Il 7 aprile del ’61 , un piccolo esercito di fuorilegge si er a adunato nel bosco di Lagopesole in Lucania, e aveva acclamato a suo generalissimo Carmine Crocco Donatelli, alzando la bandiera dei Borbone e adottandone la coccarda rossa. Nel Regno delle Due Sicilie e negli Stati pontifici, il fenomeno del brigantaggio non era nuovo, era anzi endemico. Lo provocavano la miseria, la mancanza di comunicazioni e la stessa struttura dei regimi polizieschi. Ma era un brigantaggio spicciolo, affidato all’iniziativa privata di pastori e contadini che, scontenti del loro stato, preferivano darsi alla macchia e al saccheggio.
Molte cose contribuivano a fornire reclute alle loro bande : i soprusi dei signorotti, le angherie del fisco, i dinieghi di giustizia, e la coscrizione obbligatoria, fucina di disertori. Non erano che feroci mozzateste e taglieggiatori spietati. Eppure , la connivenza delle popolazioni no n gliela procurava soltanto la paura che incutevano, ma anche la simpatia. Lo dimostra la trasfigurazione del brigante , secondo il mito popolare , nel paladino del povero, cavalleresco e generoso riparatore dei torti. Il «cafone» era carico di repressi rancori, specie da quando le grandi speranze suscitate dalla liquidazione del feudalesimo erano andate deluse. Lo Stato aveva liberato il contadino da certe medievali soggezioni, ma no n gli aveva dato di che nutrir e questa conquista. Nemmeno la distribuzione delle terre ecclesiastiche e demaniali si era risolta a suo vantaggio.
Come nasce il brigantaggio
Ad approfittarne erano stati solo quei «notabili» di estrazione borghese, i cosiddetti «galantuomini» che, detenendo dovunque il potere, lo usarono con una spregiudicatezza e rapacità da far rimpiangere i vecchi baroni, coi quali del resto fecero subito lega nella difesa dei patrimoni e dei privilegi. Questa situazione faceva sì che il contadino fosse men o ostile al Re e al suo governo da cui qualche aiuto, sia pur e senza efficacia, gli era venuto, che a questa nuova classe padronale , di cui subiva direttamente le angherie . E lo si era visto nel ’98 quando, sotto l’incalzare delle baionette francesi, i Borbone fuggirono a Palermo e a Napoli si formò la Repubblica giacobina, di cui quella classe fu, o avrebbe dovuto essere il puntello.
Sbarcato in Calabria, il cardinale Ruffo non ebbe nessuna difficoltà a raccogliere sotto la sua bandiera legittimista le masse contadine di cui i briganti rap – presentavano la punta avanzata. Ad animare la loro crociata «sanfedista» non era tanto la fedeltà al Re e la devozione alla Chiesa, che il Cardinal e predicava e incarnava, quant o l’odio pe r gli «anticristi liberali» che avevano soppiantato il vecchio regime e di cui fecero indiscriminati massacri. Questa fu la prima strumentalizzazione politica del brigantaggio. E da essa rimase condizionato tutto il movimento risorgimentale del Sud. La Carboneria no n disdegnò gli accordi coi briganti, e qualche volta riuscì a procurarsene l’appoggio. Ma l’elemento moderat o ne paventava la violenza eversiva, e appunto per questo era moderato . I «galantuomini» volevano l’Italia, ma la volevano nell’ordine e a patto che rispettasse le loro prerogative.
La guerra civile
Al fondo del loro patriottismo c’era anche l’aspirazione a uno Stato più efficiente di quello borbonico, che con polso più fermo li proteggesse da quegli scoppi di collera delle plebi affamate, di cui il brigantaggio no n er a che un a rozza e brutale espressione. Ad allearsi con queste plebi e a sollecitarne la partecipazione al moto nazionale, non pensarono mai: e questa è l’accusa – fondatissima – che tanti anni dopo fu loro mossa da Gramsci. Perciò l’appello all’indipendenza no n trovò mai nessuna eco nel proletariato agrario che rappresentava la stragrande maggioranza della popolazione. E perciò, come abbiamo già detto, i «galantuomini» abiurarono ben presto alla vocazione autonomista e si convertirono in massa all’unitarismo: non volevano trovarsi a tuppertù con campagne in rivolta, pattugliate dai briganti.
Molti di costoro, quando Garibaldi arrivò, accorsero sotto la sua bandiera : un po’ perché , da quel che ne avevano sentito dire, lo consideravano pressappoco un o dei loro; un po’ perché speravano di ottenere da lui il condono dei loro delitti, e magari anche l’assunzione in servizio regolare. Fra i più solleciti ci fu Carmine Crocco, un ex-pastore di Rionero in Vulture che, condannato pe r diserzione a vent’anni di carcere , ne er a evaso, si er a dato alla macchia, e in poco tempo er a diventato il più temuto e rispettato capobanda della Lucania no n soltanto per il suo coraggio, ma anch e pe r la sua intelligenza di guerrigliero. All’origine della sua rivolta c’era un patetico episodio che ben illustra la condizione delle plebi meridionali. Un giorno, quando era bambino, il cane d’u n signore era entrato nella sua catapecchia e aveva ammazzato un coniglio. Un suo fratello, pe r strapparglielo di bocca, gli assestò un a bastonata che lo stese morto. Il signore se la riprese con la madre , e con tale violenza la malmen ò da farla abortir e e lasciarla per sempre inferma. Dopo poco il signore fu ferito da un’archibugiata. Il tribunale ne ritenne colpevole il marito della donna , e lo condannò ai lavori forzati.
La storia di Carmine Crocco
Solo dopo due anni e mezzo, un vecchietto del luogo che tutti ritenevano innocuo e pio, rivelò in punto di morte di essere stato lui l’autore del tentato omicidio. Carmine riebbe il padre , ma no n più la madre , diventata pazza, e da allora nel suo animo non ci fu posto per altro anelito che quello della vendetta. Disertò pe r no n servire lo Stato che nella sua mente di analfabeta si confondeva col signore. Dopo du e anni di vita alla macchia punteggiata di rapine e omicidi, si schierò con Garibaldi, partecipò all’insurrezione di Potenza, e si mise al servizio del nuovo regime , convinto di ottenern e la grazia e di potervisi inserire.
Invece della grazia, ebbe le manette e un a nuova condanna . Ma pe r la seconda volta riuscì a evadere grazie all’aiuto di un a famiglia di «notabili» da cui doveva uscire il più grande e illuminato studioso del Meridione: Giustino Fortunato. E riprese la sua avventurosa vita alla testa di un a band a che ingrossava a vista d’occhio. A procurargli reclute er a la dissennata politica dei proconsoli piemontesi, che a Napoli avevano dato il cambio a Garibaldi, e che della situazione locale no n capivano nulla, anche perché i «galantuomini» loro alleati no n avevano nessun interesse a fargliela capire. Certo no n si poteva improvvisare un a riforma agraria che, ancorando i contadini alla terra, li sottraesse alla fame e alla tentazione del brigantaggio.
Ma si potevano almeno trattenere in servizio i soldati dell’esercito borbonico che invece, dopo la battaglia del Volturno e la resa di Gaeta, furono congedati e gettati sul lastrico. Era un a massa di quasi 100.000 uomini senza soldo né possibilità d’immediato reinserimento nella vita civile – se così possiamo chiamarla -, e quindi disponibili a qualsiasi avventura .
Come nascono le bande dei Briganti
Era fatale che si arruolassero nelle bande che già esistevano o che ne formassero di nuove . E altrettanto fatale era che da Roma, dove si era rifugiato, re Francesco tentasse di organizzarle per riconquistare il suo Reame con l’appoggio del governo papalino, sempre più ostile al processo unitario. A Napoli, Ponza di San Martino aveva dato il cambio, come Luogotenent e Generale, a Farini. Ma né l’uno né l’altro si eran o resi conto del pericolo che incombeva. Entrambi consideravano il brigantaggio come un fenomeno di delinquenza comune , reso più acuto dal disordine di quella fase di passaggio fra il vecchio e il nuovo regime , e della stessa opinione era Ricasoli a Torino. Convinti di poterlo combattere con misure di polizia, bandirono la coscrizione pe r rinforzare le guarnigioni piuttosto a corto di uomini perché il grosso dell’esercito era rientrato al Nord per presidiare i confini col Veneto austriaco. Ma fu un fiasco totale: dei 70 e più mila richiamati, se ne presentarono solo 20.000: il che voleva dire 50.000 disertori alla macchia. Le conseguenze si videro subito.
Abbandonando i boschi e le montagne, dove sin allora si erano tenute acquattate, le bande investirono paesi e città. Una dopo l’altra, Venosa, Ripacandida e Ginestra caddero sotto i loro colpi, e le guarnigioni vennero massacrate. Ma la cosa più grave era che, alla comparsa dei briganti, il popolino insorgeva spesso facendo piazza pulita di autorità, polizia e «galantuomini» e accoglieva le bande da «liberatrici» con luminarie, feste e Te Deum perché il clero era tutto schierato dalla loro parte. Anzi, a Pontelandolfo, furono proprio i preti che, approfittando di una processione, diedero il segnale della rivolta, e che a Casalduni guidarono la folla al linciaggio di cinquanta bersaglieri. Così si era giunti a quel famoso raduno di Lagopesole, cui le bande si presentarono come a una specie di giuramento di Pontida per coordinare la loro azione, come mai sin allora era avvenuto, ed eleggere il capo. C’erano tutti: Nicola Somma detto Ninco-Nanco, Luigi Alonzi detto Chiavone, Gioseffi detto Caporal Teodoro, Guerra, Caruso, Malacarne, Sacchitiello, e quel Ciucciarello, di cui le donne di Andria, sua patria, seguitano a cantare un «lamento», dove si dice che, dopo morto ammazzato, risorse come Gesù Cristo, cui a quanto pare vagamente somigliava. Erano tutti uomini che si erano guadagnati i galloni di capibanda con prove di coraggio, di astuzia e di ferocia, non accettavano di sottomettersi a nessuno, e per questo non erano mai riusciti a mettersi d’accordo fra loro. A indurveli erano stati gli agenti borbonici, che recavano le promesse del Re, le benedizioni del Papa e gl’incoraggiamenti del comando francese, rappresentato da uno strano e misterioso avventuriero bretone, Langlois, di cui non si è mai riusciti a ricostruire i precedenti e la figura. Fu in questo arengo che Crocco venne riconosciuto Generalissimo non solo per l’autorità che gli conferivano le sue gesta, ma anche perché, sebbene mezzo analfabeta, possedeva un’oratori a immaginos a e apocalittica.
«Non si commuove ancor a il cielo, no n freme la terra , non straripa il mar e al cospetto delle infamie commesse ogni giorno dall’iniquo usurpator e piemontese?» Tutti giurarono nelle mani dei cappellani che infoltivano i ranghi di quelle squadracce e sulle immagini dei Santi e delle Madonne di cui erano imbottiti, perché questi scannatori, che adibivano i teschi delle loro vittime a boccali, erano devotissimi alla Madonna . Oltre alle coccarde, furono distribuiti gradi e uniformi. Ma Chiavone rifiutò quella di colonnello mandatagli da re Francesco perch é i bottoni eran o di rame : li voleva d’oro zecchino. Alla grande assise parteciparono anche le donne dei capi: Arcangela Cotugno, moglie di Chirichigno, detto Coppolone; Maria Lucia, compagna di Ninco-Nanco; la bellissima Michelina De Cesare, compagn a di Guerra ; Rosa Giuliani, che in seguito denunziò e fece fucilare il suo Chiavone, che l’aveva ripudiata pe r una levatrice di Melfi.
Il gran rifiuto di Crocco
Qualche mese dopo giunse, con un a dozzina di suoi compatrioti, un caperonzolo spagnolo, José Borjés, mezzo avventuriero, mezzo cavaliere dell’Ideale, che aveva militato sotto la bandiera di Don Carlos, il campione dell’assolutismo, e diceva di essere stato investito da re Francesco del comando supremo . Ma Crocco si rifiutò di mettersi ai suoi ordini. Non era uomo da prenderne da nessuno, e tanto meno da un o straniero che no n conosceva il paese, ne parlava a malapena la lingua e pretendeva convertir e quelle bande a un galateo cavalleresco e a una strategia da truppe regolari. Deluso dalla brutalità e indisciplina di quegli uomini, Borjés cercò scampo nello Stato pontificio. Ma a Tagliacozzo fu sorpreso da un reparto di bersaglieri e immediatamente fucilato coi suoi diciassette compagni. Crocco no n riuscì a tener e unite le bande , ma seguitò a esercitare su di esse una specie di alto patronato che gli permise di svolgere azioni da vera e propri a guerra manovrata.
A Ruvo del Monte accettò addirittura battaglia in campo apert o con un reggimento di fanteria e due squadroni di cavalleria, ne rintuzzò i tentativi di accerchiamento, e li costrinse a ritirarsi. I briganti festeggiarono la vittoria con un pantagruelico banchetto nel bosco di Monticchio, in cui vennero immolati mille polli e duecento pecore. Finalmente a Torino si resero conto della gravità della situazione , e decisero di mandar e a Napoli come Luogotenente Cialdini, che da buon militare non vide né poteva veder e le cause del brigantaggio; badò soltanto a reprimerlo, ma in questo compito spiegò la massima energia, e anch e u n a notevole intelligenza. Rovesciando l’alleanza stabilita dai suoi predecessori col vecchio e infido elemento borbonico, attrasse dalla parte del governo quello democratico e garibaldino, che aveva per lo meno un a certa esperienza di lotta contro il brigantaggio sanfedista, e col suo aiuto costituì una Guardia Mobile che, formata di gente del posto, si rivelò particolarmente efficace.
Le atrocità di Cialdini
Da quel momento cominciò un a terribile guerra rusticana senza esclusione di colpi né da un a part e né dall’altra. Alle atrocità dei banditi, le truppe regolari risposero con fucilazioni in massa, distruzioni d’interi paesi e incendi di foreste: gran parte della desolazione del Sud coi suoi disalberati calanchi è il frutto della caccia all’uomo che imperversò in quegli anni.
Quando Ricasoli, indignato, cercò d’imporr e misure più umane e il rispetto della legalità, Cialdini diede le dimissioni, e Ricasoli dovette rifiutarle. Da quel moment o il Generale trattò il Sud come una colonia in rivolta. Intorno al confine con lo Stato pontificio, da cui sapeva che venivano armi, ordini e denaro, stese un a vera e propri a cintura. E trattò il clero, ch’era il vero sobillatore della guerriglia, con pugno di ferro, senza riguardo nemmeno per i più alti porporati. Oltre al Cardinale di Napoli, Riario Sforza, furono ben settanta i Vescovi espulsi, fuggiti, o arrestati per collusione coi briganti. Tuttavia, per portar e avanti le operazioni, gli ci vollero 120.000 uomini, per molti dei quali quella tremenda repressione rappresentò un’atroce sorpresa e un drammatico caso di coscienza. «Io sono ributtato da questa guerra atroce e bassa – scriveva Gaetano Negri, futuro sindaco di Milano -, dove non si procede che per tradimenti e per intrighi, dove spogliamo il carattere di soldati pe r assumere quello di birri, e sospiro all’istante di abbandonar e quest’atmosfera di delitti e di bassezze.»
Gli uomini di Cialdini infatti non combattevano soltanto con le armi, ma anche con la corruzione e i patteggiamenti sotto banco per dividere le bande e isolarne i capi. Crocco si rivelò guerrigliero di grandi risorse anche nel parar e questi colpi e nel restituirli. Uno dopo l’altro, egli individuò tutti gl’informatori dell’esercito che militavano nelle sue fila; ma invece di ucciderli se ne servì per fargli dar e notizie false. L’unico che riuscì a batterlo fu quel colonnello Pallavicini che, dopo essersi malamente guadagnato i gradi di Generale con la cattura di Garibaldi ad Aspromonte , dimostrò tuttavia di meritarseli non solo per la decisione ma anche per l’abilità con cui condusse la caccia all’irriducibile bandito. Egli non esitò ad accordarsi con Caruso, ch’era caduto vivo nelle sue mani e che odiava Crocco, lo trasse dal carcere, e ne fece il proprio consulente , nonostante le efferatezze di cui si era macchiato.
L’arresto di Crocco
Caruso gli rivelò il nome degl’informatori e manutengoli di Crocco, e gl’insegnò i rifugi che gli servivano di base nei boschi di Monticchio e di Lagopesole. Seguendo questi fili, la caccia all’indomito guerrigliero si fece così serrata e pressante che questi nel ’64 sbandò i suoi uomini e si rifugiò nello Stato pontificio. Era sicuro di essere accolto come un eroe da re Francesco che, insieme al grado di Generale, gli aveva mandato tanti affettuosi messaggi. Lo accolse invece la polizia, che lo gettò in prigione e nel ’70 lo consegnò alle autorità italiane, che lo condannarono all’ergastolo.
Qui Crocco si trasformò da uomo di spada in uomo di penna , e scrisse un libro di memorie , viziato dall’enfasi e dalle reticenze, ma no n privo di spunti descrittivamente efficaci sulla vita dei briganti, e abbastanza sincero. Robusto com’er a e rotto a tutto, resse ben e alle privazioni del carcere, e morì vecchio. Il capitano Massa, che lo vide dopo vent’anni di lavori forzati, scrisse: «Ha gli occhi castagni, i capelli leggermente brizzolati, il naso greco, la bocca, il mento, il viso regolari, la fronte ampia, solcata da poche rughe . Calmo, sereno, ilare, ubbidient e e docile con tutti, rispettosissimo verso le guardi e carcerarie , riconoscente verso chi pu ò fargli un po’ di bene». Il suo libro finiva con queste parole : «Io no n ho mai potuto comprendere come sia composto il consorzio sociale. So che il disonesto nessuno lo può vedere, ma la legge non lo colpisce, e poi chiama scellerato colui che Io assassina, e no n si vuole affatto comprender e come no n tutti gli uomini siano degni di vivere».
Le accuse di D’Azeglio
Il suo ritiro dalla lotta aveva segnato la fine di quell’atroce guerra. Uno dopo l’altro, i capibanda caddero, quasi tutti con l’arma in pugno . Ninco-Nanco, catturato vivo, fu ucciso da un o dei suoi mentr e lo trascinavano via, perché no n parlasse. Neanche pe r le loro compagne ci fu clemenza: finiron o quasi tutt e fucilate ed esposte nud e sulla pubblica piazza. Quanti uomini fosse costata quella guerra , no n si è mai saputo con precisione. Alla commissione d’inchiesta, La Marmora dichiarò: «Dal mese di maggio del ’61 al febbraio del ’63, abbiamo ucciso o fucilato 7.151 briganti», ma che tutti lo fossero c’è da dubitare. Le perdite dell’esercito non sono mai state accertate, ma pare che superassero quelle di tutte le campagne contro l’Austria. Era logico che l’opinione pubblica ne restasse traumatizzata, e il suo stato d’animo lo riassunse D’Azeglio in un a lettera a Matteucci: «La questione del tener e Napoli o non tenerla mi pare che dovrebbe dipender e più di tutti dai napoletani, salvo che vogliamo, per comodo di circostanze, cambiar e que i princìpi che abbiamo sin qui proclamati. A Napoli abbiamo cacciato un Sovrano per stabilire un governo sul consenso universale. Ma ci vogliono, e par e che non bastino, 60 battaglioni per tenere il Regno, ed è notorio che, briganti o non briganti, non tutti ne vogliono sapere. Mi diranno: e il suffragio universale? Io no n so niente di suffragio, ma so che di qua dal Tronto non ci vogliono 60 battaglioni, e di là sì. Dunqu e dev’esser corso qualche errore . Dunque , o cambiar principio o cambiar atti, e trovar modo di sapere dai napoletani un a buon a volta se ci vogliono, sì o no. Perché a chi volesse chiamar tedeschi in Italia, credo che gl’italiani che non li vogliono hanno diritto di fare la guerra . Ma a italiani che, rimanendo italiani, non volessero unirsi a noi, non abbiamo diritto di dare archibusate».
Non era la prima volta che D’Azeglio prendeva un a posizione antiunitaria. Lo aveva già fatto anche pubblicando un opuscolo contro il trasferimento della capitale a Roma. Comunque , dava voce a un sentimento assai diffuso, e non soltanto in Italia.
Non si sa come, la sua lettera a Matteucci capitò nella redazione di un giornale francese che la pubblicò con molto rilievo perché portava acqua al mulino di Napoleone, il quale manteneva nei confronti dell’unità italiana un atteggiamento di netta sfiducia considerandola troppo affrettata e senza basi. Ora questa sfiducia, grazie all’insurrezione brigantesca, dilagava in tutta Europa , rendendo ancora più difficile la vita al governo di Torino. Sia Ricasoli che Rattazzi dovettero impegnarsi a fondo per sdrammatizzare e sminuire i resoconti di quella guerriglia apparsi sui giornali del Continente . Ma ancora di più dovettero impegnarsi per fronteggiare le tempeste che quelle notizie provocavano in parlamento da parte della Sinistra, la quale naturalmente non si contentava della semplicistica spiegazione che i moderati seguitavano a dar e del brigantaggio, come di un semplice fenomeno di delinquenza comune .
Fu grazie a questa polemica che venne decisa la nomina di una commissione d’inchiesta, che passò alla storia col nome del suo più attivo partecipante: Massari. Sebbene anche lui moderato, Massari spinse Io scandaglio abbastanza a fondo, denunziò coraggiosamente gli errori ch’erano stati compiuti, e disse quello che no n si era fatto, o che si era fatto all’incontrario, e quello che restava da fare. Di tutto questoperò non fu data alla Camera che una relazione sommaria, e alla stampa soltanto alcuni estratti, debitamente purgati delle accuse più gravi. Solo in tempi recenti il documento è stato pubblicato per intero.
La legge Pica
Anche Massari tuttavia caldeggiò, come misura d’emergenza, un inasprimento della repressione che un deputato abruzzese, Pica, tradusse in legge. Questa proclamava tutto il Sud, salvo poche province , «in stato di brigantaggio», e per i reati che rientravano sotto questa voce trasferiva la competenz a da i tribunali ordinari a quelli militari. Per quanto arbitraria, questa legge si rivelò tuttavia efficace. Alla fine del ’65 il brigantaggio era effettivamente debellato. Purtroppo no n ne furono debellate le cause e le conseguenze. Qualche decennio dopo , Nitti scriveva che per il «cafone» no n c’era alternativa: «o emigrante , o brigante». Ma spesso diventava insieme l’una cosa e l’altra: il gangsterismo italo-americano lo dimostra.
Dalla Storia d’Italia di Indro Montanelli – 1861-1919