Al tempo del coronavirus nel “silenzio” di un corridoio colmo di libri, uniche presenze rassicuranti, «si consumano pensieri che nel tempo sospeso ingigantiscono la fragilità che s’avverte insolente nel corpo e nell’anima». Lo scrive Gennaro Malgieri, ex direttore de Il Secolo d’Italia, Tra un tg e l’altro per tenermi informato sulla guerra al virus, il mio sguardo si ferma spesso sui miei libri, deposito di una civiltà. Individuando quelli da leggere, conclusa la lettura, li propongo con ampie recensioni ai vari blog dove collaboro.

Lo sto facendo anche in questi giorni di forzata quarantena, e seguendo il mio interesse per la Storia del risorgimento, sono andato a leggermi due preziosi libretti curati da Tommaso Pedio, un valido storico che si occupa di storia del brigantaggio meridionale. I testi sono «Josè Borjes. La mia vita tra i briganti», e «Carmine Crocco. Come divenni brigante», entrambi inseriti nella collana, “Briganti e galantuomini”, pubblicati nel gennaio del 1964 da Lacaita Editore (Manduria, Taranto).

La figura del brigante è stato oggetto di studio, di ricerca e riflessione di diversi studiosi, in particolare dopo la caduta del Muro di Berlino, che sono caduti certi pregiudizi ideologici, tra i quali quelli di un Risorgimento italiano aureo che ci ha portati all’unità del Paese. Ci sono stati studi che hanno cercato di interrogarsi sul modo come è avvenuta questa unità. Dopo la conquista del Sud nel 1860, con la vittoriosa cavalcata della colorita spedizione di Giuseppe Garibaldi, che attraverso i finanziamenti inglesi, il sostegno del Regno Sardo-Piemontese, e soprattutto il tradimento di quasi tutta la classe dirigente borbonica, ha espropriato un Regno legittimo a livello di diritto internazionale, il Regno delle due Sicilie. Consegnato questo regno a Vittorio Emanuele, quasi subito è nata una insurrezione, una insorgenza, una resistenza popolare, definita dalla storiografia ufficiale: brigantaggio.

La resistenza che si presenta con varie modalità, dall’opposizione parlamentare al malcontento della popolazione cittadina, al rifiuto della coscrizione obbligatoria, alla diffusione della stampa clandestina e la polemica condotta dai migliori pubblicisti del regno. La resistenza armata, però, è il fenomeno più evidente, che coinvolse non soltanto il mondo contadino ma tutta la società del tempo. Una resistenza che ha il epicentro soprattutto nei territori della Lucania e delle Puglie (la Terra del Lavoro). In Lucania tra i cosiddetti briganti ci sono state due figure che si sono distinte più di altre, mi riferisco al generale spagnolo Josè Borjes e a Carmine Crocco.

Nel 1° volume (102 pagine) Pedio presenta i diari del generale spagnolo. Prima della pubblicazione del taccuino del generale, Pedio descrive la situazione militare, politica e sociologica del nostro mezzogiorno.

Ritiratosi l’esercito borbonico nelle provincie meridionali rimangono pochi uomini decisi ad opporsi al nuovo Stato liberale, tra questi i ricchi galantuomini e l’alto clero, che si rendono promotori della costituzione di Comitati Segreti Borbonici. «Sfruttano il malcontento provocato dalla situazione economica-politica venutasi a creare nell’ex Regno delle Due Sicilie e danno vita ad un vasto movimento legittimista che raccoglie simpatie ed adesioni un po’ ovunque ed in ogni ceto sociale».

Il maggior malcontento si evidenzia tra i contadini, che all’inizio avevano condiviso con un certo entusiasmo l’avanzata dei garibaldini che promettevano la spartizione delle terre. Ben presto l’entusiasmo si è trasformato in delusione. Così cercano di ottenere vantaggi appoggiando un’eventuale restaurazione borbonica.

Ad accrescere il malcontento per Pedio è il bando nel dicembre 1860 con il quale vengono richiamati sotto le armi i giovani meridionali, chi non si presenta e viene scoperto, sarà immediatamente fucilato. E’ capitato a Scurcula il 22 gennaio 1861. «I contadini meridionali, atterriti da quel sistema inumano, di cui non ricordano l’eguale […] i notabili borbonici, il clero legittimista e anche alcuni degli antichi carbonari,intervengono e riescono a trasformare quel disorganizzato movimento sociale in un organizzato movimento politico».

A Roma, dove intanto si sono rifugiati Francesco II e Maria Sofia, legittimisti e cattolici, convenuti da ogni parte d’Europa, premono per accorrere oltre il confino ed opporsi al nuovo regime che si propone di sradicare i principi fondamentali cui questa gente ancora crede. Tra i più noti c’è Teodoro Christen, de Lagrange, Oliveiro de Langlois, Alfredo di Trazegnies, Raffaele Tristani. Tutta gente che naturalmente la storiografia ufficiale ha condannato alla morte più totale.

Per questi legittimisti occorreva trovare un uomo capace di ripetere l’insurrezione generale del cardinale Fabrizio Ruffo. Per questo il generale Clary, che è capo del Comitato borbonico di Marsiglia, si incontra con Josè Borjes, generale delle forze carliste in Spagna. Borjes si convince e tenta l’impresa, Clary gli espone le direttive generali a cui deve attenersi.

Pedio, elenca tutte le istruzioni del 5 luglio 1861 consegnate a Borjes che dovrà recarsi nelle Calabrie per proclamarvi l’autorità del legittimo Re Francesco II. Da quello che abbiamo studiato, forse il Clary ha sbagliato territorio, perchè i calabresi tutto pensavano tranne che sollevarsi contro il nuovo Regno. Nelle direttive il generale Clary promette tante cose, fucili in abbondanza, mezzi e ufficiali con uomini pronti per l’insurrezione.

Vedremo che non sarà così già nella partenza da Malta, Borjes ha avuto diverse difficoltà, poi con lo sbarco nella costa jonica, nella marina di Gerace, non c’è nessuno ad attenderlo. E’ interessante il racconto dettagliato del generale spagnolo. Spesso oltre a descrivere i suoi incontri con la Guardia Nazionale che gli dà la caccia, spesso si sofferma a descrivere il paesaggio calabrese, annotando l’enorme potenzialità che hanno questi territori, potrebbero dare molto di più se ben coltivati.

La popolazione, che secondo l’assicurazione di Clary e del principe Ruffo, sarebbe insorta ed accorsa ad ingrossare le sue file, rimane indifferente. Borjes e i suoi compagni si trovano isolati. Ho l’impressione che Josè Borjes è stato mandato allo sbaraglio con soli pochi uomini (nel suo diario, più di una volta, si è lamentato con se stesso,”Qual danno che io non abbia 500 uomini per farmi ubbidire prontamente!”). La stessa sorte era capitata a Carlo Pisacane, ma almeno lui li aveva trecento uomini.

La popolazione calabrese era diffidente, probabilmente non si fidava di quel piccolo esercito. Dopo tante disavventure, Borjes è arrivato a incontrare Crocco nel bosco di Lagopesole. «l’accoglienza non è cordiale: Crocco, con il quale è anche il de Langlois, non intende cedere ad altri il comando dei suoi uomini». Ben presto il generale spagnolo si rende conto «di trovarsi di fronte ad un uomo che agisce per fini diversi da quelli che hanno indotto i volontari spagnoli ad accorrere in Italia meridionale». Nel diario Borjes annota giornalmente, naturalmente sintetizzando quanto ha visto e sofferto, ha rilevato gli aspetti della miseria in quel Paese che voleva riconquistare al sovrano deposto. Ha registrato i tanti tradimenti, la difficoltà nel procurarsi il cibo, le azioni di guerriglia o di guerra vera e propria con l’esercito regolare sardo-piemontese, ma anche i contrasti con gli stessi briganti e col loro capo Carmine Crocco. Nonostante queste difficoltà di intesa tra i due generali, l’esercito degli insorti si ingrossa fino ad arrivare a 2.000 uomini. I briganti guidati da Borjes ottengono anche diverse vittorie e conquiste di piccoli e grandi centri abitati. I nomi dei centri sono annotati uno dopo l’altro, tra quelli più significativi: Stigliano, Grassano, Avigliano, Ricigliano, Pescopagano e poi i tanti boschi, teatro di sanguinosi agguati.

Alla fini i contrasti con Crocco diventano insanabili, Borjes è costretto ad abbandonare il campo, la sua missione fallisce, ritorna a Roma con alcuni suoi fedelissimi, attraversando montagne, sentieri, fiumi, alla fine braccato incessantemente dalle truppe dell’esercito piemontese, nella Marsica, presso Tagliacozzo, soltanto a dieci chilometri dal confine dello Stato Pontificio, l’8 dicembre 1861, viene catturato e ucciso insieme ai suoi generosi compagni.

Borjes è stato definito l’antigaribaldi, purtroppo non ha avuto la fortuna del nizzardo, anche perchè non gli ha dato nessuno gli stessi mezzi, uomini, denari, sostegno logistico sul territorio e soprattutto i tradimenti del nemico, tutte cose che Garibaldi ha avuto.

 

 DOMENICO BONVEGNA

domenico_bonvegna@libero.it

Il libro riproduce il taccuino del generale spagnolo José Borjes (Vernet 1803 – Tagliacozzo 1861), intervenuto nel Mezzogiorno per conto delle forze legittimiste per fomentare le azioni di guerriglia dei briganti contro il nuovo Stato unitario; vi si descrivono dal settembre al novembre 1861 con stile asciutto le azioni in Basilicata, l’incontro con Carmine Crocco, con cui Borjes ebbe un rapporto difficile e che infatti finirà per agire per proprio conto, il reclutamento di nuovi “briganti” soprattutto in Lucania, l’abbandono del più realista Crocco (descritto nel peggiore dei modi), la faticosa ritirata tentata verso Roma. Così si conclude, bruscamente, il taccuino di Borjes, nel quale la verità storica è spesso vista con la lente deformante del protagonista degli eventi narrati. Un’introduzione storica a cura di Tommaso Pedio e un’appendice, recante il rapporto del 9 dicembre 1861 redatto dal maggiore Franchini dell’esercito sabaudo, che informa i superiori dell’avvenuta cattura e fucilazione di Borjes e di chi lo seguiva, aprono e chiudono il libro e la vicenda di una pagina dolorosa e appassionante del Risorgimento italiano vista con gli occhi di un suo oppositore, viaggiatore soprattutto di Lucania per motivi militari.