Anche nel 2° tomo della poderosa opera, le «Memorie per la Storia de’ nostri tempi», (riprodotta anastaticamente a cura delle Edizioni Ares di Milano 2013) don Giacomo Margotti ci offre dei quadri riassuntivi di cronaca politica religiosa e sociale del decennio che va dal 1856 al 1866, gli anni cruciali del Risorgimento italiano, o meglio come lui stesso li chiama, gli anni della Rivoluzione italiana, figlia della Rivoluzione Francese.
Prima di proseguire è opportuno ribadire qualche precisazione sul testo di Margotti, ristampato ricordo che è scritto con un linguaggio ottocentesco e che soprattutto risente del momento storico, della conflittualità tra rivoluzionari liberali e I cattolici fedeli al Papa Pio IX. E soprattutto don Margotti, essendo contemporaneo ai fatti, mi sembra abbastanza informato e ben documentato.
Questa seconda serie di interventi viene suddivisa in 6 periodi, a cominciare dal citato Congresso di Parigi del marzo 1856, dove sono stati gettati i semi della guerra e della rivolta. In questo congresso si sono scontrati unitari repubblicani, monarchici, federalisti, riformisti, avversari della dominazione austriaca, fautori della secolarizzazione del Governo pontificio.
Il 1° periodo si presentano una serie di documenti, di discussioni, interventi, proclami, lettere, trattati, grandi preparativi che portano alla guerra. Protagonista tra tutti l’imperatore Napoleone III e poi il conte di Cavour con il Piemonte che ascolta il grido di dolore delle altri parti d’Italia.
Il 2° periodo, dopo le battaglie di Palestro, Solferino e San Martino porta alla pace di Villafranca. Qui si stabilisce una Confederazione di tutti gli stati d’Italia. Finisce la guerra ma inizia la rivoluzione, scrive Margotti, e siamo già al 3° periodo, dove il il governo sardo di Torino, dà la Savoia e Nizza alla Francia.
Dopo la pace, Pio IX, scrive una lettera al Cardinale Vicario: «Ringraziare Iddio per la pace ottenuta fra le due grandi potenze cattoliche belligeranti è nostro dovere: ma il seguitare la preghiera è un vero bisogno, giacchè varie provincie dello Stato della Chiesa sono ancora in preda dei sovvertitori dell’ordine stabilito […]». Pio IX faceva riferimento al proclama di Massimo D’Azeglio ai bolognesi e in particolare alle menzognere stragi avvenute a Perugia.
A questo proposito l’Opinione, parlava di uomini e donne uccisi, ma poi si è accertato che molte di queste passeggiavano liberamente sane e salvi, nella città. A pagina 83 del 1° volume, Margotti polemizza con gli italianissimi che facevano fuoco e fiamma, contro la Confederazione italiana presieduta dal Papa. Allora pubblica il 6 agosto 1859 il panegirico, di questa Confederazione, servendosi dei pensieri e delle parole di Vincenzo Gioberti. «Badino bene i liberali di non contraddire un iota solo di ciò che stiamo per scrivere, altrimenti si darebbero della zappa in sul piede, oppugnando colui che vogliono onorare come l’apostolo dell’italiano risorgimento». Gioberti sosteneva che i Papi erano i capi civili della penisola, pertanto il Papa era destinato dalla Provvidenza, ad esser duce e moderatore. «Che il Papa sia naturalmente, e debba essere effettivamente il capo civile d’Italia, è una verità provata dalla natura delle cose, confermata dalla storia di molti secoli, riconosciuta altre volte dai popoli e dai principi nostrali».
Sono indicibili i beni che l’Italia riceverà dalla Confederazione, che restituirà l’antico onore in Europa ai vari Principi. L’Unità confederativa, non è una novità per gli italiani, è antichissima.
Margotti ripropone a pagina 89, una lettera di un protestante francese, sig Guizot, che è un inno a favore del governo pontificio. «Il Papa non può sostenere che la causa dell’ordine, della pace e del miglioramento regolare e pacifico delle società.». Il Guizot insiste: «Non si dee chiedere al Papa ciò che non può fare come Papa. E ciò che il Papa può fare o non può fare non deve dirlo né Cavour a Torino, né D’Azeglio a Bologna, né Walewski a Parigi, né Palmerston a Londra; Pio IX è il solo che possa dirlo, e bisogna rimettersene a lui, e venerare la sua decisione. Il Papa non può accettare il Codice Napoleone, non può separarsi dalle Legazioni, non può secolarizzare il Papato.
Il direttore de l’Armonia, cita molte testimonianze a favore del potere temporale del Papa, tanto da riempire dieci pagine. Si tratta di liberali, eretici, gallicani, increduli. Inizia con Fleury che fa riferimento al gran vescovo Bossuet, al suo splendido discorso sull’unità della Chiesa: «Dio che voleva che questa Chiesa, la madre comune di tutti i regni, non fosse dipendente d’alcun regno nel temporale, e che la sede dove tutti tutti i fedeli dovevano conservare l’unità venisse posta finalmente posta al disopra delle parzialità […]Egli è per una felice conseguenza delle loro liberalità che la Chiesa, indipendente nel suo capo da tutte le potenze temporali, si trova nella condizione d’esercitare più liberamente, per il bene comune e sotto la comune protezione dei re cristiani, quella potenza celeste di reggere le anime, e che, tenendo in mano la bilancia ritta in mezzo a tanti imperi spesso nemici, conserva l’unità di tutto il corpo, ora con inflessibili decreti, ed ora con saggi temperamenti». Mentre Bonnet, poteva testimoniare che il «il popolo romano è il più felice di tutti i popoli d’Europa».
Ancora più chiaro il liberale fiorentino, Leopoldo Galeotti: «La sovranità temporale, garantisce al papato l’indipendenza nel modo stesso che il dominio di beni e rendite proprie garantisce alla Chiesa la libertà […] Se il Papa fosse rimasto in Avignone, egli sarebbe divenuto un grande elemosiniere di Francia, che niun’altra nazione avrebbe riconosciuto fuorchè la Francia: un Papa suddito di Carlo V non sarebbe stato accettato come arbitro di pace da Francesco I». Gioberti sentenzia che «il principato dei Pontefici è uno dei più legittimi del mondo».
Gibbon, filosofo eretico, del potere temporale scrive: «la loro dominazione temporale si trova fondata su mille anni di rispetto, e il loro più bello titolo alla sovranità è la libera scelta d’un popolo che liberarono dalla schiavitù».
Ma se ci sono i lontani che inneggiano al Papa-Re, esistono quelli che gli fanno la guerra. A pagina 157, Margotti dà conto delle dottrine e degli uomini contro il cattolicesimo, come Lelio Socino, con il razionalismo moderno. Burlamacchi, che voleva sbarazzarsi del Papa-Re, senza avvedersi dei tanti Re-Papi, quanti sono i governi degli Stati. La sua teoria ha creato in Europa «una moltitudine di Papa-Re destinati ad assicurarci della verità, ed obbligarci a praticare la vera religione». A pagina 202, si fa una breve storia dei Nemici del Papa-Re. Si va dallo gnosticismo al razionalismo, passando per la rivoluzione francese.
A pagina 240 troviamo una bella apologia del potere temporale dei Papi, non parla Margotti, ma l’Araldo Cattolico: «della ragione tutta provvidenziale, onde il Papato si trova fiancheggiato dal civile principato, e che ogni cattolico dovrebbe riconoscere legittima; la libertà vale a dire che esso procaccia al S. Padre e indipendenza da qualunque pressione esteriore di prepotenti nell’esercizio del suo sublime ministero».
Siamo sempre al 3° periodo e il testo di Margotti si occupa delle varie conquiste dei rivoluzionari nel centro Italia: a partire del Ducato di Modena, da parte del dittatore Carlo Farini, che cerca in tutti i modi di trovare negli archivi del Duca Francesco qualcosa di compromettente, per poi consegnarlo agli italiani all’Europa. Secondo il sacerdote il processo contro Francesco V, si è ritorto contro gli stessi rivoluzionari, anzi è stata una splendida apologia del medesimo.
Poi si interessa del Granduca di Toscana anche qui si registra la stessa strategia dei rivoluzionari, si sono letteralmente “intronizzati” al posto dei loro predecessori. Infatti scrive Margotti: «Se da Firenze voi vi recate a Modena la cosa è ancora più manifesta. Là il primo conservatore è oggidì il dittatore Farini, che trovasi nel palazzo ducale circondato da guardie d’onore, con sei servitori dalle calze di seta e dalle parrucche incipriate che pendono dalle sue labbra, ottima tavola, cuochi con tre livree, e una batteria di cucina da degradarne l’artiglieria francese. Ha titolo d’Eccelso e vive eccelsamente; invita, danza, fa danzare; oh il Ducato di Modena può dirsi oggidì veramente rigenerato!». E ancora il giornalista, continua «Andate nelle altre parti d’Italia dove la rivoluzione trionfa, e troverete che essa ha avuto per unico effetto di mettere gli uomini nuovi al posto degli uomini antichi, e quelli non si peritano di abbracciare le misure medesime che poco prima condannavano in questi, e proibiscono giornali, e comandano obbedienza cieca, e imprigionano, e non si rifuggono da nessuno mezzo per conservarsi».
Il direttore de l’Armonia prende di mira la figura di Farini, che si fa chiamare l’eccelso, e poi riporta dei particolari abbastanza ridicoli, ripresi dai giornali, dove vengono descritte minuziosamente il lusso delle feste e dei banchetti nel palazzo che fu del Duca. Nel testo Margotti riporta le velleitarie proteste dei principi scalzati dai loro regni. Tutti si appellano all’Europa che non ha fatto nulla per impedire le annessioni al Piemonte.
Nel 2° volume a pagina 100 Margotti dà conto di un viaggio nell’Italia centrale dell’avvocato Angiolo Brofferio, il quale racconta dettagliatamente nelle sue Memorie, quello che ha visto a Parma, a Modena, a Bologna, mentre governavano Farini, Lionetto Cipriani, Bettino Ricasoli. Per quanto riguarda Parma: il pranzo allestito nella stessa sala della Duchessa, con gli stessi camerieri, stessi piatti, stessa argenteria, stessi vini. La stessa cosa avviene a Modena nel palazzo Ducale. Tuttavia alla fine del racconto Brufferio tra tante altre riflessioni, riassume: «Che i democratici mangiavano a due palmenti in Parma a spese della Duchessa e del popolo; che Farini rigenerava l’Italia con pranzi da re, e con sontuose feste da ballo;» Sarebbe interessante dilungarci nei particolari del viaggio di Brufferio.
A questo proposito a pagina 360, è interessante un memorandum che Margotti pubblica su come vivevano i sudditi pontifici. «Noi stiamo bene sotto il governo dei Papi; siamo di quei rari popoli che non sono smunti dai balzelli, che godono vera protezione dei loro diritti, e che si sentono favoriti da un’autorità equa e soave in tutto ciò che è onesto e schiettamente utile al ben pubblico». Non possiamo desiderare di più, «Noi siamo i popoli più felici dell’Europa». Sono veramente interessanti le argomentazioni sulla migliore qualità dei governanti religiosi anziché laici. «Abbiamo in vari intervalli assaggiato il reggime dei laici, e ci è sembrato una calamità a confronto del reggime prelatizio. Il prelato presidente si contenta di poco: non ha moglie, non ha famiglia che lo distragga, non impegni secolareschi: è tutto nel suo uffizio: i poveri, i piccoli sono da lui bene accolti, come gli opulenti e i signori […]». Viene spontaneo il paragone con i governanti laici nelle Romagne ribellate. Basta chiedere alle città di Bologna, di Ferrara, di Ravenna e di Forlì. Chi li ha trattati meglio i Delegati del Santo padre o i Proconsoli di Farini?
Per quanto riguarda il suffragio elettorale in quei territori anche questo sa di farsa. La maggior parte degli elettori si astenne. Più di due terzi si sono astenuti, sulla decima parte dell’intera popolazione che era stata iscritta. A pagina 169, Margotti fa un elenco dettagliato sulle votazioni dell’Italia centrale, sui vari collegi della Toscana.
Importantissime per la Storia sono le parole del conte Cavour, il 12 aprile nella camera dei Deputati: «la cessione di Nizza e della Savoia era condizione ESSENZIALE del proseguimento di quella via politica, che in così breve tempo ci ha condotti a Milano, a Firenze, e a Bologna». Sull’argomento Margotti, così si pronuncia, «provano che se noi andammo a Bologna, ci andammo coll’aiuto, o almeno col consenso della Francia, e che questo aiuto, o consenso, ci sarebbe mancato se il conte di Cavour non se lo avesse comperato colla cessione della Savoia e di Nizza».
Questa via politica, di cui parla Cavour, secondo Margotti è stata indicata bene nell’opuscolo del 22 dicembre 1859: “Il Papa e il Congresso”. Un opuscolo che lo stesso Pio IX è stato costretto a dare una memoranda risposta, definendolo «un monumento insigne d’ipocrisia ed un ignobile quadro di contraddizioni». In pratica le conclusioni finali del libretto sono «che si deve diminuire il territorio e il numero dei sudditi del Papa», è il primo passo per andare ad occupare Bologna.
Secondo Margotti è nell’opuscolo che si manifesta quello che fu veramente la Rivoluzione italiana patrocinata da Cavour: «Promettere e poi fallire alla data parola, stabilire principi e poi rinnegarli, fingere libertà e proclamare tirannia,[…] dare un bacio e macchinare un tradimento, proporre la pace e perpetuare la guerra, riverire la Chiesa e spogliarla, onorare il Papa e metterlo sul lastrico, mentire alla storia, alla logica, al buon senso; ecco le armi di coloro che oggidì combattono contro il Cattolicesimo».
Il testo si occupa del nobilissimo contegno del Papa e del clero, nonostante la palese persecuzione, sia il Papa che la maggior parte dei vescovi e dei preti si mantengono fermi senza arretrare mai. «Accanto ala Papa stanno i prelati cattolici. Essi stringonsi attorno al Padre comune, che diventa tanto più venerato, quanto più ingrossano i nemici, e incalzano i pericoli». Ma non solo quelli della penisola, anche l’episcopato francese, irlandese, spagnolo, tutto il mondo. Tutti erano certi della vittoria, stavano con Pio IX. In più parti del libro, in particolare a pagina 350 del 2° volume, Margotti rappresenta il Santo Padre come Nostro Signore durante la sua Passione. Che cosa si può fare per il Papa? Si chiede Margotti a pagina 366. E’ la domanda che si poneva in un libretto uno studioso francese, St-Laurent. Si possono fare tre cose: Pregare, parlare, dare.
Eppure 16 preti in Romagna venivano gettati in carcere come confessa lo stesso Gioachino Napoleone Pepoli. La stessa cosa avviene in Toscana e anche in altre contrade d’Italia. E nell’avvicinarsi il tempo delle predicazioni dell’Avvento si raccomanda ai vescovi di «tenersi lontani nell’esercizio della loro missione da qualsivoglia allusione alla politica», per evitare divisioni di partito, pertubazioni della quiete pubblica.
Nel 2° Volume, il testo si sofferma sull’arresto del Cardinale Arcivescovo di Pisa, Cosimo Corsi, obbligato a recarsi a Torino. Il motivo dell’arresto non lo sa nessuno. Ma non c’è solo lui, anche il vescovo di Faenza d d’Imola gemono in prigione e tanti altri chierici imprigionati, vessati, unicamente per non aver voluto cantare il Te Deum. Tutto questo nel solo mese di maggio del 1860.
Margotti cita il libro di Giuseppe Montanelli, “L’Impero, il Papato e la democrazia in Italia”nel quale dice molte cose utili, dove spiega che cosa si intende per riforme da far fare al Papa. Che cosa si pretende dal Papa? Probabilmente «ciò che Pio IX non può accordare in coscienza». Secondo i rivoluzionari «si vorrebbe che egli adottasse lo Stato Moderno, ossia i principi di Vestfalia, dell’Ottantanove, e di Napoleone». Montanelli si rende conto che il Papa non potrà mai accettare i principi del relativismo, della secolarizzazione dello Stato. «la questione della secolarizzazione non è nello Stato Papale questione di persone – scrive Montanelli – ma questione di principi: Il governo di Pio IX potrebbe essere secolare senza che pur vi entrasse un laico, e clericale senza che vi avesse mano un sol prete. Quando si dice al Papa di secolarizzare il suo governo, si osa chiedergli, secondo il Montanelli, il matrimonio civile, la libertà dei culti, la legge Siccardi, l’università filosofica, l’abolizione della censura ecclesiastica. La rivoluzione non tacerà finchè non abbia ottenuto questo. E si spera di ottenerlo da un Papa, e da un Papa qual è Pio IX?».
Il mese di giugno del 1860, fu il mese dell’invasione della Sicilia di Garibaldi e delle menzogne diplomatiche del conte di Cavour. «Cavour mandava ad offerire a Garibaldi danaro ed armi, come disse la Gazzetta del Popolo del 28 dicembre, e nella Gazzetta Ufficiale Cavour dichiarava: “Il Governo ha disapprovato la spedizione di Garibaldi, ed ha cercato di prevenirla con tutti quei mezzi che la prudenza e le leggi consentivano!” Come protestava d’aver comandato alla flotta reale d’inseguire i due vapori di Garibaldi e impedire lo sbarco dei Garibaldini, e in una nota presentata al rappresentante del Re di Napoli, condannava Garibaldi, come usurpatore, e poi il 2 di ottobre questo stesso conte Cavour diceva Garibaldi è un generoso patriota; “l’autorità e l’impero di Napoli stanno nelle mani gloriose di Garibaldi”».
Nelle Memorie Margotti riporta dettagliatamente i proclami di Garibaldi e poi di tanti documenti inerenti alla rivoluzione siciliana. Naturalmente le proteste del governo napoletano, soprattutto del Re Francesco. Interessante leggere la nota del Patrimonio del Re di Napoli, confiscato da Garibaldi. Perfino la dote dell’illustre regina principessa piemontese, Maria Cristina è stato confiscato tutto in nome del Re di Piemonte. Risulta abbastanza patetica la lettera del Re di Napoli a Napoleone III. Francesco II probabilmente si era fidato dell’imperatore francese e dell’Europa, ma alla fine perde il suo regno.
A questo proposito Margotti titola un suo quadro: “I Misteri di Napoli”. Si pongono alcune domande chiave sulla caduta di un Regno così stabile e florido come quello delle Due Sicilie.
Il testo poi affronta la guerra contro il Papa, siamo ai fatti del mese di settembre con le invasioni delle Marche e dell’Umbria, è il mese del bombardamento di Ancona, è il mese in cui Cialdini, l’11 settembre diceva ai soldati: «Combattete, disperdete inesorabilmente quei compri sicarii», naturalmente si riferiva all’esercito Pontificio, agli eroi di Castelfidardo, che avevano difeso il Padre comune e avevano sacrificato la propria vita per Pio IX. «Il settembre del 1860 resterà memorando negli annali d’Italia e della Chiesa, memorando per la fedeltà ed il coraggio dei difensori del Papa, memorando per ciò che patirono quei generosi, fatti prigionieri, memorando per la sublime condotta del generale Lamoricière, memorando per l’assedio di Ancona, memorando per essere stata bombardata una città che aveva innalzata bandiera bianca!».
Novembre del 1860, fu il mese delle fucilazioni e delle reazioni nel regno delle Due Sicilie. Il 2 novembre il governatore di Teramo proclama: «I reazionari presi con le armi alla mano saran fucilati, – Cialdini – fucilò tutti i paesani armati – Pinelli – chi insulta la bandiera nazionale sarà fucilato immediatamente – De Virgili – Colpite i reazionari senza pietà». A questo punto Margotti riporta una fucilazione verificatesi a Milazzo ad opera di Garibaldi di trentanove Milazzesi, mentre Nino Bixio proclamava a Bronte la fucilazione.
Domenico Bonvegna