercato, non alle imposizioni di Cosa nostra.
”Il suo più grande insegnamento è stata la coerenza, la capacità di non tradire mai i propri valori. Una qualità che rivedo anche nei miei figli” dice all’Adnkronos la vedova Pina Maisano. Una coerenza portata sino alle estreme conseguenze. ”Se ripenso agli ultimi giorni insieme – racconta ancora – lo ricordo preoccupato. Era sottoposto a continue pressioni, continue chiamate, messaggi, minacce. La lettera, le denunce pubbliche erano un modo per cercare solidarietà per sentirsi meno solo. Ma su questo si sbagliò. Non ricevette nessun appoggio. Anzi. Qualche imprenditore disse persino che la morte se l’era cercata. Una cosa vergognosa”.