Di Christian Marra
Quel giorno, tutti i giornali di Napoli tacquero la notizia. Nessuno violò il patto. Così in prima pagina ci andò, nei casi migliori, il comunicato dell’Agenzia Havas, che riportava il telegramma inviato da Pietroburgo dall’ambasciatore italiano sette giorni prima, datato perciò 23 agosto: “Contrariamente a certe voi allarmanti, diggià smentite, ma ripubblicate nuovamente con insistenza dall’Agence Ruste che non è affatto l’organo ufficioso del governo, da alcuni giornali francesi, dal Tageblatt di Berlino e da altri giornali esteri, notizie attinte alle migliori fonti, permettono di affermare categoricamente che la Russia né prepara né medita nessun intervento militare in Corea”.
Questa non sarebbe stata una notizia in nessun altro caso: la guerra fa notizia, la pace fa notizia. Le non-guerre non interessano a nessuno. Ma a Napoli, il 29 agosto 1894, doveva essere un giorno come gli altri.
Una cantante di teatro
A Roma, invece, il secolo stava finendo prima che altrove: a guardarlo da certi angusti angoli del mondo, postriboli affollati del pulviscolo di disperati in cerca di sollievo, il secolo degli splendori e della gloria sbiadiva; pareva venisse ingoiato dai fumi della stessa perdizione che aveva generato. Tenuto in vita a stento, si stava estinguendo senza lasciare traccia.
Continuava a fissare il soffitto della camera d’albergo, nel tentativo di recuperare le forze: prese ad osservarne ogni damascatura, seguendone il tracciato sinuoso e vago fino a che questa non si perdeva in un’altra, per poi ritornare ad essere di nuovo la stessa. E rifletté sul fatto che, in fondo, questo era anche il destino di tutte le storie, di tutte le vite umane. Pago di quella riflessione, allungò una mano fuori dalle lenzuola alla ricerca del portasigarette d’argento, ma il peso di lei addosso glielo impedì.
“Je t’aime”, sussurrò la ragazza al suo orecchio.
Con un piccolo sforzo, riuscì lo stesso a toccare il portasigarette con la punta delle dita ed infine a prenderlo. La prima boccata di fumo lo riempì completamente. C’era tanto silenzio nella stanza che si poteva sentire la carta della sigaretta bruciare.
La ragazza sapeva che il suo uomo era sposato, ma aveva di che sperare: la moglie era andata via per un periodo, e da allora di lei non parlava più, nemmeno adesso che era tornata. La stava dimenticando, ormai ne era convinta. Si stava dimenticando di sua moglie.
Per questa ragione la ragazza, Gabrielle, una cantante di teatro, non era più voluta tornare in Francia: ma questo, lui, non lo sapeva.
Continuava ad incontrarlo dopo ogni spettacolo. Come la prima volta, quando lo vide tra il pubblico plaudente, e le parve che i suoi occhi fossero gli unici a vederla davvero, gli unici che sentiva nonostante li avesse tutti quanti addosso, gli unici occhi, tra quelli in platea, il cui sguardo non riuscì a sostenere.
Lui la aspettava sempre nel solito albergo, che dal teatro dove si esibiva distava solo pochi passi – che Gabrielle percorreva di corsa, un po’ per la smania, un po’ per non essere fermata da ammiratori e curiosi – e rimanevano insieme tutta la notte.
La cantante di teatro non poteva saperlo, ma proprio quella notte, lui aveva sentito – improvvisa – la nostalgia di sua moglie. Si sarebbero rivisti solo un’ultima volta, dopo quella notte. A Napoli, pochi mesi dopo.
Il prezzo della fedeltà
Nei vicoli di Napoli, ogni voce diventava presto mille voci. Rimbombando nel ventre oscuro di quella città maledetta cresceva, scorrendo sul fondo del labirinto privo di luce, attraversando quelle sue vene nere, raggiungeva ogni parte di quel corpo immenso adagiato sul golfo, costantemente invaso dall’ultimo sprazzo di vita di un animale morente.
Così, quando il Corriere ruppe il patto e pubblicò la notizia, tutta Napoli seppe ciò che la gente dei vicoli già sapeva.
Gabrielle rimase così, quella mattina del 29 agosto 1894, distesa sul prato davanti casa di Matilde e di suo marito, con la Bodeo ancora fumante tra l’erba. Lo sparo non turbò la bambina che era con lei. La quale pianse, è vero: ma per il boato, non per sua madre.
“Perdonami se vengo ad uccidermi sulla tua porta come un cane fedele. Ti amo sempre”.
Il biglietto che suo marito raccolse tra le dita di Gabrielle palesò a Matilde quello che lei, a modo suo, già sapeva. Era ancora molto piccola quando suo padre, giornalista come lei, la mise in guardia dal suo dono:
“Tu riesci a vedere la verità prima che accada. Per questo è necessario che impari a difenderti, perché la verità verrà a cercarti, prima o poi”. Quel dono era anche il motivo alla base del fatto che le altre donne, mogli degli altri nobili che incontrava nei salotti e nei caffè di Napoli, le apparivano quasi invisibili, insostanziali, e questo loro non glielo avrebbero perdonato mai.
Purtroppo, aveva dimenticato quel prezioso monito quando, tempo prima, aveva deciso di partire. Suo marito era quello che era, e lei lo sapeva. Non lo avrebbe cambiato, ma non lo avrebbe lasciato. Aveva solo bisogno di aria buona. Aria buona e tempo per riflettere.
Quando tornò, la verità che aveva davanti agli occhi era identica a quella che aveva immaginato di vedere.
Ali di farfalla
Da quando era tornata, Matilde aveva ripreso lo stesso infernale ritmo di prima. Anche adesso, per chi la guardava lavorare alla sua scrivania, a tessere tele immaginarie con parole d’inchiostro e piombo, sembrava che nulla fosse cambiato.
“Sta passànn a’ signòr!”, gridavano gli scugnizzi ogni mattina, mentre Matilde attraversava i bassi per andare alla redazione del suo giornale. Le mogli degli altri, diceva suo marito, non se ne vanno in giro in posti come quelli. Matilde sapeva che era più al sicuro nel ventre di quella città che in qualsiasi altro luogo fuori da lì.
L’odore della polvere da sparo le aveva riportato quasi in superficie un ricordo sbiadito, dapprima, e che poi si fece circostanza. Emerse dalle nebbie del tempo e ritornò episodio. Risaliva al primo giorno in cui suo padre la portò con sé in redazione, e c’era lo stesso identico odore che era venuto fuori da quella pistola: piombo furente, zolfo e frenetica impazienza.
Erano a Roma – e lei era così giovane che la città non era ancora capitale d’Italia – ed era una mattina di marzo, timida e dolce sulla pelle, quando le si posò una farfalla sul viso, proprio mentre suo padre spingeva il portone della redazione.
Un segno: quello doveva essere il presagio di un destino glorioso, pensò suo padre. Matilde non aveva ancora imparato a scrivere – molte delle sue coetanee di allora non lo avrebbero mai fatto – e per questo suo padre ebbe un sussulto quando lei disse che forse era vero che le farfalle portano fortuna, ma solo per tre giorni, poi bisogna cavarsela da soli.
Nessuno dei presenti si stupì quando, anni dopo, in uno dei bei salotti di Napoli, una nobildonna le fece notare che non la si vedeva mai alla messa domenicale, e lei rispose solo: “Io prego lavorando”.
Un secondo battesimo
La mattina in cui il Corriere di Napoli ruppe il patto e pubblicò la notizia del suicidio di Gabrielle Bessard, l’amante di Edoardo Scarfoglio nel giardino di casa sua, Matilde arrivò in redazione prima degli altri giorni. Nessuno dei suoi, al giornale, avrebbe puntato un soldo sul contrario. Vi regnava una quieta instabilità: quei fedeli soldati aspettavano solo di sapere come reagire.
Ed in effetti un articolo su Il Mattino del giorno dopo uscì davvero: Il fatto della Bessard e le bassezze del signor Schilizzi – che era il direttore del Corriere – ma non fu Matilde a dare l’ordine. Non era quella la sua battaglia. Tutti intenti a salvare l’onore. A salvaguardia della reputazione.
Intanto, Matilde aveva già deciso. Le avrebbe dato il nome di sua madre. Paola. La bambina rimasta nell’erba, tra la Bodeo fumante ed il cadavere della cantante francese, si sarebbe chiamata Paola.
Il personaggio: