Il carnevale che passai a Napoli non fu certo brillante. Vidi tuttavia abbastanza per giudicare i piaceri del popolo, ed il popolo dai suoi piaceri. Il tutto si aprì con una cuccagna, il più barbaro spettacolo di questo mondo. Su un grande palco ornato con decorazioni rustiche, si pone una enorme quantità di viveri, disposti in modo da comporre essi stessi una parte delle decorazioni. Vi sono, barbaramente crocifissi, oche, polli, tacchini, che, infissi ancora vivi a due o tre chiodi, divertono il popolo con i loro movimenti convulsi fino al momento in cui gli sarà permesso di andarli ad arraffare.
Pagnotte, baccalà, quarti di bue, montoni che pascolano in una parte della scena, rappresentante un campo custodito da eleganti uomini di cartone, pezze di tela disposte in maniera di formare le onde del mare, sul quale si vede un vascello carico di, vettovaglie o di mobili secondo l’uso dei locali. Così è disposta, talvolta con un certo buon gusto, l’esca apprestata per questo popolo selvaggio, per eccitarne o meglio perpetuarne la voracità e l’amore per il furto. Poiché, dopo aver visto questo spettacolo, sarebbe difficile non convenire che si tratti piuttosto di una scuola di rapina che di una vera festa. Alla vigilia il palco, ormai già pronto, guardato da un picchetto di soldati, viene mostrato al pubblico, e tutta la città non manca di andare a guardare. Spesso la tentazione diventa così forte che il popolo forza la guardia e saccheggia la cuccagna prima del giorno destinato ad essergli sacrificata. Se attende, l’indomani, due ore prima di mezzogiorno, che normalmente è il momento indicato per il saccheggio, la piazza si riempie di una trentina di picchetti di granatieri e di qualche distaccamento di cavalleria, per mettere ordine fra una plebaglia alla quale sta per essere offerta la più terribile lezione di disordine. A mezzogiorno preciso tutto il popolo è nella piazza, tutta la città alle finestre, e sovente il re stesso spesso sta sul balcone del palazzo davanti al quale si apre questa piazza; ecco il cannone. A questo segnale si apre il cordone; il popolo si precipita e in un batter d’occhio ogni cosa è arraffata, saccheggiata, con una frenesia impossibile a descrivere. Questa scena terrificante, che mi diede, la prima volta che la vidi, l’idea di una muta di cani incitati alla corsa, termina talvolta tragicamente. Due concorrenti che si lanciano su un’oca o su un pezzo di bue non si sopportano impunemente; bisogna che ne decida la vita di uno o dell’altro. Io fui testimone di un orrore di questo genere che mi fece rizzare i capelli. Due uomini si attaccarono per un quarto di bue: l’affare ne valeva la pena, ne convengo.
Immediatamente salta fuori il coltello. A Napoli è l’unica risposta ad un diverbio. Uno dei due cade nel suo sangue. Ma il vincitore non gode a lungo della vittoria. I pioli sui quali si arrampica per andare ad arraffare il frutto gli mancano sotto i piedi. Coperto per metà dal bue, cade egli stesso sul cadavere del rivale. Feriti, morti, diventa un tutt’uno. Non si vede più che un ammasso, quando nuovi concorrenti, approfittando della disgrazia dei due vinti sbrogliano il lacerto di carne dai cadaveri sotto i quali è sepolto, e l’arraffano in trionfo ancora gocciolando del sangue dei loro rivali.
Il numero degli assalitori è costituito normalmente da quattro o cinquemila lazzaroni; è così che a Napoli si chiama la parte più vile e brutale del popolo. Otto minuti sono sufficienti a distruggere completamente l’impalcatura; sette o otto morti ed una ventina di feriti che spesso non sopravvivono è di norma il numero degli eroi che la vittoria lascia sul campo di battaglia.
Ho trovato un solo particolare che manca al sublime orrore di questo spettacolo: non lasciare i morti e i feriti alla vista di tutti, distesi sui resti delle decorazioni. Questo accorgimento sarebbe magniloquente ed è troppo degno del genio della nazione perchè un giorno non si possa avere la soddisfazione di vedere accrescere lo splendore di questo feroce spettacolo.
Normalmente durante il Carnevale si danno quattro o cinque cuccagne di questo genere: dipende dalla sua durata. È comunque uno spettacolo che si rinnova nei grandi avvenimenti. I parti della regina sono una occasione in cui non si manca di saccheggiare e di uccidersi per esprimere la propria gioia. Queste feste sono date dal re, ma è il popolo che le paga, e i macellai che forniscono i viveri possono imporre alla proprie derrate il prezzo che vogliono senza che la polizia intervenga a reprimere le loro vessazioni.
Se è lecito giudicare una nazione dai suoi gusti, dalle feste, dai divertimenti, che opinione si deve avere di un popolo cui sono necessarie tali infamie? Si afferma a Napoli che il re, il quale naturalmente teme il proprio popolo perché sa che la bilancia non è uguale tra l’indole rivoltosa dei sudditi e la debolezza del suo governo, si ritiene obbligato a dare queste feste. Gli hanno fatto credere che avverrebbe una rivoluzione se abolisse le cuccagne, ed egli la teme. Il suo potere, la sua forza ed il suo spirito sono tali che se gli andassero a dire che il popolo vuole saccheggiare la sua reggia, si ritirerebbe per lasciarlo fare.
(De Sade, Viaggio in Italia – 1776)
Chi era il Marchese de Sade
Donatien Alphonse François De Sade, detto Il Marchese De Sade, nacque nel 1740 a Parigi da una famiglia aristocratica e perciò, all’età di quattordici anni, fu iscritto alla scuola militare (riservata ai figli della più antica nobiltà). Nominato sottotenente a soli quindici anni, partecipò alla guerra dei Sette anni contro la Prussia, distinguendosi per il coraggio e per la sua propensione all’eccesso. Nel 1763 venne congedato col grado di capitano e iniziò a condurre una vita all’insegna della dissolutezza e del divertimento più sfrenato.
Costretto dal padre a sposare la ricca Renee Pelagie de Montreuil, il marchese De Sade continuò a mantenere lo stesso stile di vita precedente alle nozze. A testimoniare questa sua inclinazione, ci furono i diversi soggiorni in prigione, dovuti a diversi comportamenti poco consoni. Una volta, subito dopo le nozze, venne incarcerato per “comportamento oltraggioso” in un bordello; a seguire, venne messo ihn prigione, per aver rapito e torturato una donna.
Tornato in libertà, si diede nuovamente alla vita sfrenata, organizzando feste e balli nella sua tenuta di La Coste e iniziando a viaggiare in compagnia dalla sorella più giovane della moglie, Anne, di cui si innamorò e con la quale ebbe una relazione sessuale.
Nel 1772, anno in cui venne rappresentata per la prima volta una sua opera teatrale, venne accusato di avvelenamento a delle donne, con le quali stava intrattenendo rapporti sessuali assieme anche al domestico Armand. Riuscì a scappare in Italia, ma condannato a morte in contumacia, venne arrestato dalle milizie del re di Sardegna e rinchiuso nel carcere di Milano.
Dopo cinque mesi di reclusione riuscì a evadere e, dopo altri anni di orge, scandali e viaggi, venne arrestato a Parigi, dove iniziò a scrivere opere teatrali e romanzi.
Venne trasferito alla Bastiglia dove scrisse Le 120 giornate di Sodoma e Le sfortune della virtù. Nel luglio 1789, dieci giorni prima della presa della Bastiglia, venne trasferito in un manicomio.
Dopo un anno, gli venne ridata la libertà e tornò a vivere con la moglie, che stanca delle sue violenze, lo abbandonò assieme ai figli. Il Marchese si legò allora a Marie Constance Quesnet, una giovane attrice che gli rimarrà accanto fino alla fine.
Tentò di far dimenticare le proprie origini nobili militando nel gruppo rivoluzionario del suo quartiere, ma non vi riuscì e, nel 1793, venne arrestato e condannato a morte. Per un errore amministrativo, però, venne “dimenticato” nella sua cella e riuscì a evitare la ghigliottina e ad essere liberato nell’anno seguente.
Nel 1795 vennero pubblicati La filosofia nel boudoir, La nuova Justine e Juliette. Venne accusato dalla stampa di essere l’autore dell'”infame romanzo” Justine e, senza alcun processo, ma soltanto con una decisione amministrativa, nel 1801 venne internato nel manicomio di Charenton. A nulla varranno le sue proteste e le sue suppliche e, giudicato pazzo, ma perfettamente lucido, qui trascorrerà gli ultimi 13 anni della sua vita.
Morì nel 1814, all’età di 74 anni.