E’ stato uno degli eventi più drammatici dell’assedio di Gaeta. Quello che segnò una svolta nella guerra Tutto avvenne in pochi minuti, alle quattro del pomeriggio dei 5 febbraio, quando dalla batteria piemontese Madonna di Colica, cominciò a partire una pioggia di bombe. Ormai, la fortezza era stato fortemente danneggiata. Il giorno prima un altro massiccio bombardamento aveva colpito il deposito munizioni della batteria Cappelletti: 180 chili di polvere. “Il 5 febbraio, dopo le cannonate – scrive Di Fiore nella “Nazione Napoletana” – si sentì un boato da terremoto accompagnato da una pioggia incandescente di pietre, polvere, sabbia, pezzi di legno. I piemontesi avevano colpito un altro bersaglio importante: il deposito di munizioni alla batteria Sant’Antonio realizzata a denti di sega, dove erano rinchiusi 7000 chili di polvere da sparo. Un globo di fumo nero si alzò in aria, a quella vista gli artiglieri piemontesi urlarono «Viva l’Italia». Sotto una massa imponente di macerie, erano rimasti decine e decine di artiglieri napoletani, insieme con genieri che stavano ancora riparando i danni del giorno prima. Una serie di esplosioni a catena diedero l’impressione di non finire mai, le continue raffiche a ripetizione erano provocate dall’accensione di 40 000 cartucce da carabina e fucile all’interno del deposito. Le case lì intorno si sbriciolarono come fossero state di cartone, mentre dalle navi sardo-piemontesi partirono altre cannonate puntate sul luogo dell’esplosione, con l’intenzione di ostacolare i già difficili soccorsi.
Si sparse nella nebbia di fumo un’inquietante litania di lamenti, urla, bestemmie. La Sant’Antonio si era trasformata in un paesaggio spettrale, dominato da macerie e ruderi a rischio crollo. Un enorme cimitero di cadaveri accanto a decine di feriti che era impossibile soccorrere, per la distruzione totale dei camminamenti. «Fu orribile!» raccontò il cappellano Buttà. Era buio, solo i lampi delle bombe piemontesi illuminavano a intermittenza la scena agghiacciante. Collinette di macerie, nebbia di polvere, fumo circondavano le casematte della Sant’Antonio distrutte. Era un enorme sepolcro e gli ultimi cadaveri furono disseppelliti soltanto il 21 febbraio. Ben sedici giorni dopo e a resa firmata da tre giorni. Tanti morti erano civili, i loro corpi furono allineati uno accanto all’altro. Uomini e donne, che avevano avuto come unica colpa l’ostinazione a non voler lasciare le proprie case. Italiani che i piemontesi avevano dichiarato di voler liberare dall’oppressione borbonica. Di quei cadaveri se ne contarono almeno un centinaio, di ogni sesso ed età. Nel gruppo, anche un’intera famiglia di undici persone, con una donna vestita di scuro. Si chiamava Carmina Barone. Il marito, Pasquale Trecentese, era scampato per il solito gioco fortuito del destino: era uscito di casa poco prima dello scoppio. La conta delle vittime fu tragica: 212 soldati e 4 ufficiali morti. Vennero tirati fuori dalle macerie anche 82 soldati e 2 ufficiali feriti. Molti corpi di uomini, in servizio sulla Sant’Antonio al momento dello scoppio, non furono mai trovati, altri erano irriconoscibili. Brandelli di arti lacerati, carni sparse e sangue ovunque”.