Due avvenimenti hanno evidenziato la crisi della democrazia: la pandemia del coronavirus, che ha costretto i nostri governi a sospendere le più elementari libertà democratiche. E poi le ultime elezioni presidenziali americane, dove non si è riusciti a capire chi ha vinto tra Biden e Trump. Certo di segnali ce ne sarebbero altri dove sono manifesti i limiti della democrazia. Limiti ben evidenziati in un ottimo pamplhet che ho presentato tempo addietro, di Raffaele Simone,“La finzione democratica” (Garzanti 2015), dove l’autore, per niente reazionario, analizza la malattia in cui versa l’istituzione democratica oggi.
Questa debacle della democrazia mi ha stimolato a rileggere la pregevole opera dello studioso spagnolo Francisco Elias de Tejada, “La monarchia tradizionale”, io possiedo quella pubblicata dalle Edizioni dell’Albero (1966). Per la cronaca lo studio è stato ristampato dall’editore napoletano Controcorrente nel 2001 e, a partire dal 1999, lo stesso editore ha proposto sempre dello scrittore spagnolo, anche la traduzione della monumentale opera “Napoli spagnola” , in sei volumi. In Italia è stato pubblicato poco, del filosofo spagnolo, qualcosa l’ha pubblicata la meritevole Edizioni Thule di Tommaso Romano, si tratta di alcuni saggi brevi (Il mito del marxismo e Per una cultura giusnaturalista) nonché dell’ideario“Que es el Carlismo?” (trad. italiana “Il Carlismo” Palermo, 1979) scritto sotto la direzione di Elias de Tejada che lo volle come opera collettiva ed espressione della Comunion carlista. Tejada è stato un eminente esponente politico del carlismo spagnolo. A questo proposito l’amico Franco Maestrelli, esperto di storia del carlismo, scrive: « Il lemma della Comunion carlista“Dios, Patria, Rey, Fueros” individua bene i pilastri di questo tradizionalismo: cattolicesimo integrista, patriottismo come legame alle comunità locali e ben differenziato dal nazionalismo, monarchia organica e legittima di nascita e di esercizio e applicazione del principio di sussidiarietà attraverso i corpi intermedi forali. In Spagna oggi il pensiero carlista prosegue negli allievi di Elias de Tejada riuniti nella Fondazione a lui intitolata. La Comunion carlista “normalizzata” prima dal regime franchista, spaccata poi dalle divisioni interne e indebolita dagli anni di Governi socialisti e popolari, pur priva, per scelta, di rappresentanza partitica, sopravvive oggi come think tank di un pensiero politico antiliberale, antisocialista, antilaico, antiutopista e in una parola, antimoderno.(Franco Maestrelli,Maestri dimenticati/ Francisco Elias de Tejada, tra Napoli e le Spagne imperiali, 19.1.2017, destra.it)
Morto prematuramente nel 1978, il maestro Tejada, ci ha lasciato ben trecento opere nell’ambito del diritto, della storia e della politica.
Per sgombrare subito il campo da possibili equivoci, de Tejada propone la monarchia tradizionale, federativa, che non ha niente a che vedere con l’assolutismo monarchico identificato dai tanti scrivani della storia ufficiale come l’unica forma politica monarchica esistente.
L’edizione del 1966, dedicata al pubblico italiano, recava la scritta in sovracoperta:“Il fascismo superato a destra”. Infatti lo studio di Tejada, non si ferma solo all’analisi dell’istituto monarchico, ma propone anche riflessioni storiche ad ampio raggio, come quelle sul Novecento e in particolare sui cosiddetti nazionalismi.
Nel I capitolo (La tradizione italiana) spiega ai giovani intellettuali italiani il suo pensiero sulla vera essenza del tradizionalismo italiano. Erano giovani intellettuali che militavano nelle più variegate frange del neofascismo napoletano del dopoguerra. Ad essi spiegò che il fascismo non era riuscito a diventare dottrina tradizionalista perché Mussolini e, sulle sue tracce, l’intero pensiero fascista non erano stati capaci di superare le basi della filosofia idealista.
Il primo ostacolo fu la mancanza di una corretta formazione ideologica nel pensiero di Mussolini. Egli proveniva dal socialismo ed era figlio dell’anticlericalismo romagnolo. Era perciò ostile per principio a qualsiasi prospettiva universalista cattolica. Combatteva il liberalismo ed il marxismo con le uniche armi che arricchivano il suo patrimonio intellettuale: Rénan, Sorel, Hegel.
«Tra l’essenza cristiana, cattolica, papale, delle tradizioni italiane e l’impronta del suo spirito garibaldino, socialista ed acattolico vi era un abisso che non riuscì a riempire […] Non comprese la Tradizione italiana perchè credette che essa fosse in ciò che costituisce la sua più profonda negazione: lo spirito del Risorgimento».
Per Tejada, Mussolini, assetato di tradizionalismo «non fu capace di intendere l’autentica tradizione delle genti della sua penisola».
Il secondo ostacolo fu l’apparente mancanza di una tradizione italiana. Ai nazionalisti, sembrava un’impresa impossibile riunire nello stesso tempo le memorie vive del regno di Napoli e quelle della minuscola signoria di Correggio della Serenissima Repubblica Veneta, o i Medici fiorentini. In questo mosaico politico che aveva caratterizzato molti secoli di storia patria, Mussolini non seppe vedere un’Italia vera e perciò ricorse al Risorgimento.
«Da questo errore di prospettiva, unito ad una disordinata formazione intellettuale, ne venne che Mussolini vide la Tradizione italiana nel solco di Roma, che, per gli Italiani del XX secolo, non poteva essere altro che un remoto e venerato resto archeologico. Ignorando la tradizione cattolica dell’Italia s’immerse nel sogno della resurrezione della tradizione pagana di Roma, misurando il suo impero con il metro dell’impero di Teodosio; equivoco che lo fece cadere in quell’irrealtà da cui egli stesso rifuggiva. Volle un’Italia romana, dimenticando o ignorando che tra lui ed Augusto correvano ben 20 secoli di Cristianesimo, religione universale la cui sede continuava ad essere in Roma».
Praticamente, Mussolini guardò alla Roma lontana, all’Impero lontano, ma dimenticò l’Italia vicina. «Saltò dall’antico Impero al Risorgimento recentissimo cancellando d’un colpo l’impresa universale della vera tradizione delle genti italiane: le gesta universali della Controriforma cattolica».
Tejada si rende conto che è difficile superare la mentalità nazionalista, le nostre generazioni dopo aver ricevuto un insegnamento basato sul nazionalismo, non concepiscono «nè l’universale né il patrio»,comprendono solamente il nazionale come compiuta realtà politica. Soprattutto puntualizza lo studioso spagnolo, «quando si pensa che l’idea d’Italia costituì per secoli l’ideale di minoranze colte, e non un sentimento generale nelle masse popolari».
Lo studioso spagnolo è convinto che l’Italia che nacque nella seconda metà del XIX secolo, quella si fu «canzone di poeti, lievito erudito di umanisti e gusto dell’idioma toscano coltivato artificialmente da caste di letterati di tutta la penisola mentre i vari popoli parlavano le loro lingue rispettive che non avevano niente in comune con quelle coltivate da codeste elette minoranze».
L’Italia c’era già ancora prima delle camicie rosse garibaldine, c’era nel Sommo poeta Dante Alighieri. Pertanto secondo Tejada, «la letteratura decretò la morte dei popoli italiani». Attenzione però, lo scrittore spagnolo col suo ragionamento, non vuole frammentare, in nome del tradizionalismo, l’Italia, ma neanche la Spagna. Piuttosto vuole far notare che con la realtà storica, sociale, culturale, politica e giuridica della Catalogna o di Napoli, della Sicilia o della Navarra, significa porsi nella linea della Tradizione autentica. Pertanto secondo Tejada va rigettata «l’opera demolitrice della castiglianizzazione nelle terre iberiche della piemontesizzazione nelle terre italiane».
Tejada invita a ricostruire la vera storia della tradizione italiana e spagnola, andare alla sorgente della Storia, per riconoscere le loro personalità soffocate in nome del nazionalismo, nato al suono dei tamburi della rivoluzione francese.
Tejada riscopre ed esalta le monarchie federative. Rifiuta l’assolutismo
del XVIII secolo, il liberalismo del XIX ed i totalitarismi del XX, «la prima qualità del tradizionalista è quella di rigettare le imposizioni nazionalistiche di un popolo su di un altro; è, se si è castigliani, affermare il promovimento delle realtà sociali catalane o basche e, se piemontesi, propugnare il fiorire delle entità sociali napoletane o sarde».
Non bisogna imporre o uniformare, come hanno fatto i piemontesi con i sardi o i napoletani con i siciliani. «La lenta e progressiva piemontesizzazione dell’isola di Sardegna e gli attacchi alla autonomia sacra della Sicilia sono realtà nate dalla tendenza alla uniformità del secolo XVIII, frutto dell’astrattismo protestante ed antitesi della Tradizione autentica».
Tejada sostiene che la monarchia di Spagna del XVI e del XVII secolo, cioè quella prima dell’«invasione deleteria dell’astattismo europeo, si fondava sul rispetto delle realtà autonome di ciascuno dei popoli costituenti la gigantesca monarchia». I Siciliani come dice Pietro Gritti, erano «accarezzati come elemento antico di questa Corona».
Su questa questione lo studioso spagnolo fa una lunga citazione di uno storico Francesco Di Stefano che descrive la “Storia della Sicilia dal secolo XI al XIX”. Non intendo esporla, ma è da leggere per constatare come il popolo siciliano, il suo Parlamento, in particolare Messina e Palermo, riescono a difendere la propria autonomia di fronte al Viceré. Le richieste del Parlamento siciliano del 1574 come quello del 1798, chiedeva la stessa cosa: «la conferma dei capitoli concessi dai buoni monarchi antichi, da coloro che governarono secondo la Tradizione siciliana, da Filippo II in particolar modo». Poi con Ferdinando IV, si ebbe l’assalto al parlamento in nome dell’assolutismo di stampo francese, imponendo tasse contrarie alla libertà siciliane.
Stessa cosa accade per la Sardegna con l’occupazione sabauda, che cercò di annullare a poco a poco le tradizioni sarde di autonomia e libertà amorevolmente coltivate dai re tradizionali di Sardegna. Non possiamo dilungarci per descrivere i vari pesi e contrappesi che caratterizzavano i governi di quei popoli ancora autonomi. Sarebbe interessante approfondirli con studi seri.
Popoli legati alle proprie tradizioni che furono attaccati dai principi dell’assolutismo che poi ha generato il liberalismo del XIX secolo, fino al marxismo al XX secolo. Pertanto per Francisco Elias de Tejada non si può rigettare il liberalismo o il marxismo in nome «dell’assolutismo che li generò, ma con la bandiera delle libertà concrete delle nostre rispettive tradizioni». Per fare questo occorre liberarsi dalle impostazioni nazionaliste in voga nel XIX secolo, «cercando di comprendere la realtà multiforme, frutto della storia, formata ella personalità di ciascuno dei popoli spagnoli o italiani». Per lo studioso spagnolo bisogna avvicinarsi a Giambattista Vico per comprendere la Storia, rigettando le astrazioni di Grozio, il preteso diritto nazionale universale di Wolff.
Tejada auspica una prospettiva federalistica che unisce le diversità dei vari popoli spagnoli e italiani. Uniti dal senso cristiano della vita, del cattolicesimo romano. Popoli uniti nel blocco ferreo, con diversità varie e feconde, dalla Controriforma di Trento. «Quel nostro cattolicesimo fervente ed intransigente sostenne le battaglie del Signore e ci dette coscienza del nostro comune destino».
Sicuramente i popoli potranno essere diversi nella Storia, proprio perchè uniti nella fede. Pertanto, «i re che governarono a Madrid o a Cagliari, a Lima. A Napoli, a Goa e nel Messico, dettero il vessillo a quell’impresa sapendo bene che non erano re di Castiglia, ma di ciascuna delle loro numerose signorie tra esse politicamente ben differenziate».
E’ capitato che questi re a volte sono stati “più papisti del Papa”. La loro convinzione di essere paladini missionari della fede, autorizzava a stroncare gli abusi di un clero prepotente. Tejada ricorda sfatando la leggenda nera delle oppressioni straniere, che sotto Carlo V o Filippo II, i Napoletani, i Milanesi, i Sardi, i Siciliani, «avevano accesso al governo dei loro popoli e perfino governavano genti della penisola iberica o del continente americano». Come si può constatare dalla Historia general scritta dal sassarese Francisco Angel de Vico, che governò le Spagne come reggente del Supremo consiglio d’Aragona.
Tejada puntualizza, che «così come Castigliani o Catalani andavano come vicere o governatori negli stati italiani. Governati i popoli di Sicilia, di Milano, di Napoli o di Sardegna dai loro re naturali, è assurdo parlare di dominazione spagnola, perché similmente Catalani o Galiziani potrebbero chiamare dominazione napoletana il governo di numerosi viceré d’origine partenopea».
Completa il capitolo richiamando alle caratteristiche delle “Italie” del secolo XVI, dove non esistevano oppressioni dei popoli minori, incorporati nella gigantesca monarchia cattolica dei re di Sicilia, di Sardegna e di Napoli, duchi di Milano. E qui che per Tejada risiede la chiave della Tradizione italiana. Convinto che il passato non può ripetersi negli stessi termini, per capire, però, occorre liberarsi dalle “europeizzazioni successive”, quella assolutista, quella liberale, quella marxista.
Per Tejada sia gli italiani che gli spagnoli hanno un destino comune. Naturalmente lui scriveva negli anni ’60, ma guardando la Storia, e la nostra Fede comune (recuperare la coscienza del nostro destino universale di paladini del cattolicesimo, di soldati del Cristo in crociata missionaria) è un monito che vale sempre.
Il mirabile studio è composto di altri sei capitoli, tutti da leggere e studiare con argomenti fondamentali per comprendere, l’Europa, la tradizione delle Spagne, la Cristianità, la protestantizzazione dell’Europa, la europeizzazione assolutista, liberale. E poi la pregevole esperienza, la lezione politica dei Fueros come sistemi di libertà concreta nella regione della Navarra. La monarchia federativa. Sono tutti temi che meritano di essere affrontati e studiati.
L’ultimo capitolo lo studioso spagnolo, ma potremmo dire anche napoletano, lo dedica alla vera essenza della Tradizione di Napoli, ai suoi lunghi secoli monarchici, l’importanza di diventare Regno, quando entra nella grande confederazione delle Spagne. Mi fermo prometto di affrontare l’argomento in un’altra occasione.