di Christian Marra –
Lo schianto improvviso fece vibrare per intero la carlinga a oltre tremila metri sul livello del mare. Aveva viaggiato infinite volte più veloce del suono, a oltre mille e seicento chilometri l’ora: una velocità alla quale puoi essere ovunque e in ogni luogo allo stesso tempo. Un potere divino, una velocità alla quale puoi davvero finire per crederti Dio. Ma questa volta lo sentì, il rumore che fece, lo sentì nitido lo squarcio che si aprì nello scafo. Una cicogna, aveva preso in pieno una cicogna mentre viaggiava alla stessa velocità di Dio.
Ti addestrano a tutto. Ti addestrano anche a questo. Fino a non molto tempo fa, in fondo, il cielo era esclusivo dominio degli uccelli.
C’è una check list, in questi casi, una lista di cose da fare prima di abbandonare l’aereo: disarmare le bombe, svuotare i serbatoi del carburante, portarsi in una zona poco densamente popolata e cose del genere. Una lista di cose da fare – con calma ed in buon ordine – prima di abbandonare l’aereo e vederlo scomparire, mille o duemila metri più giù, in una nuvola di fuoco.
Il blindovetro aveva retto, ma fuori non si vedeva più nulla. Anche l’head-up display, con tutti i suoi dati su altitudine e posizione, era saltato. Così dovette pilotare qualche secondo alla cieca – giusto il tempo di percorrere una dozzina di chilometri – prima di accorgersi che era saltato anche il montante che reggeva l’ala sinistra. La radio – quella sì – funzionava ancora:
“Capitano, si getti fuori, mi ha sentito? Venga fuori da quell’aereo, per l’amor di Dio!”
Non poté fare a meno di pensare che cose come queste, a Dio, sicuramente non capitano.
Ad astra
Sono millenni che gli uomini lo sanno. Si può arrivare alle stelle anche partendo dal più umile angolo della terra. Sono millenni che gli uomini guardano le stelle e sanno di non poterle avere. È sempre stato così e sarà così per sempre. In certe notti chiare, però, nelle campagne vicino Catania le stelle sono così tante e così vicine che sembrano davvero tue. Sembra quasi di poterle cogliere come si colgono le arance mature dai rami, sembra quasi di poterle stringere in una mano, grosse e succose – le stelle – e appetitose come nessun’altra cosa nell’universo.
L’astronauta
Toccare le stelle, che idea blasfema! Nessuno dovrebbe osare tanto. Nessuno può arrivare fin lassù, se nasce a Paternò.
“Voglio fare l’astronauta!”
“Piccirìddu, ma nun è che ti piacesse a fari u pompiere, macari u sbirro? Inzumma, nu travagghiu cchiù serio?”
“Nonsi, l’astronauta voglio fare!”
Il tempo passava, ma la risposta restava sempre quella.
“Picciòttu, u Signuri ti fici intilligenti comu a pochi, potristi fari lu maistru di scola, como a mia! Già ne parlai cu tua matri e …”
“Nonsi, l’astronauta voglio fare!”
“Ma si omu adulto oramà, è quasi ora di pàrtiri suldatu e arrìeri sta farfantarìa dell’astronauta devo sentiri! Immeci te la dicu io, la verità! È ca nun tieni gana di travagghiare, e vuoi passare a iurnata a taliare e stiddre!”
Il potere di Dio.
Lo sentiva spingere sotto i suoi piedi, sentiva il potere di Dio esplodere sotto i suoi piedi e spingerlo verso le stelle, stavolta doveva solo allungare una mano – come faceva da bambino, nelle campagne attorno a Catania – e cogliere quei frutti maturi che pendono dal cielo.
Il Sojuz rimescola principi elementari dell’esistenza, cancella ogni cosa dietro sé e mette in discussione tutto ciò che credevi di sapere sull’andare in paradiso. È come salire su una meteora al contrario.
E quando si voltò indietro, pensando non ci fosse più nulla, vide che alle sue spalle c’era solo il pianeta terra, immenso, ed immensa anche era la paura di non sapere come raccontare tutto quello.
Quando, circa otto anni prima di quel giorno, riportò a terra il suo AMX completamente integro, fatto salvo per il foro di cicogna nella carlinga, pensarono subito a quale medaglia avrebbero dovuto dargli. Nella check-list non si diceva nulla in merito al riportarlo a terra. Bastava che si salvasse il pilota, l’aereo rappresenta solo una (costosa) perdita d’esercizio. Almeno, quando non precipita su un centro abitato.
Nero intorno
Il nero non è un colore. Non il nero dell’universo, almeno, quando l’universo lo guardi da dentro. Quel nero non è un colore. Quel nero è assenza. Assenza di tutto. Assenza di luce, assenza di suoni. Assenza di parole, perché è qualcosa che davvero non si può raccontare. Se Dio c’è, come gli avevano insegnato, allora era lì.
“È stato come tornare nell’utero di mia madre”, era l’unico modo che aveva trovato per raccontarlo quando tornò sulla terra.
Il Sojuz rimescola le regole stesse dell’esistenza: si può arrivare alle stelle anche partendo da Paternò.
Un sogno ricorrente
“Sono incinta”, gli disse sua moglie. Per la verità, glielo disse in inglese, perché sua moglie si chiama Kathy e vive con lui negli Stati Uniti. E da quando Kathy gli ha detto che aspettano un bambino, quasi tutte le notti lui sogna la stessa cosa: la maestra di suo figlio (o figlia, come precisa sempre Kathy) che gli fa sempre lo stesso discorso. E glielo fa in siciliano, perché nei sogni è la parte più profonda di noi che ci parla. Anche quando viviamo nel New Jersey o nell’Oregon. Ed ogni volta che fa questo sogno, al mattino si risveglia con una strana ansia addosso, una tensione emotiva che non sa bene a cosa attribuire. Gli risuonava sempre nella mente un discorso – in un certo qual modo – familiare: “Su figghiu è intilligenti assà, ma io sugno una picca prioccupata! Passa matinate intere a taliare fora dalla finestra, drittu n’cielu, e quando gli addummanno che ave da taliare, lui risponne che controlla se passa su patri. E non è tutto. Guardasse il tema che ha scritto: “Da grande voglio andare sulle stelle, come papà”. Con crianza parlannu, ci posso spiari una cosa? U picciriddu insiste continuamente che vole annari su Marte! A lei le pare normale, signor Parmitano?”