Non è molto agevole scrivere del Carnevale nel secolo XVIII, poiché non esistono più nè diarii né manoscritti, che se ne occupano. Appena qualche rarissimo opuscolo ne accenna, qua e là, qualche cosa. Notevoli e preziosi, sopra tutti, sono un opuscoletto di Sara Goudar e un libro dell’Archenholz; l’uno scritto in francese; l’altro in tedesco e poi tradotto anch’esso in francese. Del resto, è strano, ma è nondimeno vero, che anche le più curiose e vive descrizioni del Carnevale di Roma nel secolo XVIII sono quelle lasciateci dal Goethe, dal Casanova e da Madame de Staèl.
Bisogna dunque ricorrere agli stranieri. Non so se il Goethe sia mai stato a Napoli durante la baldoria carnevalesca. Certo nel 1787, venne qui, in quaresima, dopo di aver assistito al Carnevale di Roma. L’impressione che gli stranieri, specialmente nordici, dovevano provare fra tutto quel chiasso, doveva essere curiosa e fortissima. Il Goethe dice che: «il Camevale di Roma non è una festa data al popolo, ma una festa che il popolo dà a sé stesso. Il governo non fa né preparativi, né spese, ed i forestieri si buttano da sé. Non illuminazioni, non fuochi artificiali, non processioni splendide, ma un semplice segnale che autorizza ciascuno ad esser pazzo e stravagante quanto gli pare e piace, ed annunzia che, salvo le bastonate e le coltellate, tutto è permesso».
Il racconto di Madame Goudar
Madame Goudar, invece, che, a quanto pare, si divertì moltissimo in Napoli, e vi restò qualche tempo, essendo divenuta amante di Ferdinando IV, scrive che in nessuna città si stava meglio di Napoli durante le feste carnevalesche. Il Carnevale, nell’anno in cui ella scrive, cominciò splendidamente con un’opera del Maestro Nicola Piccini: Alessandro nelle lmlie, che fu rappresentata al teatro San Carlo, il quale è «un des plus grands — dice la Goudar — et des plus magnifiques qu’il v ait eu Europe». E nell’opera cantarono Madame de Amicis e un tal Pacchiarotto, il quale pare non piacesse troppo alla scrittrice, perché ella – lo confessa candidamente, poverina! – «n’aimè point les Eunuques». All’opera del Piccini seguì un ballo composto dal signor Lepicq. Come si vede, i tempi erano andati modificandosi, e si erano modificati anche le abitudini ed i costumi. Ciacciati i Viceré, liberata dal dominio spagnuolo, Napoli era risorta come a nuova vita. Il progresso e la civiltà erano cominciati ad entrarvi, e col progresso e la civiltà anche il lusso e la magnificenza. I Borboni non erano taccagni come i Viceré, che ad altro non pensavano che ad accumolar tesori per proprio conto, spogliando i ricchi ed il popolo già estenuato. Alla servitù spagnuola un’altra ne seguiva, ma questa era preferibile! I balli e le feste date a Corte nel secolo XVIII resteranno memorabili.
Il risveglio dei Borboni
I saccheggi dei carri che solevano farsi alla presenza del Viceré scompariscono. Si mutano in spettacoli più grandiosi, nelle così dette «cuccagne», alle quali piglia parte tutto il popolo.
Il Carnevale acquista un carattere più maestoso. La Corte dà quattro grandi feste al popolo, e queste feste, che si chiamano appunto cuccagne, sono date al Largo del Castello perché tutta la plebaglia si possa sfamare, e vi possa pigliar parte allegramente. È giusto, dopo tanta miseria, che il popolo si riempia il ventre, almeno di Carnevale!
Le quattro cuccagne, alle quali assistette la Goudar, rappresentavano ognuna un soggetto storico. Una rappresentava l’Età dell’Oro, e vi si trovava un po’ di tutto: buoi squartati, montoni, capriuoli, volatili vivi e morti, agnelli e una quantità enorme di pane; e su tutto questo emporio di commestibili troneggiava una gigantesca statua di Saturno, il quale pareva tutto lieto di presiedere all’avido saccheggio della plebe affamata.
Un’altra era una esatta riproduzione dell’Assedio di Troia studiata sui quadri antichi; e non vi mancavano nè le torri, nè i bastoni, nè le mura. Qua e là, nel vasto recinto, sorgevano tende e padiglioni raffiguranti un accampamento, e per dare maggior verità allo spettacolo i soldati erano rappresentati da fantocci dipinti.
La terza era il Tempio d’Astrea. Sulla sommità sedeva gravemente la Dea; i muri erano di pane, e di altri commestibili erano composte le altre parti del Tempio: gli archi, le colonne, le volte. L’ultima, finalmente, rappresentava l’Incantamento d’Armida.
L’onda del popolo in via Toledo
L’ampia piazza del Castello formicolava sotto il sole. La plebaglia, tenuta a stento indietro da cordoni di truppa, divorava già cogli occhi avidi i cibi messi in mostra poco lontano, pronta a slanciarsi come una famelica turba di belve; e finalmente quando il colpo di cannone, lungamente atteso, scoppiava ripetendosi cupamente nell’eco, quell’onda di popolo, lasciata libera, irrompeva dilagava come impetuoso torrente; e in pochi minuti crollavano le mura dei templi e dei castelli; ed erano infrante le colonne, spezzati gli archi, distrutta ogni cosa dalle fondamenta. Ognuno afferrava quel che poteva, quel che gli capitava sotto mano, e gittava poi il bottino, più o meno pingue, tra le braccia delle donne, che non pigliavano parte all’assedio.
Notevole in quel Carnevale fu anche uno splendido banchetto offerto al corpo diplomatico dal Barone di Bretueil, ambasciatore di Francia e padrino dell’Infante reale Luisa Maria Amalia. Del resto, tutto fu magnifico in quell’anno. Il Re permise al Direttore del San Carlo di dare sei grandi balli mascherati, che riuscirono animatissimi. Un giocondo fremito di festa animò l’ampio teatro, tutto rilucente di specchi, di lumi, di dorature, troppo piccolo per contenere l’enorme folla che vi era accorsa. Il Re e la Regina v’intervennero anch’essi in ricchissimi abiti da maschera, né vi mancò Maria Carlotta, una delle più belle donne d’allora; né vi mancarono le più nobili dame napolitane, tra le quali la Goudar ricorda la Marchesa di San Marco, la principessa di Belmonte, la duchessa di Cassano, Donna Teresa Blanch, la duchessa di Popoli, la principessa di Caramanica, Donna Maddalena Stehoudi, la duchessa di Lusciano, la duchessa di Tursi, la duchessa Riario, la marchesa Cavalcanti, la marchesa Carignani, la principessa di Supino, la signorina Donna Margherita Branciforte figlia del principe di Bureta, la figlia del principe di Monterotondo, Donna Chiarina Marino figlia di Gensano, Donna Beatrice di Sangro ecc.
I carri della nobiltà
Soltanto le signorine non erano mascherate, e restarono nei palchi a guardare le danze che s’intrecciavano lietamente nell’ampia platea del teatro, trasformata in ricchissimo salone da ballo. «Lo spettacolo – scrive la Goudar – era superiore a quello dei balli dell’Opera». Ma oltre questi balli del San Carlo, altri non meno splendidi se ne dettero a Corte, dove fu recitata anche un’opera intitolata Orfeo.
Perfino i carri perdettero il loro carattere volgare, plebeo. Furono fatti costruire da signori, e non si badò a spese. Il più bel carro rappresentava un Pascià che conquista quattro nazioni, e le trascina incatenate a Costantinopoli. Ventiquattro guardie nobili turche aprivano il corteo, e, avanzandosi in ordine di battaglia, precedevano il Carro di Trionfo, che veniva innanzi maestosamente, coperto di drappi preziosi, di armi, di stendardi ricamati in oro e di tutte le spoglie rapite al nemico. Seguivano poi quattro altri carri trasformati in prigioni, ed in ognuno di essi erano rinchiusi dodici soldati incatenati, custoditi da guardie turche. Uno conteneva i prigionieri Calmucchi, un altro i Tartari, un terzo i Giorgiani, l’ultimo quelli del Gran Mogol; e tutti questi prigionieri erano nobilissime dame, duchi, marchesi e principi dell’epoca: il fior fiore dell’aristocrazia di que’ tempi.
Nel carro dei Calmucchi erano la principessa di Ferolito, la Contessa di Conza, Don Giovanni Carafa, Don Gerardo Lofredo, il marchese Petroni, Don Gaetano Petroni, il marchese Piatti, il marchese Cippagati e Don Marco Ottoboni. Su quello dei Tartari il principe di Caramanica, il principe di Conca, Don Onorato Gaetani, Don Saverio di Laone, Don Francesco Mauro, il marchese di Genzano, il conte Olari, Don Alfonso de Silva.
Veniva poi il carro dei Giorgiani, tra i quali erano: il barone Piccolomini, la duchessa di Lanciano, il principe di Lauro, il principe di Ottaiano, il duca del Passo, Don Giuseppe Minutolo, Don Nicola Ravaschieri, il conte di Conza, Don Carlo Stehoudi; e l’altro dei prigionieri del Gran Mogol, che erano raffigurati dal duca di Freggiano, dal duca di Dura, dalla principessa di Gerace, dalla duchessa Coscia, dal duca di Pietralcina, dal colonnello Stehoudy, dal principe di Coscia, da Don Paolo Ruffo, dal duca di Lusciano, da Don Ottaviano di Cesare, da Don Francesco Cordova, da Don Annibale Turbo e Don Domenico Caraffa.
Il corteo, lunghissimo, magnifico attraversò via Toledo tra gli applausi del popolo, tra la maraviglia dei curiosi che occupavano la strada, e gremivano terrazzi, balconi e finestre, e si pigiavano dappertutto ansiosi di vedere, colpiti dalla sontuosità dello spettacolo mai veduto fino allora. Un’ondata di suoni e di voci saliva da tutta da folla, che assiepava Toledo dividendosi in due ali per lasciare il passaggio libero ai carri; e che ondeggiava, si muoveva come un mare burrascoso, attraverso il quale si rincorrevano, come macchie di colore, su d’un fondo scuro, maschere di ogni genere: turchi, africani, selvaggi, chinesi, satiri, ciclopi, mostri marini, stregoni, indovini, Dei e Dee. E questa ondata di maschere si agitava al suono d’una marcia ottomana suonata dalla banda del magnifico corteo dei prigionieri, che si chiudeva con ventiquattro eunuchi, ventiquattro mori, ventiquattro giannizzeri e ventiquattro cavalli riccamente barbati e ricoperti di gualdrappe ai disegni preziosi. Luccicavano e splendevano le ricche armature e i vestiti cosparsi di gemme, e tra la folla estatica il corteo passava come una visione meravigliosa.
L’industria ed il commercio aumentarono sensibilmente: circa centomila ducati furono spesi in quel carnevale. Somma enorme per que’ tempi! Pei balli di corte e per quelli del San Carlo furono presi in fitto circa quarantamila abiti da maschera.
Il declino dell’800
La magnificenza carnevalesca durò sino alla fine del secolo XVIII, come si vede dalle descrizioni lasciate dall’Archenholz, il quale decanta egli pure la bellezza del teatro San Carlo e gli splendidi balli e le rappresentazioni che vi si davano in que’ tempi; e tra le mascherate più notevoli del camevale fa menzione di una rappresentante il gran Sultano ch’esce dal Serraglio di Costantinopoli per recarsi alla Moschea. Questa mascherata, i cui costumi furono disegnati da Vienne, il celebre pittore francese, non riuscì meno grandiosa e ricca dell’altra, descritta poco innanzi dalla Goudar.
Si componeva di più di due o tremila persone, e vi pigliavano parte, oltre tutti i nobili, anche il Re e la Regina. Si può immaginare da ciò la ricchezza degli abiti, tutti rilucenti di gemme, e la gara dei nobili nel mascherarsi il più elegantemente e bizzarramente che potevano. E questa turba di bellissime maschere, questo interminabile e maestoso corteo percorreva parecchie volte le principali vie della città durante gli ultimi giorni del carnevale.
Il lusso e la boria dei nobili di quell’epoca meravigliano non poco l’Archenholz, il quale si mostra stupito di vederli sdraiati in magnifiche carrozze tireate da quattro o sei cavalli e circondati da una turba di servitori armati di spadino e pronti a versare il loro sangue per salvare la vita dei padroni.
Tutto insomma è ricco, grandioso in quel tempo.
Predominano, soprattutto, il lusso e la grazia, giacché il Settecento fu nell’arte, nella moda, nella letteratura il secolo più civettuolo e raffinato; e questa civetteria, questa raffinatezza portò anche nelle sue feste e nei suoi divertimenti.
Il Carnevale raggiunse, a quell’epoca, la più alta espressione della eleganza. Poi andò, mano mano, declinando, ed ora può dirsi interamente sepolto. Basta dare uno sguardo ai veglioni e alle rare e povere mascherate d’oggi per convincersene. È inutile! Invano si tenta risuscitarlo con comitati promotori. Non si richiama alla vita un cadavere. È una storia ben pietosa e povera quella del Carnevale nel secolo XIX! È morta l’allegria, e i veglioni sono noiosi come le sedute della Camera. Invano i domino stinti, le baurte logore, gli abiti da pulcinella e d’arlecchino si sono dondolati tristamente al vento aspettando un compratore. Ne ho visti alcuni che avevano più del tragico che del comico. Si dondolavano colla rigidezza d’un impiccato. E che cosa triste e squallida le mascherate! . .. Quella non era delle gente che si divertiva. Erano dei cenciosi che cercavano di strapparvi un soldo facendovi ridere, e non si avvedevano che riuscivano semplicemente a destare un sentimento di pietà. Sotto la pioggia, tutto infangato, tutto intirizzito, incontrai, l’ultimo giorno di carnevale, un povero diavolo mascherato da Don Nicola. Era ridicolo, grottesco, colla giamberga unta e rattoppata, la lucerna spelata, gli occhiali giganteschi formati con due bucce d’arancia. Pure, con quel suo vestito così buffo, coi suoi lazzi e le sue facezie non riusciva a far ridere. Lo scacciavano di qua e di là dalle botteghe, dove s’insinuava con petulanza chiedendo qualche soldo.
Sotto quell’abito s’indovinava un corpo logorato dalla miseria; e quegli occhi sinistramente sbarrati dietro quegli occhiali grotteschi, facevano paura. Lontano, in qualche fetida viuzza di Porto 0 del Pendino, lo attendevano forse cinque o sei figliuoli laceri ed affamati.
G. Miranda – Breve storia del carnevale a Napoli – 1893
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