di Michele Eugenio Di Carlo
Giustino Fortunato nasce a Rionero in Vulture nel 1848 da una famiglia benestante di possidenti terrieri, fedele alla dinastia dei Borbone. Infatti, nel 1861, durante le fasi cruciali del brigantaggio nel Vulture e nel Melfese, coordinate dal conterraneo Carmine Donatelli Crocco, gli zii paterni vengono arrestati con l’accusa di fiancheggiare gli insorgenti. Fortunato si laurea in Legge a Napoli nel 1869, aderisce nel 1879 alla sezione napoletana del Club Alpino Italiano, esperienza che gli permetterà di approfondire gli studi di geografia, botanica, climatologia dell’Italia meridionale continentale e da cui trarrà le note tesi sull’arretratezza del Mezzogiorno, legata non solo a fattori storici ma in maniera determinante anche a fattori ambientali. Dopo la laurea, seguendo i corsi di letteratura di Francesco De Sanctis, Fortunato acquisisce profondamente l’essenza e i valori politici del Risorgimento, tenendoli sempre presenti come faro della sua intensa e lunga stagione politica e culturale.
Fortunato, dopo la pubblicazione nel 1875 delle “Lettere meridionali” di Pasquale Villari, e a seguito dell’inchiesta “La Sicilia nel 1876” di Leopoldo Franchetti e di Sidney Sonnino, si inserisce pienamente nel contesto culturale conservatore della rivista “Rassegna settimanale”, fondata dai giovani intellettuali toscani. È da questa angolazione che nel 1879 affronta la questione demaniale. Quella stessa questione che lo storico Rosario Villari ha considerato «il più noto e il più discusso dei problemi sociali del Mezzogiorno», legato al percorso di privatizzazione dei demani comunali a seguito dell’eversione della feudalità e disastrosamente «concluso a vantaggio dei “galantuomini”», lasciando uno strascico infinito e prolungato di contrasti violenti, di recriminazioni aspre, di odi consolidati nel corso di oltre un secolo[1].
Figura 1. Il Mezzogiorno e lo Stato italiano
Il tentativo di riforma del sistema feudale era stato già tentato nella seconda metà del Settecento dall’illuminista Gaetano Filangieri (S. Sebastiano al Vesuvio, 1753 – Vico Equense, 1788), discendente dei nobili principi di Arianello. Filangieri aveva dedicato l’intera, breve ma intensa vita, ad una critica serrata e radicale al sistema feudale, scrivendo la “Scienza della legislazione”[2]. In questa immensa opera, la cui pubblicazione iniziava nel 1781, affrontava le tematiche amministrative, tributarie, finanziarie, irrinunciabili e irrimandabili per avviare un sistema di riforme che desse vigore alla spenta economia dello Stato, spazio alle produzioni e al loro commercio, benessere, diritti e felicità alle popolazioni rurali, affrancandole da pesi e vincoli feudali antistorici e dai privilegi ecclesiastici. Il testo di Filangieri non affrontava solo le leggi economiche, finanziarie e politiche dar porre alla base di una società nuova, più equa e giusta, ma metteva in particolare rilievo i temi dell’educazione e dell’istruzione, fattori che l’illuminista riteneva vitali e primari per promuovere in uno stato moderno un effettivo progresso e una fondata civilizzazione delle disagiate e martoriate plebi rurali.
Com’era del tutto prevedibile, in un’epoca di forti contrasti, tra tensioni illuministiche e resistenze baronali, le tematiche affrontate e le riforme proposte furono da un lato accolte in tutta Europa con un consenso vastissimo e, dall’altro, avversate e contrastate con aspre critiche provenienti per lo più dagli ambienti più retrivi e conservatori dello stesso Regno di Napoli. Ciononostante Filangieri, nel 1787, ultimo anno della sua breve e intensa vita, veniva chiamato dal ministro borbonico John Acton a far parte del Supremo Consiglio delle Finanze e aveva la possibilità di mettere a nudo i problemi economici e politici che bloccavano la società e otturavano l’economia, senza compromessi, nella più totale fiducia che gli illuminati sovrani borbonici avrebbero posto fine agli abusi feudali e ai privilegi ecclesiastici. Frontale era l’attacco di Filangieri ai poteri giurisdizionali dei baroni amministratori dei feudi e netto il suo giudizio negativo sulla questione demaniale, laddove estesi latifondi erano affidati nelle mani «d’un beneficiato, che non può avere alcun interesse nel migliorare un fondo», punendo così il progresso tecnico, lo sviluppo economico, l’aumento della produzione agricola e condannando i contadini a una vita miserabile.
Figura 2. Giustino Fortunato
Lo stesso Ferdinando IV affrontava la questione demaniale convinto che l’agricoltura andava rilanciata, riducendo drasticamente il latifondo e assegnando i terreni feudali incolti ad una moltitudine di braccianti, contadini, piccoli coloni, che da salariati precari avrebbero dovuto convertirsi in piccoli e medi coltivatori diretti. Il 23 febbraio 1792 veniva emanata la prammatica XXIV “De Administratione Universitatum”, «per fare ovunque fiorire la meglio intesa agricoltura, sorgente primordiale delle ricchezze», la quale permetteva di «censire i terreni demaniali di qualunque specie». La prammatica stabiliva all’art. 4 che nella «censuazione» dei demani si sarebbero preferiti «i bracciali[3] nei terreni più vicini alle popolazioni; dandone loro nella misura, che possano coltivarli colla propria opera»; all’art. 5 ribadiva che «fatta la scelta de’ meno provveduti di terreni», i rimanenti sarebbero stati assegnati mediante sorteggio. Riguardo ai demani feudali, l’art. 12 sanciva che al barone doveva essere attribuita la quarta parte del demanio «per uso de’ suoi animali e cultura», mentre le altre parti andavano censite e assegnate dai Comuni in enfiteusi a braccianti, contadini, coloni, a compenso della perdita dell’esercizio degli usi civici[4] .
La prammatica non conseguiva i risultati attesi e non aveva effetti pratici nella realtà socio-economica del Regno, ma convinceva gli strati bassi del ceto rurale che rivendicare condizioni migliori di vita, ottenendo un pezzo di terra incolta da coltivare sottratto al dominio assoluto del barone, senza più vincoli e pesi feudali da sopportare, senza abusi e angherie umilianti e degradanti di ogni sorta da subire, era legittimo, oltre che condizione essenziale per uscire dai secoli bui del feudalesimo.
L’abolizione della feudalità veniva sancita in seguito con la legge n. 130 del 2 agosto 1806[5], sotto il governo di Giuseppe Bonaparte, giunto a Napoli al seguito dell’esercito invasore francese. Ciononostante, la ripartizione dei demani avrebbe continuato a essere un problema irrisolto.
Fortunato, grazie alla sua inclinazione per gli studi storici, approfondiva le travagliate vicende legate alla quotizzazione dei demani e, nel 1879, pubblicava “La questione demaniale nell’Italia meridionale”[6]. Quella della ripartizione dei demani era una questione che forniva ampi spazi di strumentalizzazione ai partiti dell’opposizione che potevano far leva sulle masse contadine, sempre in “lotta per la terra” contro le usurpazioni dei galantuomini. L’intellettuale lucano, come tra gli altri Franchetti e Salandra, si convinceva che la competenza nella ripartizione delle restanti terre pubbliche e nelle reintegre delle terre usurpate doveva passare dai comuni allo Stato. Peraltro, valutava che le quote comunque assegnate ai contadini, che andavano da ottantatré are a un ettaro e mezzo, erano troppo piccole per assicurare il sostentamento di una famiglia, che doveva anche accollarsi gli oneri derivanti dal pagamento del «canone al comune e della fondiaria allo Stato». Era questo il motivo per cui le quote assegnate tornavano al Comune o venivano svendute ai proprietari terrieri o cedute agli usurai a causa di debiti accumulati. A dirla tutta, «le quotizzazioni, come furono prescritte dalle leggi, non hanno agevolato nell’Italia meridionale se non il monopolio dei terreni nelle mani dei proprietari; esse assieme con le nuovi leggi d’imposte, accrescono, di giorno in giorno, le grandi proprietà a danno delle piccole»[7].
Fortunato lamentava l’indifferenza del Ministero dell’Agricoltura davanti al fallimento delle quotizzazioni demaniali ai fini della costituzione di una piccola proprietà contadina. Proprio in quel 1879 i dati negativi risultavano evidenti in pubblicazioni ufficiali[8] e attestavano chiaramente che, nonostante fosse vietato per legge vendere le quote, poche restavano in possesso dei poveri contadini.
Per Fortunato l’ignorata questione demaniale era «lievito che fermenta», era «fuoco che cova l’incendio», era «la perpetua domanda di terre da dividere al popolo, e non mai divise perché mal possedute da’ prepotenti», mentre governo e Parlamento insistevano «nel disconoscere una così grave iattura per tutta la metà del Regno». L’insuccesso nella divisione delle terre demaniali ai contadini poveri spingeva Fortunato a suggerire provvedimenti eccezionali passando le competenze dai comuni allo Stato e, soprattutto, data l’evidente constatazione che le quote assegnate tornavano nelle mani dei comuni, dei grandi proprietari o, addirittura, degli usurai, diventava sempre più logico aspettarsi che fosse lo Stato ad assicurare ai contadini i capitali necessari, affinché non fossero costretti a cedere o a svendere le loro quote. Considerato, oltretutto, che secondo i calcoli del lucano restavano almeno trecentomila ettari di demani comunali da assegnare, oltre quelli rinvenienti dalle «reintegrazioni di terreni usurpati» e dalla «divisione dei beni ex feudali»[9].
L’anno successivo alla pubblicazione delle sue tesi sulla questione demaniale, il 1880, Fortunato veniva eletto al Parlamento e ci sarebbe restato per ben nove legislature, dalla XIV alla XXII, fino al 1909. Sarà ritenuto tra i maggiori esponenti del meridionalismo conservatore facente capo alla rivista “Rassegna settimanale”. Lo storico Rosario Villari ha definito il meridionalismo dei “rassegnati” «insolubile nell’ambito della costruzione liberale dello Stato»[10]. Un meridionalismo conservatore, liberale, quindi alternativo a quello democratico o socialista precedente il fascismo e che avrebbe ripreso vigore nel secondo Dopoguerra con la fine della monarchia sabauda e l’inizio del corso repubblicano e democratico.
Antonio Gramsci considerava Giustino Fortunato e Benedetto Croce i massimi esponenti di un “blocco intellettuale” a protezione degli interessi del “blocco agrario” e per questo li avrebbe ritenuti «i reazionari più operosi della penisola», perché avevano consentito che «la impostazione dei problemi meridionali non soverchiasse certi limiti, non diventasse rivoluzionaria»[11].
[1] R. VILLARI (a cura di), Il Sud nella storia d’Italia, vol. 1°. Bari, Laterza § Figli, 1966, p. 161.
[2] G. FILANGIERI, Scienza della legislazione, Filadelfia (ma Livorno), Stamperia delle Provincie Unite, 1807(1ª edizione 1781-83).
[3] Braccianti
[4] Prammatica XXIV del 23 febbraio 1792 «De Administratione Universitatum». Da http://www.demaniocivico.it/public/public/439.pdf.
[5] Legge 2 agosto 1806 abolitiva della feudalità, in Bollettino ufficiale delle leggi e dei decreti del regno di Napoli (=BLD), Napoli, Stamperia Simoniana, 1806, vol. II, legge n. 130.
[6] G. FORTUNATO, La questione demaniale nell’Italia meridionale, in «Rassegna settimanale», 2 novembre 1879.
[7] G. FORTUNATO, La questione demaniale nell’Italia meridionale, in Il mezzogiorno e lo Stato italiano, Bari, Laterza § Figli,1911, vol. I°, p. 88; ora in R. VILLARI (a cura di), Il Sud nella storia d’Italia, cit., p. 164.
[8] Ministero d’Agricoltura, Industria e Commercio, Notizie e studi sull’agricoltura italiana, Roma, 1879.
[9] G. FORTUNATO, La questione demaniale nell’Italia meridionale, in Il mezzogiorno e lo Stato italiano, cit., pp. 93-95; ora in R. VILLARI (a cura di), Il Sud nella storia d’Italia, cit., pp.168-170.
[10] R. VILLARI (a cura di), Il Sud nella storia d’Italia, vol. 1°, cit., prefazione, p. VIII.
[11] A. GRAMSCI, Alcuni temi della quistione meridionale, in Id. La questione meridionale (a cura di Franco De Felice e Valentino Parlato), Roma, Editori Riuniti, 2005, pp. 184-85.