Con la fiction televisiva de Il Nome della Rosa si ritorna a parlare di Medioevo. Purtroppo però insieme al film sono ritornati i soliti pregiudizi, stereotipi, sui dieci secoli, comunemente classificati con disprezzo: «età di mezzo». Almeno questa è stata la leggenda nera che hanno ripetuto per tanti anni. Ma da qualche tempo le cose sono cambiate, ci sono fior di studiosi che hanno documentato la vera storia di quei secoli, che dovrebbero essere chiamati della Cristianità europea. Certo nessuno vuole fare del medioevo, una leggenda aurea, anche allora non mancarono le nefandezze. Tuttavia ormai sono pochissimi quelli che bollano il medioevo come secoli bui.
Per quanto riguarda la fiction di Rai1, io ho preferito passare le serate nella lettura di un volume, che “mi stava aspettando da tempo per essere letto”. Si tratta di «Medioevo al femminile», pubblicato da Edizioni CDE spa Milano (1989). L’opera è stata scritta da un gruppo di validi studiosi: Ferruccio Bertini, Franco Cardini, Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri e Claudio Leonardi.
Gli studiosi ci portano a scoprire gli aspetti più curiosi e inediti della storia tra il IV e il XIV secolo attraverso una documentazione originale e mai indagata. Ci offrono la storia di otto donne straordinarie che, in modo diverso, si distinsero in campo politico, culturale o religioso.
Nell’introduzione Ferruccio Bertini subito si domanda, è meglio «scrivere sulle donne o leggere le donne?». Il testo sembra privilegiare la seconda ipotesi. Pertanto meglio, «leggere le donne». Perchè «scorrere la letteratura medievale al femminile riserva straordinarie sorprese, rivela aperture inattese e insospettate».
Questo libro per certi versi smentisce «il vieto luogo comune, troppo largamente diffuso, secondo cui il Medioevo sarebbe stata l’epoca storica in cui la donna fu maggiormente svilita e oppressa e in cui il maschilismo e misoginia si coniugarono più felicemente». Questo accade secondo Bertini perchè si prescinde quasi totalmente dai loro scritti, si ignora la loro diretta testimonianza. Infatti lo scopo del libro è stato proprio «quello di restituire la voce alle donne medievali e di mostrare che il Medioevo, contrariamente a quanto si crede, fu la prima età storica in cui le donne raggiunsero un notevole grado di emancipazione sociale e culturale e cominciarono a porre le basi di quelle rivendicazioni di parità e uguaglianza che sono ancora oggi oggetto di battaglie dall’esito tutt’altro che scontato». Naturalmente occorre tenere conto dell’epoca storica e soprattutto per capire, non guardarla con gli occhi del nostro tempo.
Ma nell’età che precedette il medioevo, la donna com’era trattata? Nell’area del Mediterraneo sostanzialmente aveva la funzione di procreare, è sempre stata emarginata e discriminata, esclusa dal potere. Anche se ci sono state donne che si sono imposte come Cleopatra, Messalina, ma costituiscono eccezioni. Anche nell’antica Grecia, la patria della democrazia, della civiltà, la donna era confinata nel gineceo, non poteva cioè uscire liberamente di casa, non godeva di alcun diritto politico e non partecipava mai alla vita sociale, se non in occasione di qualche festività religiosa.
A Roma qualcosa è cambiata, la donna acquistò via via maggiore libertà di movimento e di autonomia. Fu considerata la regina della casa e fu affidato l’alto compito di educare i figli preparandoli a diventare “cittadini romani”. Con la venuta di Gesù si rivaluta la natura e la dignità della donna, così come dei poveri e degli umili. Quella di Gesù fu una liberazione dalla schiavitù del diavolo e dal peccato, una liberazione che ha avuto conseguenze anche sul piano sociale e politico.
Il libro affronta la questione della verginità, del vincolo matrimoniale, per certi versi si arrivò ad una specie di conflitto, una costante nel periodo dei Padri della Chiesa occidentale, che «pur sostenendo la liceità del matrimonio, furono tutti ferventi paladini della verginità». Sembrerebbe che le persone che contavano, che “facevano opinione”, nel mondo medievale, avessero un atteggiamento misogino. Ma accanto alla figura di donna in negativo (femina instrumentum diaboli), c’è quella positiva (mulier sancta ac venerabilis).
L’ideale mistico della donna, ha il suo archetipo in Maria, ma anche qui primeggia la figura della vergine. E tuttavia secondo Bertini, la donna nel medioevo ha avuto modo di riscattare «la propria debolezza e inferiorità liberandosi al tempo stesso dell’abituale stato di soggezione nei confronti dell’uomo: basta che consacri la propria vita alla verginità».
Lo stesso S. Ambrogio aveva teorizzato la liberazione della donna attraverso la scelta della verginità, una teoria che ha trovato tanto favore nel medioevo. A riprova di ciò Bertini scrive: «L’incredibile quantità di matrone e di pie donne, e perfino di monache, che abbandonavano casa e famiglia, o monastero, per seguire san Gerolamo o Rufino di Aquilea, che spendevano senza esitare tutto il loro patrimonio per visitare i Luoghi Santi, per occuparsi dei poveri e degli infermi è la riprova della forte emancipazione raggiunta tra la fine del IV e l’inizio del V secolo dalle donne romane convertite al cristianesimo». Pertanto, virgines o viduae, esse «si muovevano liberamente fuori dagli angusti orizzonti domestici e, dedicandosi con fervore allo studio dei testi sacri, acquisivano anche un apprezzabile livello culturale».
Certo stiamo parlando di donne, fanciulle benestanti che sceglievano la vita monacale o venivano avviate. Il convento offriva a molte di loro la possibilità di ricevere un’educazione e raggiungere un senso di responsabilità e di indipendenza.
Al vertice e alla guida di queste istituzioni c’erano badesse che acquisirono autorità pari a quelle dei vescovi. Amministrarono vasti territori, godettero poteri simili a quelli di un signore feudale. E comunque Bertini chiarisce che dal loro operato emerge che nonostante si rendono conto di essere deboli e assoggettate, fanno di tutto per contestare questa situazione. Rosvita per esempio vuole dimostrare che la donna anche se è «l’instrumentum diaboli per eccellenza, ha la facoltà di diventare, se lo vuole, formidabile strumento della grazia divina».
Anche Ildegarda di Bingen «non mette mai in discussione il fatto che la donna sia naturalmente soggetta all’uomo perchè ciò è voluto dal disegno di Dio, che ha creato l’uomo più forte e la donna più debole […]». Ma questo però non significa, «l’inferiorità della donna e la sua dipendenza dall’uomo, ma, al contrario, l’interdipendenza reciproca. Ne consegue una valutazione positiva del matrimonio e la legittimazione del piacere nell’ambito della sessualità coniugale, se finalizzata alla riproduzione».
Tuttavia tra il X e il XII secolo, le donne, a livello di espressione scientifica e letteraria, «andavano manifestando significative forme di reazione all’immagine stereotipa dell’inferiorità femminile costruita attraverso i secoli della cultura maschile […]».
‘Medioevo al femminile’, si apre con la figura di Egeria, visse nel IV secolo, originaria del Sud della Gallia, o del nord della Spagna, era monaca (forse abadessa) conosciuta per i suoi viaggi, fino a raggiungere i Luoghi Santi. E’ presentata dallo storico Franco Cardini. Qui si sottolinea l’agire in libertà di una donna che può disporre del proprio tempo e di decidere liberamente di viaggiare. Probabilmente Egeria disponeva di considerevoli risorse economiche e magari non fosse condizionata da nessun vincolo, neanche da quello del convento. E’ interessante oltre alla descrizione particolareggiata dei percorsi tra i Luoghi dove è vissuto Gesù, “lo spettacolo” che il professore Cardini descrive nella Gerusalemme al tempo dei viaggi di Egeria. «Un vero diluvio di matrone sommerge la Gerusalemme dell’età geronimiana; dopo Melania, ecco sua figlia Albina, e Melania “Iuniore” figlia di questa; ed ecco si può dire tutte le donne del potente prefetto del pretorio Rufino (la moglie, la figlia, la cognata); certo non tutte dovevano comportarsi in modo esemplare, se Gerolamo se la prendeva talora con il lusso e la libertà di costumi che esse ostentavano».
Del testo di Egeria emerge una folla pittoresca di pellegrini, di «monaci o asceti, maschi e femmine, di stato giuridico molto fluido. Si trattava di ‘gente di Dio’ che affollava promiscuamente la Città Santa dormendo alla meglio in ospizi o in alloggi di fortuna, ntrendosi di quel che capitava, vivendo di elemosine […] gente di provenienza varia e sconosciuta e di dubbia religiosità, sovente di moralità ancor più dubbia. La Città Santa rifondata da sant’Elena […] è un centro dove sacro e profano si mischiano e si costeggiano di continuo…».
Una sorta di non-personaggio può essere definita Baudonivia, una semplice monaca che trascorre la propria vita tra la fine del VI e l’inizio del VII secolo, nel convento di Santa Croce a Poitiers, fondato da santa Radegonda, principessa della Turingia, che qui si era ritirata per realizzare l’ideale di vita cristiana. In questo convento si prevedeva una clausura abbastanza stretta, si imponeva la povertà, la preghiera e il lavoro (compreso la trascrizione dei manoscritti). Qui si descrive del contatto di Radegonda con il letterato latino Fortunato, che scrive molto. Fortunato chiama la regina Radegonda come la nova Martha. Baudonivia è quella che scrive la biografia della monaca-regina, che ha inaugurato un modello di monachesimo non chiuso in se stesso, nel duro esercizio della contemplazione e della comunicazione divina.
Il monachesimo di Radegonda «è presente nella storia con un’attenzione missionaria e con un desiderio di trasformazione del mondo secondo il segno di Cristo».
Senza alcun dubbio esponente dell’aristocrazia è Dhuoda, che visse nel IX secolo a Uzes, nella Francia sudoccidentale. Ebbe una vita travagliata, abbandonata e umiliata dal marito Bernardo, mantenne sempre un atteggiamento di grande lealtà soprattutto nei confronti dei figli. Viene ricordata per un suo Manuale dedicato al figlio Guglielmo, in cui lo esortava ad amare e rispettare Dio, il padre e Carlo il Calvo, suo signore. Un libro dove confluiscono morale laica e morale religiosa.
Altra figura femminile del libro è Rosvita, “la poetessa”, anche lei di famiglia nobile. Nacque intorno al 935 in Sassonia. Dedicò l’intera vita allo studio e all’attività letteraria, dichiarando che il suo impegno di poetessa e scrittrice era il solo modo di ringraziare Dio per il talento di cui aveva fatto dono. «Convinta e tenace paladina delle donne, ella crede fermamente che il sesso femminile sia caratterizzato da debolezza e inferiorità nei confronti degli uomini, ma che goda anche dell’indiscutibile prerogativa di essere veicolo privilegiato della grazia di Dio». E’ vissuta nel secolo chiamato di “ferro”, in senso dispregiativo, «un luogo comune che ha contribuito a diffondere l’immagine di un medioevo cupo e leggendario, nel quale innumerevoli orde barbariche, del livello di vita ferino, attraversano, devastandole, le regioni che un tempo costituivano l’impero romano d’Occidente e se le spartiscono in base alla legge della foresta».
Ferruccio Bertini, sfata il luogo comune di “secolo di ferro”. E’ un’etichetta frettolosamente incollata a questa età. Inoltre «definire Rosvita rara avis e considerarla un’isolata e incompresa anticipatrice significa non comprenderla. Ella – scrive Bertini – è invece il più autentico prodotto della scuola e della cultura del suo tempo e i suoi interlocutori naturali, quelli alla cui lettura e al cui giudizio sottopone le proprie opere, sono, tra gli altri, la badessa Gerberga, dedicataria e ispiratrice di gran parte della sua produzione, e l’arcivescovo Brunone […]».
Ancora Ferruccio Bertini si occupa di Trotula il medico. Visse tra l’XI e il XII secolo a Salerno e si occupava di medicina delle donne. Due opere sono state attribuiti a lei: Sulle malattie delle donne e Sui cosmetici. Una figura simile «ben si prestava a divenire oggetto di incandescenti polemiche tra studiose di tendenze femministe, pronte a sbandierarla come un vessillo e a indicarla come un’antesignana del movimento e studiosi più o meno apertamente misogini, pronti a negarne addirittura l’esistenza».
La presentazione di Trotula da parte dello storico Bertini è tutta da leggere, ci sono passaggi interessanti, come quello al prologo del De passionibus mulierum ante, in et post partum (le malattie delle donne prima, durante e dopo il parto). Praticamente si tratta del primo trattato di ginecologia attribuibile a una donna. Naturalmente trotula era legata alla Scuola medica salernitana. Salerno famosa nei secoli anche col nome di Hippocratica civitas, “la città di Ippocrate”. Troviamo quattro maestri: Elino, Ponto, Adela e Salerno, che insegnavano la scienza medica ai loro allievi, rispettivamente in ebraico, in greco, in arabo e in latino. Si sa che i medici salernitani erano già apprezzati e richiesti dai re e dai vescovi d’Oltralpe. Alla base dell’insegnamento della medicina salernitana, c’era la terapia ippocratica, dietetica e medicinale, illuminata dal laico Garioponto, autore di un enciclopedico Passionarius (Trattato sule malattie) e da Alfano arcivescovo di Salerno. Questi due uomini per Bertini, «sono ben rappresentativi della libertà e dell’apertura culturale di questo ambiente salernitano, in cui Greci e Latini, Arabi ed Ebrei, monaci e laici operarono fianco a fianco, unendo armonicamente le loro conoscenze. E’ necessario precisarlo per evitare di riproporre il falso dilemma scuola monastica/ scuola laica: circoscrivere l’irripetibile esperienza salernitana, definendola espressione della sola cultura laica e della sola cultura monastica, sarebbe errato e riduttivo».
Pertanto Bertini sottolinea che proprio in questo ambiente così aperto e vivace, «si colloca perfettamente la presenza e l’attività impensabile altrove, di un nutrito numero di donne, di cui parla spesso Bernardo di Provenza nel Commentarium super tabulas Salerni[…]si tratta di quelle mulieres Salernitanae che, a suo dire, preparavano i cosmetici per uso delle donne della nobiltà».
Non voglio troppo dilungarmi ma la storia di Trotula è tutta da studiare e da conoscere, soprattutto nell’arte ginecologica, nella cura del corpo, considerata la massima autorità a proposito dei problemi di salute, di igiene e di bellezza femminile. «Trotula insegna infatti alle donne come eliminare le rughe e i peli superflui, come restituire il candore ai denti, come rendere la pelle bianca e rosea, come liberarla dalle lentiggini e dalla impurità, come togliere il gonfiore dal volto e le borse dagli occhi, come guarire le screpolature di labbra e gengive».
Certo Bertini racconta anche che c’è stato un tentativo di cancellare perfino l’identità di questa donna, un personaggio scomodo in quanto donna.
Le ultime figure femminili prese in considerazione sono Eloisa, Ildegarda di Bingen e Caterina da Siena e qui potremmo fare notte per descriverle.
Comunque sia Eloisa, l’intellettuale, è abbastanza conosciuta, soprattutto dopo il fortunato saggio di Etienne Gilson. Eloisa viene ricordata per la sua sfortunata storia d’amore con Abelardo. Nata nel 110, forse a Parigi, i suoi carteggi d’amore verso Abelardo sono quelli che hanno maggiormente sollecitato l’interesse degli studiosi, ma la singolarità di Eloisa fu soprattutto quella di essere la prima donna a cui si può attribuire senza esitazione il titolo di “intellettuale”. Questa figura ce la racconta, l’unica donna del gruppo, Mariateresa Fumagalli, che descrive anche Ildegarda la profetessa. Nata nel 1098, da una famiglia della piccola nobiltà della Renania. All’età di sette anni raggiunse la zia che viveva in clausura nel convento benedettino di Disibodenberg. Qui fu educata e prese il velo monacale all’età di quattordici anni. All’età di quarantatré anni, ha ricevuto l’ordine divino di rendere pubblico il contenuto delle visioni soprannaturali che le apparivano fin quando aveva cinque anni e che aveva rivelato soltanto a pochi intimi. Non erano sogni e neanche fantasie, si manifestavano alla sua vista e al suo udito come all’interno della sua mente. Per trascriverne il contenuto si servì di diversi segretari e aiutanti, uomini e donne. In questo modo nel corso degli anni compose opere di grande mole. Lo Scivias, Liber vitae meritorum, Liber divinorum operum. Sia le visioni che la stesure delleopere erano accompagnate da violente crisi di un male contemporaneamente fisico e psichico. Inviò numerose lettere dal tono imperioso ai più importanti sovrani e ai pontefici del suo tempo. Quando non bastavano le lettere, decideva di affrontarli addirittura di persona, lasciando momentaneamente il convento.
Ildegarda fu apprezzata da San Bernardo, predicò direttamente davanti al popolo, caso unico per una donna. Ildegarda aveva una buona conoscenza della Bibiba e delle scienze naturali, degli autori latini e della filosofia neoplatonica. Ha scritto 5 libri delle Causae et curae, dove si affrontano tematiche mediche, filosofiche e astrologiche, ai Physica, relativi alle proprietà delle piante, delle pietre e degli animali. Inoltre ha prodotto circa 70 inni, sequenze e antifone in versi, e una sorta di dizionario di 900 vocaboli di linguaggio artificiale inventato da lei stessa.
Infine Caterina Benincasa, la mistica. Per certi aspetti simile a Ildegarda, anche lei spinta da un impulso divino intervenne con decisione nella vita politica del suo tempo, dapprima per sedare le discordie tra Siena e Firenze, poi per indurre il papa a lasciare l’esilio di Avignone e a far ritorno a Roma.
Anche Caterina era praticamente analfabeta e imparò a leggere miracolosamente. Come Ildegarda fu coadiuvata da segretari per scrivere le sue preghiere che recitava in preda all’estasi mistica o a trascrivere le lettere che ella dettava. Caterina proveniva da una famiglia povera e non si fece mai monaca. Ebbe una vita brevissima, anche se è sfuggita per due volte alla terribile epidemia di peste nera, che devastò l’Europa in quel secolo. Morì nel 1380 a soli trentatré anni.
Domenico Bonvegna