di Fernando Riccardi*
Una delle prime preoccupazioni di Ferdinando II di Borbone, dal 1830 sul trono di Napoli, fu quella di varare un corposo piano industriale destinato a svincolare il suo regno dalla dipendenza tecnologica inglese. I risultati non tardarono ad arrivare. Nell’ottobre del 1839 venne inaugurata la tratta ferroviaria Napoli-Portici, di soli 7 km e mezzo, ma la prima in Italia. Gia da qualche anno, poi, a Torre Annunziata funzionava a pieno regime una officina che produceva materiale meccanico (proiettili, affusti per cannoni, macchine a vapore) destinato all’esercito e alla marina militare. Qui lavoravano operai specializzati che niente avevano da invidiare alle maestranze di tutta Europa. Per non disperdere cotanta professionalità il re pensò di ingrandire la fabbrica spostandola a Portici.
Nacque così, nel 1837, proprio in riva al mare, il Reale Opificio di Pietrarsa che sfornava prodotti in ghisa ma, soprattutto, macchine e locomotive a vapore. L’entrata in funzione della strada ferrata, poi, favorì non poco lo sviluppo del sito industriale: il materiale da lavorare, infatti, poteva giungere in loco sia via mare che via terra servendosi, appunto, della ferrovia. In poco tempo Pietrarsa, grazie anche ad una rigorosa politica protezionistica, diventò il primo nucleo industriale della Penisola precedendo, e di parecchi anni, colossi quali Fiat, Breda o Ansaldo. Nel momento del suo massimo fulgore l’opificio dava lavoro a 850 operai, molti dei quali specializzati. Poi, però, come un fulmine a ciel sereno, le cose nel meridione d’Italia presero una piega inaspettata. Nel 1860 dal nord scese Garibaldi e poi l’esercito di Vittorio Emanuele II di Savoia. I Borbone furono costretti a scappare e a cedere il passo agli invasori piemontesi. Lo stato sabaudo inglobò con la forza delle armi la parte meridionale dello Stivale e nacque il Regno d’Italia. La qualcosa per la popolazione del Sud non fu di certo un grande affare. E la lotta aspra e senza quartiere che infuriò per un lungo decennio in quelle lande, che molti ancora si ostinano a chiamare brigantaggio, fu uno dei segni più evidenti del malcontento diffuso e della cupa disperazione che colpì quelle povere genti.
Il Reale Opificio di Pietrarsa oggi
Anche l’industria dovette fare i conti con il nuovo scenario. Il governo piemontese non aveva alcun interesse a mantenere in vita il sistema creato dai Borbone che pur presentando punte di eccellenza (si pensi, accanto a Pietrarsa, ai lanifici e alle cartiere della valle del Liri ma anche agli impianti siderurgici di Mongiana, sulle serre calabre), arrecava non poco fastidio agli stabilimenti dell’Italia settentrionale. Per questo si decise di privatizzare Pietrarsa svendendola a tale Iacopo Bozza. Fu l’inizio della fine. Il nuovo proprietario diminuì la paga degli operai portandola da 35 a 30 grana al giorno. In breve lasso di tempo, con una drastica politica di licenziamenti, di 850 dipendenti ne restarono solamente la metà. Il malumore dei lavoratori montava poderoso fino a che giunse il 6 agosto del 1863.
Di fronte all’ennesimo sopruso della proprietà, alle tre del pomeriggio, qualcuno fece risuonare a distesa la campana della fabbrica. Parecchie centinaia di operai, abbandonato il posto di lavoro, si radunarono nel cortile lanciando urla e parole di disapprovazione nei confronti del padrone. Spaventato Bozza si precipitò a richiedere l’intervento dei bersaglieri di stanza a Portici. I militari, in breve tempo, giunsero davanti allo stabilimento e, superato il cancello, baionetta in canna, si lanciarono sugli operai menando fendenti e sparando ad altezza d’uomo. In quel caldo pomeriggio agostano morirono 7 operai mentre altri 20 riportarono ferite più o meno gravi. Dopo quel tragico accadimento si decise di concedere la gestione dell’opificio alla Società Nazionale di Industrie Meccaniche. Ormai, però, la gloriosa fabbrica aveva intrapreso la strada del declino. Nel 1875 erano rimasti solo 100 operai. Eppure, appena due anni prima, una locomotiva costruita a Pietrarsa aveva vinto la medaglia d’oro alla esposizione universale di Vienna. Qualche tempo dopo lo Stato, per non chiudere lo stabilimento, decise di assumerne la gestione. Dopo la seconda guerra mondiale la crisi si accentuò ulteriormente fino a che, nel 1975, fu varata la definitiva chiusura. Oggi quello che fu il glorioso Opificio Reale di Pietrarsa è diventato la sede di un museo ferroviario. Pochi, però, ricordano la triste sorte di quegli operai spazzati via dai proiettili e dalle baionette dei bersaglieri soltanto per aver osato reclamare un sacrosanto diritto: quello della tutela del posto di lavoro. Tale evento, anzi, è sconosciuto ai più. Anche a quelli che di rosso agghindati sono soliti festeggiare con tanta enfasi il primo maggio, icona intoccabile dei lavoratori. Un’ultima annotazione. Molti dei morti e dei feriti di quel 6 agosto 1863 furono colpiti alla schiena o alla nuca mentre cercavano di mettersi in salvo. Davvero un atto eroico da parte dei militi piemontesi che non si fecero scrupolo di aprire il fuoco su operai inermi. Forse credevano, come ha scritto Antonio Ghirelli nella sua “Storia di Napoli”, di trovarsi ancora alla Cernaia. Eppure ci fu chi, proprio grazie a quel misfatto, fece carriera. Stiamo parlando del questore di Napoli Nicola Amore che, invece di essere sollevato dall’incarico e sottoposto a processo come avrebbe meritato, nel 1866 venne nominato direttore della Pubblica Sicurezza. In seguito fu anche senatore del Regno e sindaco di Napoli. Nel nostro bel paese accadono cose davvero strane: mentre a Nicola Amore sono state dedicate piazze e monumenti (la celebre Piazza Quattro Palazzi, lungo Corso Umberto, a Napoli, porta anche il suo nome, così come un suo busto marmoreo fa bella mostra di sé nei giardini di Piazza della Vittoria), niente di niente, né una lapide né una scritta, ricorda l’eccidio di Pietrarsa e i nomi di quei sette operai che in quel tragico giorno persero la vita. Un’altra ingiustizia della nostra storia patria che si dovrebbe avere il coraggio di rimuovere una volta per tutte.
fonte: http://www.danielelembo.altervista.org/index.php/component/content/article/210-leccidio-di-pietrarsa.html