di Michele Eugenio Di Carlo
Ne Il magistrato che fece tremare il Duce, il testo a cura di Teresa Maria Rauzino che raccoglie, oltre alla cronistoria del processo Matteotti già pubblicata nel Dopoguerra, le memorie inedite di Mauro Del Giudice, possiamo finalmente appropriarci del pensiero dell’incorruttibile uomo di legge che aveva osato mettere sotto accusa indirettamente Benito Mussolini per l’omicidio Matteotti. Un magistrato, Del Giudice, acuto osservatore dei costumi e della morale pubblica dei suoi tempi, indignato per il degrado etico insinuatosi nelle classi dirigenti sin dalle fasi iniziali del nuovo Regno d’Italia, ma anche critico accorto delle politiche discriminatorie dei governi liberali che avevano condannato le popolazioni meridionali a miseria ed emigrazione.
Le Memorie, come rileva la presidente della sezione garganica della Società di Storia Patria per la Puglia, Teresa Maria Rauzino, sono scritte dal magistrato dopo il processo Matteotti e raccolte in un manoscritto donato da Del Giudice al comune di Rodi Garganico, perduto e ritrovato. Vengono ora finalmente pubblicate a distanza di ben novantaquattro anni, andando incontro al forte desiderio del magistrato affinché la verità non finisse nelle «tenebre della congiura del silenzio» e fosse abbattuto «il dente della calunnia».
Il magistrato aveva vissuto interamente la propria giovinezza nei primi decenni del nuovo Regno d’Italia, osservando le politiche trasformistiche che avevano tutelato finanza, banche, ricorrendo spesso a leggi liberticide per contrastare le masse popolari in rivolta.
Il padre Luigi, liberale, attenzionato dalla polizia borbonica per i moti del ’48, era stato il primo sindaco di Rodi Garganico del Regno d’Italia e si era distinto nella lotta contro i briganti. Commerciava agrumi e olio lungo le rotte adriatiche ma non era riuscito «a migliorare la condizione economica della famiglia», date le penose limitazioni a cui il Mezzogiorno era stato ridotto dopo la caduta dei Borbone. Disilluso dal regime sabaudo si ritirava dalla vita politica e quando, dopo il 1866, scoppiarono gli scandali delle Ferrovie Meridionali, della Regia dei Tabacchi e del processo Lobbia, soleva ripetere: «Ha ragione il Guerrazzi, perché realmente si stava meglio quando si stava peggio», invitando il figlio a stare alla larga dalla politica per evitare «guai e disinganni».
Un’opinione non isolata. Pasquale Villari, napoletano, docente di Storia all’Università di Firenze, nel saggio pubblicato nel 1866 Di chi la colpa? O sia la pace e la guerra, aveva già sostenuto che il processo unitario era avvenuto su base elitaria, privo di una vera coscienza nazionale e del consenso delle masse, oltre che in una condizione di totale dominio politico-militare del Piemonte. Nel 1875, Villari, futuro ministro della Pubblica Istruzione, conservatore benché riformista sociale, scriveva per il giornale di Torino L’Opinione le note Lettere meridionali, nelle quali annodava chiaramente l’insoluta questione sociale delle popolazioni rurali del Mezzogiorno a quelle agrarie e demaniali, altrettanto irrisolte. Le plebi rurali del Mezzogiorno erano ritenute non degne «di alcuno studio, né di alcun provvedimento che valesse direttamente a migliorarne le condizioni». La vendita dei beni ecclesiastici e di quelli demaniali connotava la mancata attenzione verso la costituzione di una piccola proprietà contadina, tanto da far scrivere al Villari che «quelle terre, in uno o in un altro modo, andarono e vanno rapidamente ad accrescere i vasti latifondi dei grandi proprietari» e che il trattamento da «schiavi della gleba» dei contadini non era migliorato dopo l’Unità d’Italia, rendendo manifesta la responsabilità ai governi liberali.
In quegli anni, Del Giudice, studente universitario a Napoli, frequenta le lezioni di diritto di Luigi Zuppetta, l’«assai onorato e apprezzato dalla gioventù studiosa, non solo per la sapienza ma anche per la vita purissima e per il patriottismo di vecchia data», e quelle di scienze giuridiche di Giovanni Bovio. Sei anni passati in una città in cui si era immediatamente ambientato, ricordati come «i più belli e giocondi» della sua vita, durante i quali osserva il clima politico e culturale dell’antica capitale, rilevando una vita pubblica tranquilla e lotte politiche che si svolgevano in un ambito relativamente sereno. Persino Vittorio Emanuele II era «popolare a Napoli», nonostante la città avesse conservato un’impronta borbonica.
Decisiva per la formazione del pensiero di Del Giudice l’amicizia con il giornalista Francesco Girace, in tempi in cui Napoli «non ancora era caduta nella fogna di corruzione e di pervertimento morale» cui sarebbe precipitata a fine secolo. Girace gli diede anche modo di conoscere Stefano San Pol, di cui aveva letto nel Quaresimale le impietose critiche ai politici liberali e democratici della generazione del 1848 e del 1860. Uomini che avevano deluso anche Del Giudice per il sistema di potere iniquo e illiberale che avevano messo in piedi. Una sorpresa San Pol: non un «intollerante clerico-borbonico», ma «un gentiluomo coltissimo, cortese e pieno d’affabilità», da cui il giovane studente trasse da una lezione importante: non giudicare mai i propri nemici o avversari prima di averli conosciuti di persona.
Ambiente universitario, frequentazioni, letture al caffè di via Forcella (Il Crociato e La Discussione, I Borboni al cospetto di due seculi di Giuseppe Buttà), lo inducevano anche a rivedere il giudizio inizialmente non entusiastico su Ferdinando II e sui Borbone.
Del Giudice nelle Memorie attacca spesso la magistratura post unitaria e, per dare più risalto alle sue accuse, si spinge a confrontare il retto comportamento tenuto da Ferdinando II nel caso Niutta (il noto e valente magistrato, minacciato nelle sue prerogative dal potentissimo Principe di Ischitella, era stato promosso dal re a Primo Presidente della Suprema Corte) con quello scandaloso tenuto spesso dagli esponenti dei governi liberali sabaudi. Ormai in pensione, era profondamente convinto che la natura principale dei mali che il popolo italiano subiva fosse da ricercare nella pessima gestione dell’amministrazione della giustizia, troppo spesso parziale e sottomessa al potere politico e finanziario.
Una collusione denunciata da Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino nel 1876 nel testo La Sicilia, che collegavano le infelici condizioni dei contadini siciliani alle condizioni amministrative e politiche e ai deleteri rapporti tra mafia e poteri locali.
Intrighi che non risparmiavano il governo nazionale, come, per esempio, nel caso dello scandalo finanziario della Banca Romana messo a tacere dal ministro del tesoro Giovanni Giolitti e dal capo del Governo Francesco Crispi. Un pantano in cui il più noto istituto di credito dell’epoca era scivolato per aver concesso prestiti privi di garanzia a potenti esponenti dei settori edilizi e industriali. Durante il processo i documenti attinenti la compromessa posizione di ministri, parlamentari, personalità influenti, venivano fatti sparire, in un contesto politico-giudiziario e mediatico omertoso, teso a tutelare i poteri forti di uno Stato in piena crisi morale.
Era esattamente la situazione oggetto delle accuse mosse da Del Giudice nelle Memorie.
Il rigore morale del magistrato gli impone di non fare sconti nel denunciare corruttele e malcostume, andando incontro alle conseguenze quando non si è «magistrati raccomandati… ovvero bene accetti a Ministri e a sottosegretari di Stato, per servizi resi a costoro in specie ovvero in genere al Governo».
Anche la sua famiglia aveva pagato a livello economico per le politiche antimeridionali dei governi liberali. Infatti, come affermato dai maggiori meridionalisti della sua epoca, mentre Milano aveva raddoppiato il numero di abitanti, il Sud aveva subito «imposte crescenti, la vendita dei beni ecclesiastici, l’ampliarsi del debito pubblico», oltre a un «un vero drenaggio di capitale». L’introduzione delle tariffe doganali, e la conseguente chiusura del mercato francese, aveva comportato la caduta innaturale dei prezzi di olio, vino e agrumi, ma anche l’aumento dei prezzi dei manufatti prodotti in regime protetto dalle industrie del Nord, gravanti sui produttori agricoli del Mezzogiorno. Per Antonio De Viti De Marco queste erano le due cause della «depressione economica cronica dell’Italia meridionale. L’una dovuta al protezionismo francese, l’altra al protezionismo italiano».
Durante la sua attività, Del Giudice aveva girovagato da un tribunale all’altro della Puglia, della Calabria, del Lazio e della Sicilia, non astenendosi dall’avversare decisamente pregiudizi sulle città e sugli abitanti che aveva avuto modo di conoscere. Come quando da Procuratore Generale del Re presso la Corte di Catania nel 1926, aveva verificato di persona la stima e la benevolenza che i siciliani di ogni ceto riservavano alle persone serie che svolgevano correttamente il proprio dovere. Per Del Giudice i siciliani erano a ragione sospettosi e «diffidenti verso i funzionari continentali». Diffidenza ampiamente giustificata da «una lunga e triste esperienza», che il magistrato nelle memorie spiegava con queste parole: «Come non dovrebbero i Siciliani essere diffidenti, se dal 1860 in poi i governanti dell’Italia, per sistema preso, hanno quasi sempre mandato in quell’isola sfortunata, che ha guadagnato tutti gli svantaggi e quasi nessuno dei vantaggi dell’unificazione, lo scarto dei funzionari?».
Sul potere politico illiberale, sulla magistratura asservita, sulla stampa consenziente, sullo sviluppo economico mancato del Mezzogiorno, il magistrato che fece tremare il Duce non la pensava diversamente dai maggiori esponenti del meridionalismo della sua epoca.
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