Da qualche decennio, ormai, non pochi «buchi» della storia, talvolta mitizzati dal Risorgimento, si stanno via via colmando per dare dignità ad una guerra insidiosa e spietata, combattuta senza regole e traboccante di violenze e di disprezzo nei confronti degli avversari, braccianti senza terra e paesani che rifiutavano la leva obbligatoria, tra i quali vi furono pure i briganti senza scrupoli, in un’Italia appena unificata, da un’armata che certo non è stata quella propostoci dall’apologetica costruita dalla tradizione risorgimentale, comandata da un generale, Cialdini, che parlando del Sud della penisola non si era fatto scrupolo di affermare «Questa è Africa! Altro che Italia! I beduini a riscontro di questi cafoni, sono latte e miele».
Valentino Romano, un ricercatore ormai molto apprezzato tra coloro che si interessano di storiografia meridionalista, nella sua ultima pubblicazione (Dalle Calabrie Agli Abruzzi. Il generale José Borges tra i briganti di re Francesco II), senza delegittimare lo Stato italiano e senza schierarsi nella logica dei neoborbonici, dà il peso che merita ad una pagina quasi completamente negletta dalla storiografia ufficiale, l’infelice impresa del generale José Borges, un ufficiale con alle spalle l’esperienza di comandante di brigata delle milizie combattenti, nel 1840, per la difesa del diritto al trono di Spagna di Carlo Maria Isidoro di Borbone e che, spinto da ideali legittimisti, accettò di tentare la riconquista del Regno delle Due Sicilie con una spedizione militare simile a quella messa in atto sessanta anni prima dal cardinale Fabrizio Ruffo.
L’impresa di Borges, per la prima volta esaminata minuziosamente nel volume di Romano, dimostra, ammesso che ce ne fosse ancora bisogno, che ad opporsi al regno sabaudo, nell’ex regno delle Due Sicilie, non furono solo dei delinquenti come Ferdinando Mittica, Carmine Crocco, Luigi Chiavone e qualche centinaio di altri briganti e che non è più possibile considerare il brigantaggio come un fenomeno esclusivamente criminale che, subito dopo l’unificazione italiana, non poteva essere combattuto se non con la durissima e immediata repressione, resa spettacolare dalle pubbliche esecuzioni nelle piazze, davanti a folle atterrite.
Dopo la pubblicazione di volumi come Brigantesse (Controcorrente, 2007), Nacquero contadini, morirono briganti (Capone Editore, 2010), Briganti e galantuomini, soldati e contadini (Laruffa editore, 2016) e, con Enzo Di Brango, Brigantaggio e rivolta di classe. Le radici sociali di una guerra contadina (Nova Delphi, 2017), questo nuovo volume è il frutto di più di venti anni di ricerche condotte dallo studioso pugliese negli archivi di mezza Italia. L’analisi della spedizione di Borges, che si avvale anche e principalmente dei diari del generale spagnolo (pubblicati in appendice al volume), non trascura una efficace, seppur breve, disamina della contraddittoria realtà in cui si trovò ad operare il governo in esilio di Francesco II, in una Roma divenuta «crocevia di legittimisti e idealisti, ma anche avventurieri e mercenari di tutta Europa».
Coloro che non avevano avuto il coraggio di rendersi protagonisti della difesa del regno delle Due Sicilie cercavano, nei caffè della città del Papa, di ritagliarsi un personale spazio di azione a tutela dei propri personali interessi, non soltanto di quel drammatico momento ma anche futuri. Non immune da simili atteggiamenti fu anche il gen. Tommaso Clary che tanta parte ebbe nella vicenda Borges nonostante, in Sicilia, si fosse dimostrato più incapace che vile, decidendo disastrosamente di frazionare i suoi uomini in tanti piccoli reparti, nel momento in cui avrebbero dovuto contrastare i garibaldini.
Romano, districandosi sapientemente nella documentazione ricercata in mille archivi pubblici e privati, confusa per la necessità di riservatezza delle informazioni contenute, ma anche per le difficoltà di comunicazione del tempo in cui quelle carte furono prodotte e, non raramente, per la volontà di cancellare le prove di fatti e misfatti di uno spietato esercito occupante, riesce a ricostruire le trattative che hanno portato al reclutamento del generale catalano e ai conseguenti rapporti da lui intrattenuti con esponenti borbonici come appunto Clary, ma anche Folco Ruffo di Calabria, principe di Scilla, e l’ambasciatore spagnolo Bermudez de Castro che Francesco II considerava forse uno dei pochi amici leali di cui potersi fidare.
Valentino Romano non si esime dal dare una giusta valutazione alle «Istruzioni per il Signor Generale Borgès» che Clary fece pervenire allo spagnolo, tramite il principe di Scilla prima della sua partenza per Malta con altri diciassette ufficiali carlisti né esita a definire “ambiguo” l’atteggiamento del generale borbonico: definisce Borges “Generale in Capo del Corpo di Spedizione”, ma ostacola ogni suo possibile contatto diretto con il re per porre se stesso come unico possibile intermediario tra i due.
Dalle pagine ancora fresche di stampa del volume appare chiaro che neppure il generale catalano accolse subito con entusiasmo la proposta ma, fedele agli ideali legittimisti, ritenendo l’ex Regno delle Due Sicilie l’unico campo dove si potesse ancora combattere «la romantica guerra tra la fede e l’ateismo, la monarchia di diritto divino e la rivoluzione», superati non pochi ostacoli derivanti anche da intrighi di corte e dopo una ricognizione a Messina e in Calabria, accettò di intraprendere l’impresa e l’11 settembre 1861 lasciò Malta su una speronara, con una ventina di uomini, per raggiungere la Calabria.
La narrazione di quella marcia che prese le mosse da una rada alla foce di una fiumara sulle coste calabresi, nel territorio di Bruzzano Zeffirio, un centro abitato che allora contava poco più di novecento abitanti, «al calar della notte del 13 settembre», è tanto affascinante che verrebbe voglia di riassumerla tutta, ma se io lo facessi toglierei al lettore il piacere di scoprire, pagina dopo pagina, lo spirito di una avventuroso militare che per la sua magnanimità è stato definito «cavaliere dell’eterna gioventù» e per i sui odeali un novello «Don Chisciotte».
Certo è che sin dai primi passi in terra Calabrese, da quanto scritto da Romano, si evince benissimo che Borges era stato mandato scientemente allo sbaraglio: era giunto in un angolo dell’ex regno delle Due Sicilie dove i tentativi di ribellione messi in atto da qualche borghese e da alcuni sacerdoti rimasti fedeli ai Borbone erano sempre destinati a fallire perché il popolo minuto restava indifferente ai cambiamenti politici.
Ad accoglierlo (il suo arrivo era già noto alle autorità sabaude) un notaio e qualche prete che non ebbero altra scelta che presentarlo a Ferdinando Mittiga, il capo di una banda di circa 120 uomini, la maggior parte armati, con il quale però i rapporti furono subito torbidi per le diverse intenzioni che animavano l’operato dei due: all’idealismo dell’ufficiale spagnolo si contrapponeva, infatti, la volontà di mettere a segno vendette personali di un «delinquente per private inimicizie», tanto da meritare il soprannome di Caci, da katia, che in Grico, l’idioma usato nell’area linguistica ellenofona della provincia di Reggio Calabria, significa cattiva fama, cattiveria.
Lo spagnolo, nella speranza di mitigare al presunzione di Caci che manteneva a sé il comando della banda, pur sapendo a quale rischio andava in contro, si piegò alla richiesta di attaccare Platì, il paese natale del brigante, nella notte fra il 16 e 17 settembre, andando incontro ad un clamoroso fiasco che pose fine al sodalizio.
Mittiga in fuga, con circa quaranta uomini rimasti con lui, tradito da un mugnaio, come afferma lo storico calabrese Vittorio Visalli, morì in un campo di Granturco alle undici di sera del 29 settembre 1861; il generale Borges, costretto a privazioni e a combattimenti impari con l’esercito, percorse tutte le montagne della Calabria, mentre al deposto Francesco II si faceva credere che la sua spedizione stava avanzando trionfalmente.
L’11 ottobre lo spagnolo raggiunse, provato e consapevole del completo fallimento della sua missione, giunse in Basilicata, ma il suo onore di soldato gli impone di scrivere sul suo diario «pure io marcerò finché potrò», confidando soltanto in Dio, ma anche convinto di dover rendere noto a coloro che lo avevano spinto in quella disperata azione il disagio in cui la loro inettitudine lo aveva posto, al re e a tutto il mondo la sua fedeltà ai suoi ideali di legittimista. Dalle pagine del libro Valentino Romano si percepisce lo sconforto che è ormai compagno dell’indomito soldato, costretto a valicare torrenti e fiumi, a subire qualche furto, ad assistere all’allontanamento di qualcuno dei suoi e alla sua ricomparsa inaspettata, tanto da percepire l’odore del tradimento.

Lui appunta tutto sul suo taccuino, ma anche se sfiancato da dubbi e da timori continua la sua disperata marcia, senza arrendersi con l’incredibile forza d’animo del militare a cui preme soltanto l’onore. L’incontro con Carmine Crocco e la sua banda fa rinascere in lui la speranza, anche se “il generale dei briganti” lucano evidenzia sin dall’inizio la diversità della sua azione rispetto a quella di quel «generale spagnolo», «uomo forestiero» e, come già aveva fatto Mittiga in Calabria, vuole essere lui a stabilire le condizioni. Borges e Crocco come giustamente afferma Romano, sono «i due pezzi da novata di un’epopea tragica […]: l’ultima vera spada europea del potere dinastico derivante da Dio il primo; principale forcone dell’insurrezione lucana il secondo», ciascuno dei due con il titolo di generale anche se guadagnato in maniere diverse e su diversi campi di battaglia.
Ma fu in Basilicata, come dimostra Romano con una puntigliosa narrazione dei fatti, che Borges ebbe qualche giorno in cui potersi illudere che quella lotta contro i piemontesi invasori potesse essere coronata da successo, fino a quando comparve sulla scena un personaggio al quale la storiografia ha riconosciuto un ruolo defilato, ma che ha meritato l’attenzione di Benedetto Croce e di Giustino Fortunato: Augustin MarieOlivier De Langlais, nato a Nantes nel 1822, presente a Roma nel 1859 con il grado di sottotenente degli zuavi pontifici del primo battaglione Cacciatori a piedi franco-belga.
Da tutti era considerato soltanto un collaboratore di Carmine Crocco, ma la sua presenza nella massa brigantesca sorprese Borges: dalle pagine di questo volume è possibile dare nuova luce a questo personaggio che Crocco Donatelli rivela essere stato il tramite tra il comitato borbonico napoletano e la sua banda e che gli forniva le armi, facendo arrivare centinaia di fucili da Potenza.
Se il rapporto di Borges con il “generale de briganti” non fu idilliaco, non lo fu neppure quello con il generale francese: «i due si annusarono, come animali che contendono un medesimo spazio», afferma Valentino Romano, ed il rapporto tra i due, in quei mesi in cui furono entrambi a fianco di Carmine Crocco, fu conflittuale.
Nelle pagine del volume dello studioso pugliese appare chiaro che all’origine di quella situazione conflittuale non fosse del tutto innocente Clary che, il 5 luglio del 1861, nel dare istruzioni a Borges, che si accingeva a partire per quella sventurata missione, così gli scriveva : «Non appena avrete riunita la vostra gente a Marsiglia e sarete pronto ad imbarcare in ordine alle relazioni e all’aiuto dei nostri amici di Marsiglia, voi mi scriverete per telegrafo a Roma, posto che io mi ci trovo sempre, nei seguenti termini: Langlois, Via della Croce». Proprio nella narrazione dell’incontro e dei rapporti tra i due generali contenuta nel volume di Romano si evince l’ambiguità di Clary.
Le pagine di questo volume ci pongono davanti ad un dubbio amletico: Borges era stato inviato a sollevare le Calabrie, mentre a De Langlais era stato assegnato il compito di guidare la rivolta in Basilicata? Pare ribadirlo lo stesso generale spagnolo nei suoi diari, ma forse egli lo aveva capito solo tardivamente: non si capirebbe altrimenti come mai fino ad allora si fosse comportato da comandante della missione in tutto l’ex reame dei Borbone, né si comprenderebbero la sua sorpresa quando si trovò vis à vis con De Langlais e gli ostacoli che quest’ultimo cercò di creargli in ogni modo e maniera.
Ci pare di poter leggere, tra le righe di questo originale volume di storia, che De Langlais non fosse semplicemente un convinto legittimista al servizio dei Borbone, quanto piuttosto un agente al servizio del ministero degli interni del suo paese. Tale ipotesi pare essere confermata dal ruolo politico da lui assolto dopo il suo ritorno in Francia: Commissario speciale del Ministro dell’Interno.
Nonostante gli intrighi, la massa armata registrò rilevanti successi fino a quando a Borges, completamente esautorato, non restò che seguire silente lo sviluppo degli eventi. Solo prima della fatale conclusione De Langlais andò a cercarlo nelle retrovie per offrirgli il comando nell’attacco contro Bella, un centro abitato in provincia di Potenza, ma lo spagnolo, come afferma Romano, orgogliosamente, risponde picche: «chi si arroga tutto deve dare indicazioni a ciò» e nei suoi diari completa il concetto «per provarmi senza dubbio che non è mai stato un militare».
All’ultima battaglia, quella di Pescopagano, Borges “partecipa da spettatore”. E’ la fine dell’impresa: Crocco riprese la via dei boschi, De Langlais comparve da solo a Roma, con barba e scarponi ai piedi, Borges fu l’unico a dirigersi verso il confine dello stato pontificio, forse nella speranza di riprendere la lotta unendosi alla banda di Luigi Alonzi detto Chiavone o, comunque, nel tentivo di arrivare a Roma per dare conto degli insuccessi.
In marcia da una settimana, inseguito dall’esercito sabaudo, quando era ormai quasi giunto al confine tra l’Abruzzo e il Lazio, decise di passare la notte tra il 7 e l’8 dicembre 1861a Sante Marie, un comune in Provincia dell’Aquila, presso la cascina Mastroddi, in località Luppa. Per raggiungere quel luogo si era servito dei consigli di un contadino del luogo che, subito dopo, ritenne forse vantaggioso informare la guardia nazionale. Il generale, dopo essere stato catturato, chiese di confessarsi in una cappella, assieme ai suoi compagni, poi, davanti al plotone d’esecuzione, poco prima di morire, gridò: «L’ultima nostra ora è giunta, moriamo da forti», abbracciò ai suoi uomini e cominciò a pregare in spagnolo, ma la sua preghiera fu interrotta dagli spari del plotone di esecuzione. «I corpi degli sventurati, spogliati di tutti i loro effetti personali, vengono seppelliti in fretta in una fossa comune nei pressi del cortile della caserma della Guardia Nazionale. Per intercessione del principe di Scilla e del visconte di Saint Priest, il generale La Marmora consentirà poi che la salma del generale spagnolo venga riesumata dal dott. Bernard, medico dell’ambasciata francese presso lo stato pontificio, e trasferita a Roma dove – nel febbraio del 1862, nella Chiesa del Gesù – vengono celebrate solenni esequie. Finisce così tragicamente l’avventura di un valoroso convinto fino alla fine di sacrificarsi per una nobile causa».

Giuseppe Antonio Martino